“Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti.” Antonio Gramsci
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28 ottobre 2022
IL POPOLO CONTRO LA GUERRA
Il rifiuto della guerra
Bruna BianchiLe proteste contro la guerra in Russia, come accade per molti movimenti sociali, sono un fenomeno carsico: crescono di nascosto e in profondità per molto tempo, poi si manifestano in tanti modi diversi per brevi periodi. Da marzo ad agosto le proteste collettive a Mosca e in altre città sono quasi scomparse del tutto per poi tornare in settembre: il dissenso contro la “mo-killi-zation!”, cioè contro il decreto sulla mobilitazione per la guerra, ha sorpreso tanti. Una protesta fortemente giovanile e femminile, fatta di azioni in strada, incendi ai centri di reclutamento, sostegno ai familiari delle vittime e alle persone arrestate, iniziative di controinformazione. E perfino danze, come quella delle donne di Jakutsk, città della Siberia che, durante un arruolamento forzato, hanno circondato gli agenti ballando in cerchio la osuokhay, la danza tradizionale e gridando “No alla guerra, no al genocidio!”. Anche per questo i bersagli privilegiati della repressione sono state le donne e le ragazze, a cominciare da quelle in abiti scuri con chiaro riferimento alle Donne in nero, da oltre trent’anni una delle più straordinarie storie di nonviolenza nel mondo
«Ricordiamoci le parole di Pierre in Guerra e pace: “Tutto il mio pensiero consiste in questo: poiché le persone malvage si uniscono e costituiscono una forza, le persone oneste devono solo fare la stessa cosa. È semplice”. No, non è affatto semplice. Ma è possibile ed è la cosa più importante. E questo significa che non possiamo permetterci di cedere» (Lev Ponomarev)
Cosa è accaduto nella società russa negli ultimi mesi? Quanto e come i principi e le pratiche della nonviolenza hanno avuto modo di emergere? Da marzo ad agosto le proteste collettive in Russia sono cessate. La sensazione di isolamento di fronte alla pervasiva retorica governativa, la paura della repressione, dell’espulsione da scuole e Università, di perdere il lavoro, l’ansia per le continue violazioni dei diritti umani, le minacce e le vere e proprie persecuzioni di attivisti e attiviste, le sentenze esemplari contro insegnanti, giornalisti-e e figure politiche hanno certamente avuto un ruolo importante nel dissuadere dalle proteste pubbliche. Mentre centinaia di migliaia di cittadini russi si sono autoesiliati portando con sé la loro cultura e la loro esperienza di resistenza e di attivismo, in Occidente l’opposizione alla guerra non è più stata al centro dell’attenzione dei “grandi” media e la questione del dissenso nella società russa e quella dei reali sentimenti della popolazione sono rimaste nell’ombra.
Si è andata così diffondendo la convinzione che il consenso alla guerra sia pressoché unanime, che la società civile russa sia fragile e che non riesca ad esprimere una risposta forte contro la guerra.
Se è vero che la società civile organizzata si è indebolita progressivamente negli anni, e in particolare nei mesi di guerra, sotto i colpi della repressione, la società civile indipendente, i gruppi femministi, quelli di volontariato e di sostegno agli obiettori e ai profughi ucraini, quelli che si impegnano per i diritti umani e per una libera informazione hanno esteso la loro influenza.
Verso le proteste del 21-26 settembre
Si può avere un quadro della vastità dei campi d’intervento e delle modalità dell’attivismo dal profilo di alcune di queste associazioni contro la guerra, delle loro motivazioni e delle loro iniziative pubblicato all’inizio di luglio dal quotidiano online con sede in Lettonia, Meduza. L’attività di questi gruppi, molti dei quali nati all’inizio della guerra, non ha avuto lo stesso impatto di una dimostrazione di massa in una grande città, ma i loro messaggi sono stati più capillari, hanno offerto aiuto concreto e psicologico alle vittime della guerra e della repressione, raccolto fondi, confutato le falsità della propaganda, condotto sondaggi di opinione, sostenuto i valori umani in una situazione disumana.
Né si devono dimenticare le azioni di protesta di coloro che hanno continuato a scendere per le strade avvicinando i passanti e cercando di instaurare un dialogo (data.ovdinfo.org).
Alcune di queste reti, come l’organizzazione giovanile Vesna e il FAR, le femministe contro la guerra, sono state tra le prime a opporsi al decreto sulla mobilitazione, a chiamarla “mo-killi-zation” e a promuovere la protesta che dal 21 al 26 settembre è esplosa in oltre 40 città in tutta la Russia e accompagnata da 2080 arresti (data.ovdinfo.org). Dall’inizio del conflitto al 17 agosto i casi di detenzione sono stati 16.417 (data.ovdinfo.org).
L’approvazione del decreto sulla mobilitazione ha scosso la parvenza di normalità della vita quotidiana, ha inasprito l’opposizione nelle regioni periferiche che hanno subito le maggiori perdite nel conflitto e hanno suscitato la rabbia giovanile. A gridare la loro collera e la loro disperazione, infatti, sono stati per lo più giovani uomini, spesso giovanissimi, e le donne di ogni età1.
