Si dice che Kraus lavorasse di notte
per non essere disturbato dalla stupidità che abitava il giorno. In effetti,
lavorava di notte per annotare con puntiglio maniacale ciò che la stupidità
aveva prodotto e aveva consegnato trionfalmente ai giornali. Il Grande
Testimone, durante la guerra, non dormì mai: la macchina della stupidità
lavorava troppo a pieno ritmo perché lui si potesse distrarre. Ed eccolo ad
accumulare, notte per notte, a scrivere la sua Apocalisse, l’Apocalisse del
Mondo di Ieri che altri avrebbero mitizzato e che lui aveva sempre fustigato.
Gli stupidi erano stati sempre lì a due passi: tra la Kartnerstrasse e la
Hofburg, e la stupidità si stendeva regolare sulle colonne della «Neue Freie
Presse». Sino al 1914 gli era bastato sporgersi dalla finestra per sentire il
rumore della chiacchiera, il cui spettro sonoro fissava, maligno, nella Fackel,
la sua rivista rosso fiammeggiante. Era convinto, come altri viennesi:
Schònberg, Loos, Wittgenstein, che tutto accadesse nella lingua e che la sua
corruzione indicasse la corruzione dei valori. Un tic, un lapsus, un errore:
Kraus li collezionava, li sbeffeggiava, il più delle volte si indignava, ma
soprattutto li esibiva come prova della corruzione. Dopo il 1914 il rumore del
bavardage fu raddoppiato dal rumore dei cannoni: ma Kraus lesse quest’ultimo
come il prodotto del primo e ancora una volta gli bastò sbirciare sull’angolo
di Sirk (tra Kartnerstrasse e l’Opera) per scorgere la barbarie, anzi per fare
di quell’angolo elegante il centro della barbarie. In fondo per Kraus la Grande
Guerra si svolge tutta lì, in quell’angolo di cartapesta, davanti a quella
quinta, su una passerella sulla quale scivolavano gli orrori della guerra ma
soprattutto quelli che Kraus accusa come i responsabili di quegli orrori:
l’imperatore, la nobiltà, i ministri, i politici, i giornalisti (la
journaille), gli ebrei. Da grande satirico, Kraus fissa i tratti fisici, i
gesti sociali, e soprattutto la maschera sonora di questi personaggi d’operetta
che si accalcano in quell’angolo o vagano nella stanza dei Palazzi o si
disperdono negli scenari di guerra. Gli ultimi giorni dell’umanità che
Kraus scrive e riscrive tra il 1915 e il 1922, tragedia in cinque atti con un
prologo ed un epilogo, può essere letta come un protocollo linguistico, una
grande partitura che contiene la stupidità imperial-regia esemplificata in
tutti i suoi registri linguistici. E Kraus stesso ad affermare che nella sua
tragedia «le più crude invenzioni sono citazioni», inchiodando i suoi
personaggi ad una follia vissuta come sano eroismo. La natura documentaria
della tragedia illustra una singolare fedeltà ai materiali citati attraverso la
tecnica del collage che mira all’esasperazione dei materiali assemblati. Il
«contatto raccapricciante», come scrive Edward Timms, è la tecnica combinatoria
dei materiali che deve scatenare nell’ascoltatore l’indignazione. Nel fare
scivolare i suoi personaggi d’operetta, nel sorprenderli nei loro tic
linguistici che sono tutt’uno con le loro scelleratezze sociali, Kraus vuole
che il lettore rida e s’indigni perché la guerra l’hanno voluta tutti. Non solo
la guerra è ignobile e orrenda ma è la sua lingua che dal fronte si è
disseminata dentro la società. Poco meno di venti anni dopo il grande filologo
Victor Klemperer - cugino di Otto, il direttore d’orchestra - epurato dai
nazisti inizierà ad annotare in un suo taccuino la disseminazione del nazismo
dentro la lingua tedesca per forgiare la Lingua Tertii Imperi (Ltl).
Essendo per Kraus come poi per
Klemperer gli agenti principali di questa disseminazione la journaille e la
burocrazia.
Negli Ultimi giorni Kraus si
accanisce impietosamente con la corrispondente di guerra Alice Schalek. Nei
«pezzi» di Alice dal fronte, la guerra si fa racconto nobile, eroico,
sentimentale, e questo racconto fa trasparire una fascinazione che altri, in
modo più sottile della Schalek, esprimeranno coniugando sangue e acciaio e
preparando l’avvento del nazismo. La lingua dei giornali si identifica con la
lingua della guerra: i giornali sono il luogo del discorso della guerra e per
questo Kraus attacca la Schalek. Per cinque atti, per quasi settecento pagine,
per otto ore in teatro, Kraus attacca chi consapevolmente o no parla la lingua
della guerra avendo sempre più chiaro negli anni di scrittura e riscrittura
della tragedia che in gioco nella Grande Guerra non sono l’onore o il valore ma
soltanto la merce e il suo modo di produzione. Questo sterminato protocollo
linguistico è il solitario, beffardo atto d’accusa di chi la guerra non l’aveva
voluta ma soprattutto non l’aveva veramente mai parlata. L’ultima battuta
dell’epilogo che chiude la tragedia è di Dio: «Io non l’ho voluta». E un
epilogo in cui Kraus prende a modello il Faust di Goetheper affermare la forte valenza morale della sua opera e per suggerirci
che Gli ultimi giorni sono l’esito infernale del furore modernizzatore di
Faust. La Grande Guerra se chiuse un’epoca di stupidità ne aprì un’altra in cui
la lingua della guerra-merce farà tacere le altre. Il silenzio di Kraus di
nuovo quando Hitler prese il potere è la prova di una profezia inascoltata.
Piero Violante, Swinging Palermo,
Sellerio Editore, Palermo, pp.156-159
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