il monumento
di Davide Orecchio
Molti italiani hanno amato Montanelli perché ha dato loro una grossa mano a mettere in parentesi il fascismo passato, a normalizzarlo e banalizzarlo. Sin dai primi libri, a regime ancora “fresco” (Qui non riposano, 1945) Montanelli fu “uno dei principali artefici di una memoria consolatoria del fascismo, che andava incontro al desiderio degli italiani di cancellare il ricordo delle passate responsabilità” (Luca La Rovere, L’eredità del fascismo: gli intellettuali, i giovani e la transizione al postfascismo, p. 314).
Così il fascismo del singolo e della comunità diventava pochezza, debolezza, sotterfugio. Qualcosa di perdonabile senza necessità di processo. Una malattia non grave senza obbligo di de-fascistizzazione. Si potrà comprendere quanto rilevasse una simile posizione nel dopoguerra, nella società italiana postfascista. L’autorevolezza di Montanelli cresceva nello specchio di centinaia di migliaia di lettori che chiedevano strumenti di autoconsolazione e giustificazione. Si cercava come il pane una divulgazione che diluisse il fascismo, che lo riducesse tutt’al più a tentativo autoritario, e sconfitto, di modificare il carattere italiano: un carattere più ridicolo che criminale, e impermeabile a qualsiasi totalitarismo.
Poi è nato il monumento.
Certo, era un grande giornalista. E le sue battaglie e cronache, tra anticomunismo su scala globale (la Lettera 22 sulle gambe) e fustigazione morale del costume nazionale, alimentavano poi la credibilità della sua vena “storiografica”. Ma, a parte il fatto che proprio i grandi giornalisti, ancor più dei giornalisti normali, sono capaci di scrivere grandi sciocchezze, anzi più un giornalista è grande più corre il rischio di scrivere grandi sciocchezze, abbiamo capito in cosa consistesse parte del successo di Montanelli: era lo scrittore che una certa comunità, un certo pubblico, rendeva grande perché aveva bisogno proprio di quella versione lì per assolversi e andare avanti.
Di nuovo: il monumento. Montanelli è diventato monumento in un’Italia che non ha mai fatto i conti col proprio fascismo, e che anzi l’ha fatto risuonare in continuità negli apparati, nell’amministrazione, nell’ideologia.
Sulla guerra d’Africa, poi, le posizioni di Montanelli sono sempre state sconcertanti. Non si ricorda solo l’episodio della bambina comprata in moglie, giustificato da Montanelli in articoli e interviste e nella famosa apparizione tv con candore tra ipocrisia, pseudostoricismo e pseudoantropologia (“in Africa è un’altra cosa”, era usanza del tempo), e che gli è costata ora la vernice delle femministe milanesi. Ci fu anche la polemica assurda con lo storico Angelo Del Boca, dove Montanelli si ostinò a lungo a minimizzare l’uso del gas, mentre Del Boca produceva in prova i telegrammi di Mussolini con l’ordine di gettare l’iprite sugli abissini. Non era solo una difesa autobiografica, dovuta al fatto di aver partecipato a quella campagna. Il problema era che l’aggressione all’Abissinia, assieme alle leggi antiebraiche, era il fatto storico che più di altri sabotava il monumento al “fascismo macchietta”, al fascismo episodico. C’era dunque una Storia – e qualcuno si ostinava a raccontarla – che resisteva alle procedure di depotenziamento e riduzione dello scandalo fascista, che si opponeva agli espedienti e agli annacquamenti. Questa storia più veritiera c’è sempre stata. Anche in nuovi libri di storiche e storici, di scrittrici e scrittori, continua a parlare e a farsi leggere. Ma appunto non è monumento (o storiella): è storia.
Mentre un monumento, imbrattato di vernice rosa o immacolato, difeso o contestato, per dirla con Alessandro Manzoni: “non è una storia: anzi talvolta è, non solo molto meno, ma qualche cosa di contrario alla storia”
(Storia della Colonna Infame, cit. in Salvatore S. Nigro, La funesta docilità, p. 134).