“Non morirò per Putin”. La protesta giovanile
I giovani in età militare, che avevano risposto in misura minima alle pressioni per l’arruolamento volontario, già nei sondaggi di giugno avevano presentato le percentuali più elevate di opposizione alla guerra. Il sondaggio condotto da Levata Center, l’unica agenzia indipendente e considerata “agente straniero”, aveva rilevato la più altra percentuale di dissenso tra i giovani dai diciotto ai venticinque anni: 36 per cento contro il 20 per cento della popolazione nel suo complesso2. Una serie di sondaggi “confidenziali” condotti da VCIOM, il centro statale russo per i sondaggi di opinione, i cui risultati sono trapelati sui media, nel mese di luglio aveva riscontrato percentuali più elevate (cato.org). Nel rapporto si legge:
Una delle conclusioni più eloquenti che si possono trarre dal sondaggio è che i giovani russi sono determinati a porre fine alla guerra e il loro atteggiamento nei confronti del presidente in relazione all’“operazione speciale” e alle sanzioni non sta cambiando in meglio. La maggior parte dei giovani è favorevole ai negoziati e contraria al proseguimento delle ostilità:
– nella classe di età 18-24 anni, il 79 per cento delle persone intervistate è favorevole alle trattative;
– in quella dai 25 ai 34 anni il 56 per cento;
in quella dai 35 ai 44 anni il 46 per cento.
Più si innalza l’età e più cresce la percentuale di coloro che credono che la Russia debba continuare a combattere (thebell.io).
In settembre il Levada Center ha voluto indagare le reazioni della popolazione al decreto sulla mobilitazione. Alla domanda: “quali sentimenti ha suscitato in te l’annuncio della mobilitazione parziale?” i giovani dai 18 ai 24 anni hanno dato le seguenti risposte: rabbia: 23 per cento, paura: 56 per cento, trauma: 31 per cento, tutte percentuali nettamente più elevate rispetto alla media (levada.ru).
Il timore di essere arruolati forzatamente è più che fondato. I giovani in età militare, infatti, rischiano di essere convocati presso gli uffici di reclutamento se sono espulsi da scuole e Università, talvolta al minimo segno di dissenso, o se sono arrestati nel corso di manifestazioni di protesta.
Anche il numero delle perdite in guerra tra i giovani e giovanissimi ha con tutta probabilità contribuito al diffondersi di stati d’animo dominati da paura e rabbia. Essi, infatti, in particolare quelli che provengono dalle province più povere – Daghestan, Buriazia, Baschiria – sono stati tra i primi a perdere la vita. Nel complesso, secondo i dati ufficiali, dall’inizio della guerra al 7 ottobre, il 33 per cento dei casi di morte si sono verificati nella classe di età tra i 18 e i 26 anni e i giovani tra i 21 e i 23 anni hanno subito – (13,5 per cento) – le perdite maggiori (en.zona.media).
Scorrendo i resoconti delle proteste di settembre a cura di OVD.news e le immagini scattate dagli stessi arrestati, sfilano davanti agli occhi tanti volti di giovani e giovanissimi. Un esempio quello di uno studente di Arcangelo, espulso dalla scuola per essersi rifiutato di seguire i “colloqui su cose importanti” e fermato dalla polizia mentre stava andando ad una manifestazione di protesta (fotografia), o quello del ragazzo che a Belgorod è sceso in strada con un cartello in cui auspicava la vittoria dell’Ucraina: “Libertà e vittoria all’Ucraina. No alla mobilitazione” (foto), o ancora i volti di ragazze e ragazzi che all’interno del furgone di polizia a Novosibirk il 24 settembre ostentano orgoglio e sicurezza di sé (foto).
Si deve verosimilmente alla rabbia giovanile l’aumento a partire dal 21 settembre del numero degli incendi appiccati ai centri di reclutamento. Dall’inizio del conflitto queste forme di sabotaggio sono state 67: 34 nei sei mesi prima del decreto sulla mobilitazione e 33 dal 21 settembre al 13 ottobre. Lo ha calcolato Mediazona, media indipendente russo fondato da Marija Alëchina e Nadežda Andreevna Tolokonnikova del gruppo di protesta e della band Pussy Riot, che pubblica e aggiorna costantemente una mappa dei roghi. Agli atti di sabotaggio hanno fatto appello anche le fondatrici di FAR, come una di loro ha recentemente dichiarato: “Abbiamo immediatamente scritto un appello a sabotare i centri di arruolamento militare e a manifestare per le strade” (opendemocracy.net).
Non sempre i resoconti di OVD riportano l’età degli arrestati per i reati di sabotaggio o danneggiamento, ma quando compare questa informazione si tratta sempre di giovani. È il caso di un ventenne che il 26 settembre alle 4 del mattino a San Pietroburgo ha appiccato il fuoco a un edificio che portava l’insegna “Ufficio di reclutamento militare”. Quello stesso giorno è apparsa sulla pagina di VKontakte la frase a lui attribuita: “Ciascuno protesta come meglio crede”. Sempre il 26 settembre a Novosibirk è stato arrestato un giovane di 22 anni accusato di aver pianificato di appiccare il fuoco a un ufficio di reclutamento e di aver organizzato un gruppo di giovani per compiere atti simili. Altri incendi sono stati causati da giovanissimi con l’intento di colpire i simboli della federazione russa; a Ulan Ude due diciassettenni hanno bruciato una bandiera russa che avevano issato sul monumento di Lenin (ovd.news).
