Ripropongo l’articolo pubblicato sull’ultimo
numero di Alfabeta 2 di Vladimiro
Giacchè. Una
versione più ampia e argomentata di queste tesi si trova nel libro dello stesso
Autore intitolato Titanic
Europa. La crisi che non ci hanno raccontato, Aliberti 2012.
È almeno dal maggio
del 2010 – allorché la crisi greca, pessimamente gestita dall’establishment
europeo, esplose con virulenza – che lo Stato, e in particolare i suoi servizi
sociali e le sue prestazioni assistenziali e previdenziali, hanno
preso il posto di banche e speculatori sul banco degli accusati per l’attuale
crisi. Grazie ad un vero e proprio coro dei principali mezzi d’informazione.
Il Washington
Post espresse già allora con ammirevole chiarezza il concetto
fondamentale: “Quanto stiamo vedendo in Grecia è la spirale della morte del welfare
state. … Ogni nazione avanzata, inclusi gli Stati Uniti, deve affrontare la
stessa prospettiva… I problemi sorgono da tutte le prestazioni assistenziali
(indennità di disoccupazione, assistenza agli anziani, assicurazioni sanitarie)
oggi garantite dagli Stati”. Ma il necrologio dello stato sociale
letterariamente più ispirato uscì il 15 maggio sul Sole 24 Ore, a
firma di Alberto Orioli. La sua premessa: “il welfare state del
Vecchio continente si scopre vecchio come la sua patria. E insostenibile”. La
sua conclusione: va messo in gioco “il costoso sistema di protezione sociale
pubblica (che ormai aveva incluso anche la gestione dei posti di lavoro
statali) che ha incarnato per quasi due secoli l’anima stessa del modello
economico continentale. Pubblici dipendenti, pensionati e pensionandi da
antichi referenti di un’Europa politica costruita tra un perenne compromesso
tra stato e mercato e tra individuo e società si sfarinano di fronte ai colpi
della crisi finanziaria che rischia di diventare crisi di moneta e poi crisi di
nazioni”. Ovviamente i “pubblici dipendenti, pensionati e pensionandi” che “si
sfarinano” sono una licenza poetica e grammaticale, ma l’espressione rende
comunque abbastanza bene l’idea di quanto sta accadendo un po’ ovunque a causa
dei “pacchetti anti-crisi” varati da praticamente da tutti i governi europei.
Questi inviti a
smantellare il welfare “per mettere sotto controllo il debito
pubblico” sono piuttosto singolari. E non soltanto perché chi li formula si era
ben guardato dal lanciare analoghi allarmi quando – non molti mesi prima – gli
stati sborsavano migliaia di miliardi per salvare banche e società finanziarie.
Ma anche per un altro motivo: se scorporiamo il debito complessivo di ciascun
Paese nelle sue varie componenti (debito pubblico e debito privato), ci
accorgiamo che la componente di gran lunga preponderante è tuttora
rappresentata dal debito privato (famiglie e imprese). Secondo recenti
elaborazioni di Morgan Stanley, nei paesi del G10 il debito privato è sempre
un multiplo del debito pubblico: in particolare, nel Regno Unito è superiore di
8 volte, in Europa di 4, in Giappone di 3, negli Usa di 2,5 volte. E allora,
perché puntare proprio sul debito pubblico?
Una prima risposta è
rappresentata dall’idea che la riduzione del ruolo dello Stato nell’economia
sia sempre e comunque qualcosa di positivo. A questo presupposto di carattere
ideologico si affiancano però alcuni obiettivi molto concreti. Il primo è
quello di scaricare il costo della crisi su salari indiretti e differiti,
riportando i costi della riproduzione sociale in capo agli individui. I servizi
sociali garantiti dallo Stato sono parte del salario indiretto, mentre le
prestazioni pensionistiche sono salario differito: il salario sociale comprende
anche questi elementi e non soltanto la cifra direttamente percepita in busta
paga. Questa in fondo è l’essenza del welfare State: lo Stato che
interviene come mediatore tra capitale e lavoro, garantendo quella parte del
salario riferita all’utilizzo dei servizi pubblici fornendoli a un prezzo
inferiore a quello di mercato, e ponendoli quindi almeno in parte a carico
della fiscalità generale anziché a carico dei lavoratori. Nel momento in cui si
privatizzano le società che forniscono servizi di pubblica utilità, il
risultato non è soltanto il passaggio dalla mano pubblica a quella privata, ma
anche l’abbandono della logica per cui il diritto alla fruizione a un prezzo
accessibile dei servizi pubblici fa parte dei diritti del cittadino/lavoratore
a favore della logica puramente mercantile, che vede da un lato un venditore di
servizi che deve massimizzare il proprio profitto e dall’altro il cliente che
li compra. Spinta alle sue estreme conseguenze, questa logica conduce alla
sostituzione della sanità privata a quella pubblica, delle pensioni private a
quelle pubbliche, e così via. In questo modo i costi che lo Stato risparmia
vengono portati a carico dell’individuo: sarà il lavoratore con la sua
assicurazione privata a doversi pagare l’intervento ospedaliero, la pensione e
così via.
