23 febbraio 2012

Parole di plastica.

 

Lo scorso 19 febbraio su ALIAS ( Il Manifesto) Roberto Gilodi  ha recensito in modo accattivante il  libro di  Uwe Pörksen,   Parole di plastica. La neolingua di una dittatura internazionale.
Anche se non condivido il modo sbrigativo con cui Gilodi  liquida il punto di vista di Pier  Paolo Pasolini che, fin dalla prima metà degli anni sessanta, si era posto  problemi simili a quelli sollevati oggi dallo studioso tedesco, ripropongo per esteso la sua recensione:

 


 
La prima domanda che ci si si pone, leggendo questo saggio di Pörksen, pubblicato ora in edizione italiana dall’editore Textus, ma scritto nel 1988, quando ancora esisteva il muro di Berlino, è come possa un pamphlet sulle degenerazioni della lingua del proprio tempo conservare un potere diagnostico e addirittura un valore predittivo tanto efficaci da sembrare scritto oggi. Se da allora il mondo è radicalmente cambiato non sono forse anche cambiate le parole che lo esprimono?
La ragione della sorprendente attualità di questo libro sta nell’individuazione di un processo che ha avuto inizio con l’avvento della Modernità, ha interessato in forme diverse l’Ottocento e il Novecento ed è destinato a dispiegare i suoi effetti peggiori nei decenni a venire. Un processo che potremmo chiamare di lenta e perdurante disumanizzazione, dovuto alla perdita della ricchezza delle relazioni umane, che da sempre si riflettono nella varietà semantica delle parole della lingua discorsiva. Un impoverimento che ha avuto inizio con la nascita degli stati nazionali, che “sfoltiscono le lingue” e che si rivelano come “ambasciatori dell’omologazione globale”.
Le parole di plastica non sarebbero dunque gli equivalenti linguistici di un “mondo che si è fatto prosa”, secondo la celebre formulazione hegeliana, ma sintomi di una malattia dalla lunga incubazione, parole come destino di un’età in cui l’omologazione si è sostituita alla differenza. In questa analisi di lungo periodo sta sicuramente l’originalità dell’approccio di Pörksen, sebbene il discorso sull’impoverimento della lingua non sia certo nuovo.
Per limitarci al caso italiano vale la pena di ricordare, a questo proposito, un’interessante discussione, che si svolse negli anni Sessanta sulle colonne del Giorno e che a rileggerla oggi pare assai più produttiva e preveggente della nostalgia per l’italiano colto del tempo passato o delle isterie filopuriste di certo filisteismo accademico. Ne furono protagonisti Pasolini, Calvino, Citati, Arbasino, Ottieri. Calvino parlò di “antilingua”- un concetto per certi versi affine a quello delle “parole di plastica” di Pörksen- come della tendenza a fuggire dal significato reale delle parole: “Nell’antilingua i significati sono costantemente allontanati, relegati in fondo a una prospettiva di vocaboli che di per se stessi non vogliono dire niente o vogliono dire qualcosa di vago e sfuggente”. Per Calvino non è la retorica che sta morendo (come pensano alcuni neopuristi) ma il rapporto della lingua con la vita. E il linguaggio tecnologico, a differenza di quanto pensava Pasolini, poteva diventare una risorsa preziosa, a patto che s’innestasse sulla lingua viva. “Se si innesta sull’antilingua ne subirà immediatamente il contagio mortale, e anche i termini “tecnologici” si tingeranno del colore del nulla”. (L’articolo è raccolto in Una pietra sopra).
 Torniamo ora al saggio di Pörksen.“Parole di plastica”: quali? “Si tratta di non più di una trentina di vocaboli, - ci spiega l’autore - una sorta di parvenu nipoti della scienza presenti all’interno del linguaggio quotidiano”. Con una denominazione tecnica si dovrebbero definire: “stereotipi connotativi”. Esempi: relazione, comunicazione, sviluppo, informazione, sessualità, progresso, energia, management, funzione, struttura, sistema. “Parole ameba” le chiama anche l’autore, utilizzando un’espressione di Ivan Illich, che ha avuto una parte attiva nell’elaborazione di questo saggio. Termini che cambiano la loro forma adattandosi alle intenzioni comunicative di chi li usa. Ma soprattutto termini che sono frutto di una duplice migrazione: partiti dalla lingua comune sono entrati nel dominio delle scienze per poi fare nuovamente ritorno alla lingua comune. In quanto termini scientifici, i concetti che essi esprimono diventano “verità assolute”. Dopo questa investitura canonizzante, quando ritornano al linguaggio colloquiale, acquistano una valenza mitica, che espropria il linguaggio quotidiano delle sue prerogative discorsive ed esercitano una sorta di tirannia connotativa a cui diventa impossibile sottrarsi. 