Questi incendi si aggiungono alla lunga catena di atti di sabotaggio che dall’inizio del conflitto hanno ripetutamente danneggiato le linee ferroviarie per impedire il rifornimento di armi all’esercito dispiegato in Ucraina (vice.com).
“Sembrate delle ladre”. La protesta femminile
Le donne e le ragazze hanno avuto un ruolo preponderante nella protesta contro la mobilitazione. Nel complesso esse hanno rappresentato il 51 per cento dei 1.383 casi di arresto il 21 settembre e il 71 per cento degli 848 casi di arresto il 24, percentuali particolarmente significative se le si confrontano con quelle relative al febbraio-marzo 2022 (30 per cento) e ancor più con quelle degli anni precedenti: 6 per cento nel 2019 e 11 per cento nel 2021 (reuters.com). Un tale aumento è certamente dovuto alla crescita del movimento femminista (che è passato da 30 sezioni nel 2019 a 45 nel 2021), ma anche alla volontà da parte delle donne di farsi carico della protesta al fine di evitare a uomini e ragazzi l’arruolamento forzato. Infatti, gli attivisti che avevano partecipato alla protesta sono stati inviati ai centri di reclutamento in almeno 17 dipartimenti di polizia il 21 settembre e in 16 il 24 (euronews.com).
Il sentimento di orgoglio per il ruolo avuto nelle manifestazioni, la volontà di dimostrare di saper vincere la paura emergono da alcune fotografie che le ritraggono al momento dell’arresto, come da quella scattata a Tomsk il 24 settembre (foto)
Non stupisce quindi che la repressione si sia abbattuta in modo particolarmente duro sulle donne e le ragazze e in misura maggiore rispetto al passato. A San Pietroburgo, come in altre città, bersagli privilegiati sono state le donne e le ragazze in abiti di colore nero con chiaro riferimento alle Donne in nero, le pacifiste che nelle manifestazioni vestono a lutto per le sofferenze portate dalla guerra. A Ufa il 24 settembre alcune ragazze del gruppo sono state detenute con l’insolente motivazione che “assomigliavano a ladre”.
Nei posti di polizia le consuete umiliazioni sessuali e le minacce di stupro sono state inscenate nel modo più brutale e osceno. Valga per tutti il caso di una giovane di Vladimir, Alena, detenuta il 24 settembre. A OVD ha raccontato
“di essere stata costretta a spogliarsi completamente; le dissero poi che l’avrebbero obbligata a ‘sedere su una bottiglia’ (ovvero che l’avrebbero stuprata usando una bottiglia). Il detective Alexander Terentiev le disse che non le restava molto da vivere e che presto “sarebbe andata in Ucraina”. Dopo che la ragazza ebbe risposto che non era soggetta a servizio militare, il detective le assicurò che il suo ragazzo sarebbe stato arruolato e gli ‘sarebbero state tagliate le palle’. Poi, dichiarò Alena, il detective prese una bottiglia e mi disse che mi avrebbe costretto a pisciarci dentro e a bere da lì”.
Dopo molte ore di queste torture, la ragazza si è sentita male, ha firmato una dichiarazione in cui ammetteva di aver partecipato alla manifestazione, di aver scattato fotografie degli ufficiali di polizia e di averle diffuse sui social. A quel punto è stata rilasciata.
Le donne adulte che avevano partecipato alle manifestazioni sono state colpite nei loro affetti familiari. Ne è un esempio il caso di Lidija, madre di quattro figli, di Voronez, città non distante dal confine ucraino. Il 26 settembre, sulla porta di casa è stata prelevata e trascinata in un’auto da alcuni uomini in abiti borghesi; lì le hanno intimato di cessare ogni forma di protesta e di “abbassare la testa”, altrimenti i servizi di affido famigliare sarebbero stati informati della sua condotta e le avrebbero tolto i bambini, mentre il marito e il figlio maggiore sarebbero stati arruolati.
Nei giorni delle proteste e in quelli immediatamente successivi agenti e collaboratori di polizia hanno fatto irruzione nelle abitazioni delle attiviste e delle donne sospettate di aver partecipato alle manifestazioni, o di aver diffuso volantini contro la guerra; le hanno minacciate o le hanno condotte ai centri antiterrorismo. È accaduto a Darja e Victoria, autrici di un volantino in cui avevano scritto: “Porteremo una bara in ogni casa, a spese dello stato”.
Il tema o l’immagine della bara ritornano con una certa frequenza nelle frasi e nei poster nel corso delle manifestazioni collettive e individuali. Chi ha fatto riferimento ai ragazzi che tornano in Russia nelle bare di zinco, come Tatjana di 72 anni di Petrozavodsk, chi ha diffuso volantini con disegni di bare. A Mosca Alexander ha dato ai suoi volantini la forma di annuncio pubblicitario: “Agenzia funebre Russia. Forniremo gratuitamente una bara: figlio, marito, fratello, amico”. Non sappiamo nulla del destino di Alexander, ma sappiamo che Darja e Victoria al centro antiterrorismo sono state afferrate per il collo, prese a calci, trascinate per i capelli, colpite alla testa con vari oggetti tra le minacce di essere denunciate per prostituzione e gli insulti: “feccia, sudiciume, meritate di essere uccise”.