Il secondo risultato,
connesso ovviamente al primo, è l’apertura al privato del mercato dei servizi
pubblici, e la vendita ai privati delle stesse società pubbliche. In questo
modo vengono dischiusi nuovi ambiti di valorizzazione per il capitale, e si
amplia il perimetro delle attività ricomprese nell’ambito del mercato. Questo
in Italia è avvenuto in modo massiccio negli anni Novanta, durante i quali sono
state privatizzate società manifatturiere e di servizi per un valore
complessivo di 110 miliardi di euro. Non di rado le privatizzazioni hanno
consentito ad imprese private che si trovavano in difficoltà nei settori in cui
operavano di riconvertirsi a fornitori di servizi pubblici, magari in regime di
monopolio (emblematico il caso delle autostrade privatizzate). Questo non ha
affatto giovato alla competitività di sistema del nostro Paese – e infatti i
dieci anni successivi sono stati gli anni di minore crescita e di peggiori
prestazioni in termini di export dal dopoguerra in poi –, ma ha consentito a
molti capitalisti nostrani di continuare a conseguire profitti cospicui pur
perdendo colpi nei settori originari di attività.
Ove poi queste
privatizzazioni siano forzate dall’emergenza, può aversi anche un terzo
risultato, ossia l’acquisto di attività sottocosto da parte di società con sede
in altri Paesi, che potranno così vantaggiosamente concentrare e centralizzare
capitali, magari anche al solo fine di chiudere società concorrenti e acquisire
maggiore potere di mercato: in questo modo la distruzione di capacità
produttiva in eccesso, necessaria per superare la crisi, viene localizzata in
alcuni Paesi e non in altri. Questo genere di situazioni è così descritto da
David Harvey nel suo ultimo libro, L’enigma del capitale e il prezzo della
sua sopravvivenza: “le crisi possono essere orchestrate, gestite e
controllate… Spesso questa è la finalità dei programmi di austerity
amministrati dallo Stato… Forze esterne possono provocare una crisi circoscritta
a un settore o a un territorio; in questo il Fondo Monetario Internazionale ha
una grande esperienza. Il risultato è che periodicamente, in qualche parte del
mondo, si crea uno stock di attività svalutate e in molti casi sottovalutate,
che può essere rimesso all’opera con profitto da chi possiede un’eccedenza di
capitale ma non trova opportunità per impiegarla altrove. Questo è ciò che è
accaduto in Asia orientale e sud-orientale nel 1997-1998, in Russia nel 1998 e
in Argentina nel 2001-2002”. All’elenco di Harvey possiamo ora tranquillamente
aggiungere l’acquisto sottocosto di attività nei Paesi attualmente investiti
dalla crisi nell’Europa meridionale da parte di Paesi del Centro e Nord Europa.
I programmi di
riduzione del debito e di austerity in Europa delineano perciò una
strategia ben precisa di uscita dalla crisi, che attraverso lo smantellamento
del welfare coglie numerosi obiettivi: far sgonfiare la bolla del
debito dal lato del debito pubblico (e non da quello delle imprese private),
far pagare la crisi ai redditi da lavoro – e a beneficio di alcune categorie di
imprese private –, ampliare i mercati estendendoli a settori sinora sottratti
ad essi, redistribuire i rapporti di forza non soltanto tra lavoro e capitale,
ma anche tra capitali localizzati in diversi Paesi.
Vladimiro
Giacchè
Un amico mi ha segnalato il sito http://keynesblog.wordpress.com/ dove si trovano documenti aggiornati sulla teoria economica keynesiana che potrebbero rivelarsi utili per il superamento dell'odierna crisi finanziaria.
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