Gianmaria Testa
Le traiettorie delle mongolfiere
Lasciano tracce impercettibili
le
traiettorie delle mongolfiere
e l'uomo che sorveglia il cielo
non
scioglie la matassa del volo
e non distingue più l'inizio
di
quando sono partite
sopra gli ormeggi e la zavorra sono
partite
tolti gli ormeggi e la zavorra
sono partite
A
guardarle sono quasi immobili
lune piene contro il cielo chiaro
e
l'uomo che le sorveglia
adesso non è più sicuro
se veramente
sono mai partite
oppure sono sempre state lì
senza legami,
colorate e immobili
così
Anche noi, anche noi
con gli
occhi controvento al cielo
abbiamo cercato e perso
le tracce
del loro volo
dentro le nuvole del pomeriggio
nei pomeriggi
delle città
ma chissà dove è incominciato tutto
chissà
Anche
noi, anche noi
con le mani puntate al cielo
abbiamo inseguito e
perso
le tracce del loro volo
anche noi, anche noi
nelle
nuvole del pomeriggio
nei pomeriggi delle città
ma chissà
dove è incominciato tutto
chissà
Erri De Luca
Allora compagno, non ci
abbracceremo più. Non abbiamo creduto ai generosi tempi
supplementari dell’aldilà, perciò ci siamo abbracciati al termine
delle nostre serate su un palco. Erano precedute da una cena e dal
vino, che ci seguiva anche sulla pedana della ribalta. Ci siamo
abbracciati, cento, mille volte, il mio braccio ha lo stampo della
tua spalla, il tuo braccio della mia. Usciva, dal fascio di luce
senza inchini, salutando con il verso di una tua canzone:
e con la mano, che
non veda nessuno,
con questa mano ti saluterò.
*****
Ricordiamo Gianmaria Testa, cantautore dal percorso umano e
artistico “differente”, scomparso prematuramente questa mattina, con
un’intervista realizzata nel 2007, uscita originariamente su Carta
(fonte immagine).
Gianmaria Testa è una delle figure più interessanti della canzone
d’autore contemporanea: dopo un esordio “francese”, sta finalmente
avendo il successo che merita anche da noi. Di poche settimane fa è
l’assegnazione della Targa Tenco come miglior disco a «Da questa parte
del mare». Ora viene ristampato «Lampo», il suo terzo disco, che risale
al 1999, in una bella edizione con i testi tradotti in inglese,
francese, tedesco. «La traduzione dei testi è uno dei motivi della
ristampa – spiega Gian Maria Testa, che abbiamo incontrato a Roma –
L’altro è che questo disco in Italia è stato distribuito poco e male.
Eppure c’erano molte richieste: qualcuno l’ha comprato all’estero,
qualcun altro l’ha scaricato da internet. Ora Harmonia Mundi ha deciso
di ripubblicare anche questo, come ha fatto con i primi due, in formato
libro-disco».
In «Lampo» indaghi la dinamica del tempo. Di tempo dal 1999 ne è passato: cosa resta?
Avrei voluto ricantarle, queste canzoni. Perché fare un disco
significa fare una fotografia di quel momento lì. Poi le canzoni
evolvono. Queste, poi, le ho spesso cantate in concerto. Le ragioni che
hanno portato alla loro scrittura si allontanano, quella che poteva
essere una rabbia magari è diventato un ricordo malinconico. Allora la
canti in modo un po’ diverso. Comunque sia, prima di ogni disco dico ai
musicisti che dobbiamo poterci sedere in un bar, alla fine del lavoro,
bere un bicchiere e dirci che tra vent’anni non avremo vergogna di
quello che abbiamo fatto. Con «Lampo» è successo. Quelle canzoni
raccontavano la loro piccola verità tutt’ora valida, nonostante il
depositarsi degli anni.
Il successo è arrivato tardi. Il primo disco a 36 anni…
Ho fatto il ferroviere, il capostazione a Cuneo, fino al primo aprile
di quest’anno. L’ho fatto per 25 anni. Anche quando già mi andava bene
non ho voluto smettere. Ora ho dovuto, perché è un lavoro che richiede
una certa resistenza. Ho fatto il primo disco a 36 anni perché fino ad
allora non avevo ricevuto proposte serie: in Italia mi si chiedeva
sempre di cambiare qualcosa, volevano “confezionare un prodotto”. Poi
dalla Francia arrivò la proposta della Label Bleu, che mi ha lasciato
piena libertà. Con loro sono stato chiaro: io ho una famiglia e un
lavoro, e non intendo stravolgere la mia esistenza. Loro hanno accettato
e gli ha portato bene, perché è stato il disco più venduto della Label
Bleu.
Per la prima volta al Premio Tenco hanno vinto cinque artisti di etichette indipendenti. È un segnale?
È un fatto molto importante. Per il premio ero contento come un
bambino, perché lo seguo da quando ero ragazzo e ha sempre rispecchiato i
miei gusti. Ero molto contento ma anche in imbarazzo: perché io mi
chiamo volentieri fuori dalla mondanità di questo mestiere, sono solo
uno che fa canzoni. Per quanto riguarda le etichette indipendenti, penso
che non sia casuale. Le major hanno perso la loro forza, gli è stata
tolta dall’andare avanti delle cose. Io, ad esempio, non riesco ad
essere contrario al “file sharing”: non potrei mai dire a uno che si
scarica il mio disco che lo sta rubando. Se ti scarichi un disco e ti
piace probabilmente dopo lo compri, se puoi permettertelo. Se non puoi
permettertelo, è giusto che lo ascolti comunque.