La volontà di terrorizzare, di infondere la convinzione di non poter sfuggire al controllo e alla punizione ha causato l’arresto di tre ragazze che a Brjansk erano scese in strada con i loro poster contro la guerra sui quali avevano scritto le frasi: “Questa non è la nostra guerra”; “Basta derubarci del nostro futuro” e alcuni versi della più famosa canzonetta sovietica per bambini del 1962:
Possa esserci sempre il sole
Possano esserci sempre cieli azzurri
Possa esserci sempre la mamma
Possa esserci sempre io!
Anche le donne anziane hanno voluto gridare la loro indignazione. A San Pietroburgo Irina ha affidato la sua protesta a una iscrizione deposta sulla tomba dei genitori di Putin. Per questo gesto è stata accusata di profanazione ed è stata messa agli arresti domiciliari. L’iscrizione diceva:
“Genitori del maniaco, prendetevelo con voi, ha causato così tanto dolore e così tanti problemi, che il mondo intero sta pregando per la sua morte. Morte a Putin, voi avete cresciuto un mostro e un assassino”.
“No alla guerra, No al genocidio”. Le proteste nelle regioni orientali
Anche nelle proteste che si sono svolte a Machačkala in Daghestan, a Jakutsk nella Siberia orientale, a Ulan Ude in Buriazia e a Grozni in Cecenia, le donne e le ragazze sono state le principali protagoniste.
Nelle zone più orientali, abitate da popolazioni non slave, ha affermato il 4 ottobre una delle fondatrici di FAR, “ci sono molti villaggi completamente svuotati. Non resta un solo uomo […] le popolazioni in queste regioni comprendono che sono diventate una risorsa per Mosca […] Nella Russia europea Mosca cercherà di creare l’illusione di normalità fino all’ultimo momento, ma non durerà a lungo”. (opendemocracy.net). In queste regioni la mobilitazione è stata percepita come una forma di pulizia etnica e si è configurata come una serie di incursioni. In Buriazia migliaia di persone sono state arruolate forzatamente in 24 ore; gli avvisi di arruolamento sono stati consegnati di notte e sono stati messi immediatamente in pratica senza alcun rispetto per le esenzioni previste dalla legge (en.zona.media). “I nostri mariti, padri e fratelli non vogliono uccidere altri mariti e padri” hanno gridato le donne a Ulan Ude; a Jakutsk esse hanno circondato gli agenti danzando in cerchio la osuokhay, la danza tradizionale, gridando: “No alla guerra, no al genocidio”.
A Machačkala il 25 settembre le donne hanno cercato di respingere gli agenti, di liberare i giovani arrestati gridando che non avrebbero permesso che i loro figli fossero mandati a morire, che questa non era la loro guerra, che nessuno aveva aggredito la Russia. Le arrestate sono state 120 tra cui numerose minorenni (en.zona.media).
In Cecenia, a Grozny, il 21 settembre si è svolta la protesta delle madri contro la mobilitazione; in 130 sono state arrestate e un numero ancora imprecisato dei loro figli sono stati costretti a firmare la dichiarazione di reclutamento volontario pena la ritorsione sulle loro madri. A queste donne che avevano avuto l’ardire di sfidare l’autorità doveva essere inflitta una punizione esemplare; sono state quindi condotte al municipio per subire il castigo per mano dei loro mariti a cui sono stati consegnati tubi di gomma riempiti di calcestruzzo. Se coloro che avevano il dovere di sottomettere le donne nella famiglia non l’avessero fatto, alla punizione avrebbe provveduto la polizia.
La guerra, progetto patriarcale di ricolonizzazione del mondo, ridefinisce e riafferma con la violenza tutti i confini, non solo quelli territoriali, ma anche quelli mentali, simbolici, di genere, di generazione e di “etnia”.
Dal 26 settembre le proteste collettive si sono spente, ma la collera dei giovani e delle donne, il loro senso della giustizia offeso, la loro repulsione per la guerra probabilmente riaffioreranno. Dalle testimonianze e dalle immagini che sono trapelate fino a oggi è lecito pensare che della loro esperienza coloro che hanno protestato conserveranno non solo la paura e il senso dell’oltraggio, ma anche la forza morale che hanno trovato in sé stessi-e e i legami di solidarietà nati dalla protesta, come suggerisce la frase su un poster che una donna di Tomsk teneva a settembre tra le mani: “Se anche tu hai paura, abbracciami” (themoscowtimes.com).
Note
1 Quando non indicato diversamente, la fonte delle notizie sulle manifestazioni di protesta a cui ho attinto è stata la cronaca degli avvenimenti in lingua inglese nel sito di OVD (events). Poiché le notizie sono ordinate cronologicamente (settimana per settimana) il nome della persona arrestata, il luogo e la data sono gli elementi principali per risalire alla cronaca completa dell’evento.