Pezzo ripreso da https://www.nazioneindiana.com/2019/03/12/il-monumento/
Molti italiani hanno amato Montanelli perché ha dato loro una grossa mano a mettere in parentesi il fascismo passato, a normalizzarlo e banalizzarlo. Sin dai primi libri, a regime ancora “fresco” (Qui non riposano, 1945) Montanelli fu “uno dei principali artefici di una memoria consolatoria del fascismo, che andava incontro al desiderio degli italiani di cancellare il ricordo delle passate responsabilità” (Luca La Rovere, L’eredità del fascismo: gli intellettuali, i giovani e la transizione al postfascismo, p. 314).
Così il fascismo del singolo e della comunità diventava pochezza, debolezza, sotterfugio. Qualcosa di perdonabile senza necessità di processo. Una malattia non grave senza obbligo di de-fascistizzazione. Si potrà comprendere quanto rilevasse una simile posizione nel dopoguerra, nella società italiana postfascista. L’autorevolezza di Montanelli cresceva nello specchio di centinaia di migliaia di lettori che chiedevano strumenti di autoconsolazione e giustificazione. Si cercava come il pane una divulgazione che diluisse il fascismo, che lo riducesse tutt’al più a tentativo autoritario, e sconfitto, di modificare il carattere italiano: un carattere più ridicolo che criminale, e impermeabile a qualsiasi totalitarismo.
Poi è nato il monumento.
Certo, era un grande giornalista. E le sue battaglie e cronache, tra anticomunismo su scala globale (la Lettera 22 sulle gambe) e fustigazione morale del costume nazionale, alimentavano poi la credibilità della sua vena “storiografica”. Ma, a parte il fatto che proprio i grandi giornalisti, ancor più dei giornalisti normali, sono capaci di scrivere grandi sciocchezze, anzi più un giornalista è grande più corre il rischio di scrivere grandi sciocchezze, abbiamo capito in cosa consistesse parte del successo di Montanelli: era lo scrittore che una certa comunità, un certo pubblico, rendeva grande perché aveva bisogno proprio di quella versione lì per assolversi e andare avanti.
Di nuovo: il monumento. Montanelli è diventato monumento in un’Italia che non ha mai fatto i conti col proprio fascismo, e che anzi l’ha fatto risuonare in continuità negli apparati, nell’amministrazione, nell’ideologia.
Sulla guerra d’Africa, poi, le posizioni di Montanelli sono sempre state sconcertanti. Non si ricorda solo l’episodio della bambina comprata in moglie, giustificato da Montanelli in articoli e interviste e nella famosa apparizione tv con candore tra ipocrisia, pseudostoricismo e pseudoantropologia (“in Africa è un’altra cosa”, era usanza del tempo), e che gli è costata ora la vernice delle femministe milanesi. Ci fu anche la polemica assurda con lo storico Angelo Del Boca, dove Montanelli si ostinò a lungo a minimizzare l’uso del gas, mentre Del Boca produceva in prova i telegrammi di Mussolini con l’ordine di gettare l’iprite sugli abissini. Non era solo una difesa autobiografica, dovuta al fatto di aver partecipato a quella campagna. Il problema era che l’aggressione all’Abissinia, assieme alle leggi antiebraiche, era il fatto storico che più di altri sabotava il monumento al “fascismo macchietta”, al fascismo episodico. C’era dunque una Storia – e qualcuno si ostinava a raccontarla – che resisteva alle procedure di depotenziamento e riduzione dello scandalo fascista, che si opponeva agli espedienti e agli annacquamenti. Questa storia più veritiera c’è sempre stata. Anche in nuovi libri di storiche e storici, di scrittrici e scrittori, continua a parlare e a farsi leggere. Ma appunto non è monumento (o storiella): è storia.
Mentre un monumento, imbrattato di vernice rosa o immacolato, difeso o contestato, per dirla con Alessandro Manzoni: “non è una storia: anzi talvolta è, non solo molto meno, ma qualche cosa di contrario alla storia”
(Storia della Colonna Infame, cit. in Salvatore S. Nigro, La funesta docilità, p. 134).
Pezzo ripreso da https://www.nazioneindiana.com/2019/03/12/il-monumento/
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