Perché la Francia scopre prima i nostri cantautori?
Non so risponderti. Io all’estero non ho un pubblico di
italo-qualcosa, cioè di migranti: quelli sentono di più Toto Cotugno,
cercano l’Italia che hanno lasciato. Non sono aggiornati. Ma nell’area
francofona esiste un gusto per quella che viene definita «une voix à
l’italienne»: nel loro immaginario ci sono due voci all’italiana, il bel
canto e la voce ruvida. Un tipo di canto che non c’è nel loro panorama
musicale, e forse per questo la amano. Ma succede anche altrove, a
Vienna o in Germania.
Spesso ai cantautori si chiede un “messaggio”. A sinistra, più che altrove, si fa questa associazione facile.
Non ho mai creduto alla propulsione politica delle canzoni, mentre
credo molto al dovere dell’atteggiamento. Un atteggiamento politico
significa dire i sì e i no necessari. Io vengo da una generazione che
diceva “anche il privato è politico” e sono rimasto molto legato a
quella concezione. Oltre alla politica, occorre avere un comportamento
etico coerente. Un obbligo che sento è far saper al pubblico da che
parte sto, così che si possa regolare. Ad esempio, dopo il mio ultimo
disco sull’emigrazione ho ricevuto delle contestazioni: dopo un concerto
a Treviso, un gruppo di persone è venuto da me e mi ha detto «belle le
canzoni, ma non condividiamo nulla». Va bene anche quello, è un modo di
discutere.
Quindi un musicista deve schierarsi?
Penso di sì. Questi sono tempi di grande confusione, non si può
generarne altra. I ragazzi vivono una condizione difficile: noi, quando
eravamo giovani, credevamo che il futuro sarebbe stato pieno di cose
migliori; ci siamo sbagliati, certo, ma pensa ai ragazzi di oggi, che
vedono il futuro come una dimensione peggiorativa del presente. Da ogni
punto di vista: ambientale, sociale, politico… Non si può vivere
serenamente il presente, se non ci sono prospettive per il futuro.
Il disco sull’emigrazione l’ho fatto proprio per i ragazzi, per
ricordare a loro e a noi quello che eravamo solo qualche decennio fa:
immigrati. Anche a casa nostra. A Torino si scriveva sulle case
“Affittasi ma non ai meridionali”. È passata una sola generazione, e già
abbiamo un partito xenofobo come la Lega, facciamo leggi speciali,
abbiamo i Cpt.
Viviamo in un mondo al contrario: gli Usa, che sono la più grande
nazione di emigranti – perché hanno sterminato la popolazione originaria
– stanno facendo un muro per bloccare altri emigranti come loro. Credo
che la storia ci renderà conto di questo atteggiamento, di questo
disumanesimo.
Certo, so che non è facile, anche a me può dare fastidio che andando in
macchina tentino sei volte di lavarmi il vetro, ma non mi fermo lì. Come
non riesco ad aderire a questa richiesta di sicurezza. Ma davvero vi
sentite assediati? Ma da cosa? Io non voglio sentire che la sicurezza
deve essere una delle priorità della sinistra, ma scherziamo?
Tu, da cantautore, hai a che fare con la parola. Se negli
anni della tua formazione la parola era il tempio del confronto, oggi
sembra sia diventata il tempio della mistificazione. Com’è stato
possibile?
La parola ha seguito il destino dei contratti. C’è stato un tempo in
cui una stretta di mano valeva tutto. Ti racconto un episodio: mio padre
comprava le uve Barbera da due fratelli poveri in canna che avevano
solo una vigna. Noi il vino ce lo facevamo da soli. Uno dei fratelli si
faceva 25 chilometri tra le colline per venire a contrattare con mio
padre. Concluso l’affare si stringevano la mano. Un anno, Pinotto (il
suo nome, cioè Giuseppe) tornò il giorno dopo e mio padre gli chiese:
«Cos’è successo?, ci siamo visti ieri…». Lui rispose: «Mi sono
sbagliato, ti ho chiesto una lira in più». Mio padre aveva accettato il
prezzo perché pensava fosse il giusto, perché non si sarebbero mai
traditi dopo una stretta di mano. Lo stesso valeva per Pinotto.
La superficialità con cui abbiamo tradito qualunque cosa ha tradito
anche il potere della parola. Se guardo la tv e vedo, che so, Ballarò,
spengo. Perché quelle chiacchiere, da qualunque parte provengono, non
servono a nulla. Oggi si afferma e domani si rettifica. Da quanto tempo è
così? Qualcosa di salvifico credo possa venire non tanto dalla canzone,
ma dalla poesia. La canzone si è tradita mille volte, oggi si
giustifica con una bella voce e dei capelli biondi… È un peccato, perché
la canzone è davvero popolare, arriva subito. Ma d’altronde è normale;
come diceva Troisi, il successo è un megafono: se sei stronzo, diventi
mille volte più stronzo.
da http://www.minimaetmoralia.it/wp/altre-latitudini-in-ricordo-di-gianmaria-testa/