2 Questi dati includono anche le giovani donne. Non sono riuscita a trovare dati disaggregati per sesso.
[Questa pagina fa parte di Voci di pace, spazio web
di studi, documenti e testimonianze a cura di Bruna Bianchi]
LA MARCIA SU ROMA E LA PRIMA GUERRA MONDIALE
La marcia su Roma e la prima guerra mondiale
Nel fiume di articoli e libri sulla marcia su Roma, evento fondante del regime fascista (che viene convenzionalmente associata al 28 ottobre 1922) – quest’anno sono cent’anni e ci troviamo con un’estremista di destra a capo del governo, – mi sembra prima di tutto meritevole un pezzo dello storico Marco Mondini uscito sul Domani.
Mondini inquadra la presa del potere di Mussolini negli sconvolgimenti politici, culturali, antropologici e psicologici causati dalla prima guerra mondiale, con il «parossismo di violenza che aveva contaminato gli europei».
Ci ricorda Mondini che «prima del 1914 milioni di maschi adulti europei non avrebbero saputo come (avuto il coraggio di) togliere una vita,» mentre nel 1918 lo avrebbero fatto con tranquillità «per uno dei grandi obiettivi ideologici in nome dei quali erano stati bombardati psicologicamente per anni da mass media invadenti, isterici e striduli. O anche, semplicemente, per abitudine. Una differenza abissale che la maggior parte degli storici italiani non ha capito».
Furono soprattutto nei paesi sconfitti, Germania in primo luogo, ma anche negli Stati successori dell’impero austro-ungarico, che si formarono gruppi egemonizzati dall’estrema destra che rivendicarono il diritto alla violenza per punire le forze – democratici e socialisti, i «nemici interni» – che avevano, a loro dire, causato la sconfitta attraverso il tradimento.
La frustrazione e il desiderio di rivalsa si impadronirono anche dei reduci italiani, convinti di non aver ottenuto abbastanza per «la patria» nonostante l’enorme sacrificio. E il movimento fondato da Mussolini nel 1919 riuscì a convogliare e esaltare i sentimenti, la frustrazione e il rancore di colore che pensavano di aver vinto la guerra ma si trovarono con la sensazione di aver subito la sconfitta.
Il trionfo dei fascisti è come noto motivato anche dal fatto che i poteri costituiti, il governo, la corona e l’esercito, li lasciarono fare. Ma è il contesto della storia transnazionale, la guerra totale che aveva plasmato la società europea attraverso il capillare sistema di informazione e propaganda, creato per mantenere il consenso al conflitto, che spiega l’affermazione dei fascisti nella società italiana. Il nostro paese, come gli altri paesi europei, non era uscito dall’abito dell’odio che si era formato nelle trincee e nella fucina della mobilitazione culturale degli anni di guerra. Il fascismo elaborò «progetti nuovi su cosa la nazione fosse, e chi avesse il privilegio di farne parte: patrioti e no, combattenti e no».
Quando tornarono a casa, scrive Mondini – che ha appena pubblicato col Mulino, Roma 1922. Il fascismo e la guerra mai finita – i veterani erano convinti di avere il diritto, anzi il dovere di assumere la guida del paese, cacciando (o annientando) tutti coloro che non ne erano più degni. La guerra sarebbe veramente finita solo allora».
Su come la prima guerra mondiale formò una nuova antropologia dell’odio e della contrapposizione mortale si veda anche il bellissimo libro di Paul Fussel, La grande guerra e la memoria moderna (Il Mulino), uscito negli anni ’70 e che ha contribuito a cambiare la storiografia sul conflitto.
In questo quadro è anche molto significativo l’ultimo capitolo del libro di Antonio Gibelli, La grande guerra degli italiani (Sansoni, 1998), «Il conflitto della memoria» nel quale l’autore mostra come i fascisti e i nazionalisti estremi si appropriarono efficacemente della memoria della guerra per scopi politici.
Segnalo anche tre articoli usciti su Doppiozero:
–Il fascismo immaginario tra mito e realtà, di Carlo Greppi
–La storia congelata, di Enrico Manera
–Straniero e straniato: Cousins alla marcia su Roma, di Denis Lotti.
Infine, una segnalazione sul 24 maggio del 1915, le «giornate radiose» dell’interventismo che furono per certi versi la prova generale della marcia su Roma.
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L’assurda fine della prima guerra mondiale
Libri sulla prima guerra mondiale
NATURA e POESIA nell'opera di GIUSEPPE CINA'
“L’Arbulu nostru” di Giuseppe Cinà
L’àrbulu nostru (La Vita Felice ed., gennaio 2022) non è la prima prova poetica di Giuseppe Cinà, che per i tipi di Manni aveva dato alla luce, nel 2020, A macchia e u jardinu. Protagonista di entrambe le sillogi è l’ulivo, la pianta mediterranea già totem di Atena, santificata da una tradizione plurimillenaria che va dalla tradizione omerica ai Vangeli. La trama armonica di entrambe le opere è il dialetto siciliano, che sottende, in parallelo alla trama di archetipi che si addensa intorno all’ulivo, una tradizione perfettamente simmetrica: la Sicilia è la terra della reinvenzione teocritea della campagna; è la terra in cui le sonorità del dialetto (greco) dorico teocriteo, con i suoi chiaroscuri fonetici, si sono poi tradotte, nelle ecloghe del Meli, in un dialetto neolatino, in cui le opposizioni fonemiche fra vocali chiare e vocali chiuse sono altrettanto forti e nette.