Le dittature del Novecento hanno funzionato in questo modo - si pensi al termine “razza” e alla diffusione delle teorie eugenetiche su cui si sono modellati i lessici del Fascismo e del Nazionalsocialismo. “Le parole - afferma Pörksen - sono canali che precorrono la storia, la quale segue il loro corso”. E quando si affermano in modo autoritario - da questo punto di vista non ci sono sostanziali differenze tra dittatura e democrazia - espropriano i parlanti della loro capacità di integrarle nei diversi contesti culturali e comunicativi: esse si impongono con tutto il potere di assoggettamento mitico di cui sono cariche. A farne le spese è l’immediatezza intuitiva dei parlanti e la loro libertà di rimodellare il senso delle parole. Non solo: trasformate in neomitologemi oppressivi le parole di plastica inibiscono la capacità critica di chi le usa.
Una lingua di plastica o, per dirla con Calvino, un’antilingua di rara potenza distruttiva è stata quella del Terzo Reich, la Lingua Tertii Imperii, di cui ha parlato Viktor Klemperer in un bellissimo saggio, che meriterebbe finalmente un’attenzione non episodica. Klemperer ha dimostrato come la violenza dell’ideologia nazionalsocialista abbia prodotto una pervasiva trasformazione semantica delle parole della quotidianità, sospendendole tra scienza e mito. La stella polare del ragionamento di Pörksen è il Nietzsche delle Considerazioni inattuali: “dappertutto il linguaggio è malato e l’oppressione di questa mostruosa malattia pesa su tutto lo sviluppo umano. Il linguaggio ha dovuto percorrere tutta la scala delle sua possibilità per abbracciare il regno del pensiero. (…) La sua forza si è esaurita per questo stiramento eccessivo nel breve spazio di tempo della civiltà moderna. (…) L’uomo non può più farsi conoscere nel bisogno mediante il linguaggio, cioè non può più comunicare veridicamente. (…) (gli uomini) sono presi dalla follia dei concetti generali, anzi dei puri suoni verbali, e in conseguenza di questa incapacità di comunicare, le creazioni del loro senso collettivo portano poi a loro volta il segno dell’incomprensione, in quanto non corrispondono ai bisogni reali”. Se l’esito estremo de La lettera di Lord Chandos di Hoffmansthal è la morte della parola, ossia il silenzio, quello invece preconizzato da Nietzsche in questo passo è il trionfo dell’inautentico: l’astrazione dei “concetti generali”, anziché semplificare la comunicazione, la rende di fatto impossibile. Un pericolo avvertito con lucidità da Tocqueville, che nel XVI capitolo de La democrazia in America intitolato “Come la democrazia americana ha modificato la lingua inglese” scrive, anch’egli profeticamente: “Queste parole astratte che riempiono le lingue democratiche, di cui si fa uso ogni momento senza collegarle ad alcun fatto particolare, allargano e nascondono il pensiero: rendono l’espressione più rapida ma l’idea meno netta”.
Cos’è accaduto dunque? Che il mito cacciato dalla porta delle scienze ritorna subdolamente dalla finestra del linguaggio colloquiale: le parole di plastica, paradossalmente, non hanno più alcuna relazione con il mondo reale, con il ‘mondo della vita’, ma sono “modi astorici di interpretare il mondo”. In questa impotenza del dire viene meno tanto la fiducia illuministica nella soggettività razionale e eticamente responsabile quanto la fede storicistica nelle “magnifiche sorti e progressive”; al loro posto si fa strada, nelle vesti di un nuovo repertorio mitologico, la tentazione nichilistica, che accompagna, fin dalle sue origini, la Modernità. Come ci hanno insegnato Adorno e Horkheimer in Dialettica dell’illuminismo- un libro anch’esso dimenticato - la barbarie è il pericolo che si annida nel cuore della razionalità moderna.
Roberto Gilodi
         Questo testo,  pubblicato da Alias (Il Manifesto) il 19 febbraio 2012, ora si trova in     http://www.doppiozero.com.
 