Che sia questo, come per altri autori in vernacolo siciliano (si pensi ad Alessio Di Giovanni) il senso profondo della scrittura siciliana di Cinà, lo ha chiarito a suo tempo l’autore a margine de A macchia e u jardino: la scelta di tale codice espressivo: “…è stata solo in parte ricercata, per il resto è emersa naturalmente in corrispondenza ai due motivi poetici dominanti: la natura e il dialetto. Il racconto della natura, qui intesa come comunità di viventi, si sostanzia nel continuo confronto tra selvaggio e domestico … A sua volta, il dialetto viene posto al centro delle scelte formali della composizione piegando i versi alle parole e alle cadenze proprie del siciliano…”.
Questa spontanea dimensione poietica della tradizione siceliota non è, per Cinà, architetto e urbanista poi tornato, dagli anni ’90, alle sue origini, una veste esteriore: si tratta piuttosto di una dimensione esistenziale rivissuta e ricreata nel quotidiano, da quando l’autore ha intrapreso la coltivazione del suo uliveto presso la Riserva dello Zingaro. Prima ancora che attraverso la parola, è nella sua ridefinizione esistenziale, nel suo attuarsi attraverso il lavoro che Cinà ha percorso un cammino à rebours dalla fluidità ipermoderna alle radici del modello ad albero dei miti di fondazione delle culture umane.
In quest’ottica, quello di Cinà è effettivamente un ritorno di matrice odissiaca e ciclica, un nostos nel pieno senso della parola: non è il nostos di tante nostalgie ideologiche fondata su identità tossiche strumentali e oppositive, ma è il ritorno creativo, ciclico, sottotrama dei ricorsi storici vichiani rifondatori di civiltà, o in senso più lato è una riscoperta di radici gravide di futuro. Il nostos antico, nel senso pieno, non ha nulla a che vedere con il degrado insito nella reazione, ma è sempre prospettivo, poiché è ristabilimento di una durata nel solco vitale dell’ordine di natura.
Se in A macchia e u jardino, la contrapposizione fra il “selvaggio” e l’antropizzazione (più o meno virtuosa) del paesaggio si ipostatizzava nella dialettica fra la scomposta macchia mediterranea e l’armonia cromatica e architettonica verde dei giardini, ora è l’ulivo come tale il correlativo oggettivo di una dialettica potenzialmente distruttiva ed esclusiva fra natura arborea, implicitamente divina e “datrice di beni” (per richiamare una formula omerica ed esiodea) e paese guasto, male umanizzato, dell’antropocene. Testimoniano l’evolversi di questa dialettica le quattro sezioni di cui L’arbulu nostru si compone, e i loro ominosi titoli in esergo: 1) Semu ancora vivi, dàmunni aiutu!; 2) In campagna li filosofi abbunnàvanu; 3) L’aùgghia e lu filu di la natura sempri nnammurata; 4) Nna li marchiggi di la fàvula ingannatura unni si joca na partita truccata.
Il tema della terra desolata e del sacrilego dell’uomo è centrale nei versi di Cinà: “A dda èbbica l’alivi sacri èranu chiossà/li tirreni unni criscìanu ora sunnu/sdisulati…”, versi de L’imputato di sagrilèggiu in cui risuonano come ipogrammi, ma denudate di ogni connotazione comico-realistica, parole cavate da Petronio e dai suoi colliberti (Satyr. 44: religiosi non sumus. agri iacent), ma anche da Lucano (Phars. I, 29: desuntque manus poscentibus arvis). Il sacrilegio dell’uomo contemporaneo come devastatore della natura, si rivela come desolazione di un paese guasto, ma è in altri momenti dell’opera che rivela la sua natura profonda. In “Lu filòsofu”, troviamo ad esempio un Empedocle che nell’atto di insegnare agli acragantini la sua segreta sapienza tramata di visioni orfiche: centrale in questa sapienza è anzitutto l’idea del tempo, di cui l’uomo ha una percezione soggettiva distorta e distorcente: “(…) Nuatri pinzamu a lu futuru comu siddu avìssimu/ a campari sempri ma manciamu allafannati/ comu siddu avissimu a mòriri dumani/ e unn addunamu comu fui lu tempu,/Pinzamu di aviri un principiu e na fini,/ ma lu fattu è che li cosi murtali un nàscinu/e un mòrinu mai ma càncianu e scàncianu/spartènnusi e mmiscànnusi perennementi/secunnu ca l’amuri li junci e l’òdiu li contraponi…” La filosofia di Empedocle è qui perfettamente rievocata, nella sua oscillazione pendolare fra furente contesa e intima connessione della philía, ma sottotraccia non è questo il nucleo tematico effettivo; piuttosto Cinà sembra evocare un peccato di hybris basato sulla torsione ontologica per cui l’uomo si vede sconnesso, reciso dal fluire della physis, e quindi è in preda alla lotta fra quello che sotto altro cielo i buddhisti chiamerebbero attaccamento all’impermanenza e una pretesa di eternità malsana e malintesa. Ne deriva all’uomo un senso indebito di appropriazione, invasione e stupro della realtà naturale. Se l’olivo è la fondazione arborea del flusso di tutto ciò che vive, della “natura’nnammurata” (Zagara d’alivu), che fa da teatro alla democrazia spontanea delle comunità primordiali la cui attività si centra attorno alla rotazione molitoria dei palmenti del frantoio (Lu cuntastori de lu parmentu), l’azione dell’uomo moderno recide, abbatte, tronca questa continuità, come in Motosega Stihl MS 170 (“li rami/càdinu nna lu celu ca si sbalanza/comu un sipariu a fini tragedia”).
Se si pensa che un capitolo essenziale della storia dell’ulivo è rappresentato dall’orazione Per l’ulivo sacro di Lisia, in cui si dibatte della colpa di aver sradicato un sēkós, ovvero un tronco di olivo sacro posto al limite del campo, è facile intendere quale sia il senso profondo di quest’ultimo testo, nell’economia complessiva dell’opera di Giuseppe Cinà: il tronco abbattuto (iam fracta cacumina, per citare Virgilio) è il senhal della violazione nichilistica e annientatrice dell’azione umana, nel tempo della desolazione. L’uomo separa ciò che non deve essere separato, e viola, nel contempo, la separatezza del sacro, che con il sēkós, il ceppo d’olivo sacro divisorio dei campi, ha in comune la radice indoeuropea *sak-, quella a partire dalla quale il sacro stesso si definisce come spazio a sé rispetto alle verità ordinarie. Ne L’Arbulu nostru, si inscena così la tragedia definitiva della morte del divino, o meglio del suo assassinio per mano umana armata di tecnologia deviata dal suo scopo primario.
Pezzo ripreso da https://www.nazioneindiana.com/2022/10/28/larbulu-nostru-di-giuseppe-cina/
26 ottobre 2022
LA STRANEZZA DI ROBERTO ANDO'
LA STRANEZZA DI ROBERTO ANDO'
Oggi esce il film La stranezza diretto da Roberto Andò e sull'edizione palermitana di Repubblica appare questa interessante intervista. Andò ricostruisce, inventando con fantasia, come dichiara, una correlazione tra i festeggiamenti tenuti anche da Pirandello con un famoso discorso nel 1920 per gli 80 anni di Verga e l'opera che avrebbe decretato in Italia definitivamente la fama di Pirandello, opera successiva i Sei personaggi in cerca d'autore.
In realtà, dal punto di vista strettamente filologico e letterario, la connessione tra il capolavoro di Pirandello e l'ultima Novella del Decameroncino di Capuana in cui viene narrata una storia dalla quale Pirandello ha tratto sicuramente ispirazione, ma cambiando in maniera originale tutta la struttura e la vicenda: la storia di due personaggi di un romanzo incompleto, una coppia di fidanzati, che escono fuori fuori dal cassetto e chiedono all'autore di trovare un epilogo alla loro vicenda ma il Capuana ha difficoltà a completare la vicenda: possono rimanere fidanzati a vita o si lasceranno o si sposeranno e chiedono conto all'autore del perché la loro vicenda non sia stata completata. Ma l'autore sa qualcosa di molto particolare, sa che il fidanzato quando va a trovare la promessa sposa va anche in un altro appartamento del palazzo dove abita la sua innamorata e intrattiene una relazione con un'altra donna: da qui la ritrosia a dare una conclusione alla vicenda.
Questa è la premessa letteraria, della quale naturalmente nel film di Andò non c'è traccia, una vicenda non molto nota e che conoscono soltanto gli addetti ai lavori della biografia culturale pirandelliana, dalla quale il drammaturgo agrigentino tira fuori in maniera originale la vicenda dei personaggi in cerca d'autore.
quanto al famoso discorso del 1920, in occasione degli 80 anni di Verga, sul quale Pirandello sarebbe poi tornato con una completezza maggiore nel 1931, l'anno in cui si festeggiavano i 50 anni della pubblicazione
I Malavoglia, un saggio straordinario che assume una dimensione antropologica sui siciliani, un saggio riproposto e ripubblicato da Sciascia nella silloge Delle cose di Sicilia, va ricordato un famoso giudizio verghiano. naturalmente tra Verga e Pirandello I rapporti non furono mai particolarmente entusiasmanti: Verga, alla fine del discorso tenuto da Pirandello avrebbe detto: "Caro Pirandello avete parlato bene ma quel che è scritto è scritto", affermazione quantomeno sibillina.
( Bernardo Puleio)
Ma ecco l'articolo tratto dall'edizione palermitana di Repubblica:
L’Isola in cerca d’autore.