 

1 commento:

  1. Anche il compianto Giorgio Bocca, per vie diverse, aveva compreso i danni prodotti dalla "lingua di palstica": "«Rispetto alla monotonia e all’opacità plastica del politichese e della lingua allo stato attuale di imbalsamazione, la lingua dei dialetti, nativa e creativa, era ricca di innovazioni. Si nutriva, per cominciare, dei nomignoli, di ogni persona o cosa non si accontentava di un nome ufficiale, trovava un nome evocativo, caricaturale, che ne dipingeva a gradi esatti il carattere. Uno di pelle scura e di modi autoritari diventava ël negher, ogni diversità fisica era ricordata e cucinata in varie forme: ël dritt, ël sòpp, ël quattreuj per dire il miope con gli occhiali. C’era del prefabbricato, dell’usato, in tutti i dialetti come in tutte le forme di comunicazione, ma non si perdeva mai completamente il vigore della vita, della riconoscibilità. Di uno che era basso di statura si diceva “va a spassé con ël c un linguaggio chiaro, lucido, ma freddo, noioso, una litania mandata a memoria che a ogni interruzione viene ripresa dal punto di partenza. Sarà effetto della vecchiaia, della memoria lunga, ma spesso mi sorprendo a parlare in piemontese, a usare detti e motti dialettali anche più difficili da pronunciare che in italiano, vedi “doi povron bagnà ‘nt l’euli” (due peperoni intinti nell’olio) o “dëstortóite” per dire sciogliti, sii sincero. Anche al tempo dei dialetti ci fu differenza tra quello usato dal popolo e quello dalla classe dirigente, ma in pratica il dialetto era una lingua popolare comprensibile a tutti, era la lingua con cui potevi rivolgerti a una guida alpina come a un capufficio o a un ufficiale, era la lingua con cui Vittorio Emanuele II si rivolgeva ai soldati piemontesi nella battaglia di San Martino: “Fieuj, domse da fé përchè se nò San Martin (tradizionalmente il giorno del trasloco dei mezzadri) an lo fan fé a noi”.
    Questo discorso sul dialetto e sulla lingua non è una questione astratta, ma riguarda un problema gravissimo per la civiltà di un Paese, riguarda la possibilità di avere una lingua veramente espressiva e compresa da tutti. I telegiornali e le altre informazioni politiche sono praticamente inascoltabili: una rifrittura di parole che non significano più niente, di luoghi comuni verniciati e inespressivi. Il discorso politico degli italiani, il modo italiano di occuparsi di politica con questa lingua asfittica è praticamente impossibile. Nella Camera dei deputati e negli uffici della politica si parla il “politichese”, un linguaggio burocratico noioso, senza colore e senza sapore.
    Un deputato vale l’altro, un partito vale l’altro: tutti ripetono delle formule stantie, solo raramente qualche uomo politico di spicco e di carattere riesce a ritrovare una comunicazione persuasiva o comunque interessante. La noia è la madre del qualunquismo».
    Giorgio Bocca, da “Il Venerdì di Repubblica” del 29 marzo 2011

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