Andò: “Così immagino Pirandello in Sicilia”
di Mario Di Caro
Dicono che quando Roberto Andò gli ha proposto di fare un film non gli hanno fatto terminare la frase. « Anche se ci siamo resi conto di avere firmato una cambiale in bianco». E dicono anche che mentre giravano una scena in teatro “ spiati” da Pirandello- Servillo sono restati impressionati dalla somiglianza tra l’attore e il drammaturgo. Salvo Ficarra e Valentino Picone sembrano due bambini sotto l’albero di Natale quando raccontano di questa “ Stranezza” che li ha visti recitare assieme a Toni Servillo, diretti da Roberto Andò, in un film che racconta lo stranissimo, quello sì, incontro fra il futuro premio Nobel e due beccamorti di mestiere e attori per passione. « Questo film è una promessa che avevo fatto a Salvo e Valentino — spiega Andò al battesimo del suo nuovo, felice film, nella sua città — Era fondamentale che ci fossero loro. Questo film dimostra che i presunti steccati tra attori comici e drammatici, che in Italia sono resistenti, in realtà sono delle balle senza fondamento. Abbiamo avuto la fortuna di provare una scena, quella del pranzo sulla bara nel negozio di pompe funebri, e subito si è capito che l’impasto del tono era quello che volevo io, divertito, leggero e, spero, pieno di sfumature».
Siamo nel 1920 e Pirandello, tornato in Sicilia per gli 80 anni dell’amico Giovanni Verga (alias Renato Carpinteri) si imbatte in questa scalcinata compagnia amatoriale capitanata dai due becchini che involontariamente diventano fonte di ispirazione per completare i “ Sei personaggi”. Ed è un piacere vedere la ricostruzione della tempestosa “ prima” al teatro Valle di Roma, con Luigi Lo Cascio nel ruolo del capocomico-regista e Fausto Russo Alesi nei panni del padre. «A me dopo quella scena è venuta voglia di vedere i “Sei personaggi” ma con questi stessi attori», dice Ficarra, che nel film recita anche una filastrocca di Peppe Schiera. Un desiderio possibile secondo Andò. «Anche Lo Cascio ha detto “perché non lo facciamo davvero?” — svela il regista — Luigi è un capocomico in grado di restituire il tono degli attori di quel tempo. In fondo questo è un film sul pubblico, quello della comunità siciliana che assiste alla farsa e che rompe la quarta parete, che interagisce con gli attori, e quello borghese del Valle che contesta il genio. Sì, ci tornerò sui “Sei personaggi”». Ma perché un film su Pirandello? « Ho avuto un amore giovanile forsennato per Pirandello — risponde Andò — Io a Palermo ho avuto il privilegio di conoscere Leonardo Sciascia e capitava di accompagnarlo in macchina, visto che lui non guidava. Una volta, eravamo dalle parti di via Villareale, davanti a un negozio della Utet, mi dice “ fermati qui”. Scende e torna con una biografia di Pirandello chenon si trovava più: l’aveva ordinata per me. Quella biografia è stata molto importante per me. Nel film c’è il piacere di raccontare un momento irresistibile, il contatto di Pirandello con una realtà umana rappresentata da Nofrio e Sebastiano che gli consente di mettere a fuoco un’idea che fino a quel momento è vaga. È una mia fantasia, ma è vero che Pirandello per tutta la vita fu attratto da questo serbatoio che era il mondo di Girgenti. Oltre alla sua balia (nel film Aurora Quattrocchi, ndr) a cui deve “La favola del figlio cambiato”, c’era il bibliotecario della Lucchesiana dal quale si faceva raccontare le storie di corna del paese. È un mondo a cui Pirandello ha fatto riferimento». È facile immaginare la goduria per uno come Andò, cresciuto a pane e letteratura, nel girare il dialogo tra Verga e Pirandello, nel quale il vecchio scrittore dice al collega che ha messo una bomba nell’edificio letterario faticosamente costruito dai predecessori. «Pirandello partecipò realmente alle celebrazioni per gli 80 anni di Verga che invece le disertò polemicamente — spiega il regista — Io ho immaginato cosa avessero potuto dirsi questi due giganti quando Pirandello andò a salutare Verga. Il dato reale è che Verga era uno scrittore al tramonto legato a un mondo passato mentre Pirandello era l’emergente che però non aveva ancora preso il posto che gli spettava. E allora ho immaginato questo dialogo: è stato un momento da brividi, così come da brividi è stato girare la prima dei “Sei personaggi” al teatro Valle». Per Ficarra e Picone “ La stranezza”, dopo “Baaria” e “Le rane”, non può considerarsi una deviazione dal loro percorso abituale. « A noi piacciono le sfide — dicono — se ci troviamo davanti a un bivio tra una strada che conosciamo e una sconosciuta scegliamo quest’ultima». L’altra sfida, quella di Andò, è quella di abbracciare il siciliano e di imprimere una sicilitudine più forte di ogni altro suo film. « Scegliere il siciliano non è facile perché chi finanzia il film ha sempre paura che non arrivi al pubblico, ma stavolta era importante questa chiave. Pirandello conosceva benissimo la lingua siciliana e alla fine ha dato un buon risultato anche per Salvo e Valentino che normalmente recitano in italiano. Io credo di avere lasciato un’impronta siciliana in ogni mio film ma qui c’è un impatto a 360 gradi, faccio i conti con la Sicilia. Mi spiace non aver potuto girare nella casa di Pirandello, trasformata in museo digitale e dove è impossibile rintracciare il fantasma dello scrittore. In fondo il mio primo film raccontava Tomasi di Lampedusa e il laboratorio de “Il Gattopardo”, con questo faccio i conti con Pirandello e la genesi dei “Sei personaggi”».