CONTEMPORANEITÀ E LINGUAGGIO. L’IMPOVERIMENTO DELLA REALTÀ SIMBOLICA.
di Claudia Rossi
Questa riflessione origina dalla mia prima esperienza lavorativa retribuita, (incredibile), da redattrice. La testata si occupava di sostenibilità ed energie rinnovabili – tematiche fortunate per un mondo che cade a pezzi. Tutto sembrava andare per il verso giusto fino a che non mi sono imbattuta nel giudizio inclemente di uno smile, sì, quella faccina rotonda col sorriso a parentesi.
Questo il prodromo di una storia che di avvincente infine non ha poi molto.
Ma andiamo per gradi.
Lo smile che menziono è quello del CSM (Content Management System) più diffuso al mondo: Word Press. Chiunque crei contenuti digitali si sarà imbattuto in questa piattaforma divulgativa almeno una volta. La simpatica faccina di cui il software è provvisto rende manifesta al redattore l’adeguatezza dei contenuti appena scritti al gusto e alle inclinazioni del grande pubblico di internet. Ma chi, o cosa, definisce l’adeguatezza del pezzo di un redattore alla pubblica gogna? Un grammar nazi? La virtualizzazione dello spirito di Umberto Eco? No, il SEO.
Il SEO è la più rozza e volgare opera di appiattimento spirituale cui l’uomo possa essere sottoposto. L’acronimo sta per Search Engine Optimization, ovvero “ottimizzazione per i motori di ricerca”, e fa riferimento a tutti quegli standard da dover soddisfare per un migliore posizionamento e una migliore indicizzazione di un contenuto, sul web. In parole povere se il tuo articolo soddisferà dei parametri, come quello della “leggibilità”, lo smile da rosso e infelice, tremendamente infelice, diventerà verde e sorridente: ciò garantirà un posizionamento ottimale dell’articolo nell’elenco dei risultati di ricerca.
Ma perché un articolo dovrebbe “gareggiare” con altri articoli nell’arena meno sabbiosa che possa esistere, quella del web? Semplice, più utenti portano più traffico sulla pagina, più traffico porta più click e, quindi, maggiore profitto. Web marketing e cultura risultano qui indistricabilmente legati.
Compresi dopo breve tempo che per migliorare l’umore dell’algoritmo i miei pezzi avrebbero dovuto contenere frasi non più lunghe di un rigo, prediligere le coordinate alle subordinate ed evitare un linguaggio mediamente evoluto, metafore e allegorie men che meno. Insomma, lo smile prendeva i lettori per stupidi e voleva che lo diventassi anche io attuando una sottile manipolazione psicologica che mi portò presto a dubitare delle mie capacità di pensiero e scrittura. Avrei fatto di tutto pur di vederlo sorridere e no, non è la traduzione italiana di un aforisma randomico di Nicholas Sparks.
Bene. Fino ad ora ho descritto la fisionomia di un dito che indica la luna, proverò a passare alla luna. Partiamo da una semplice domanda: perché fanno più click testi editi con un linguaggio povero, titoli approssimativi e notizie (spesso false) che fanno leva sulla risposta emozionale dell’individuo piuttosto che su quella intellettiva? La risposta è implicita nella domanda ma non è ascrivibile alla mera efficacia comunicativa di un testo scritto.
Il problema riguarda possibilità economiche, istruzione e disegni esistenziali stabiliti a monte da un sistema di produzione che rende oggetto di consumo lo stesso universo di discorso, il linguaggio, quanto di meno corporeo e reificabile esista.
La performatività dell’animo umano è giudicata dal mercato secondo criteri che ne favoriscono l’allontanamento dalle proprie risorse interiori. Niente di nuovo: così come il prodotto del lavoro si perde al di là del nostro sguardo nei meandri del libero mercato (sic!), anche le nostre parole devono essere il più possibile aliene alla fonte da cui sgorgano. Forse è questa la vera novità introdotta rispetto alla monumentale opera del 1867 titolata Das Kapital dove per la prima volta Karl Marx evidenziava la possibilità per lo spirito umano di essere assoggettato a meccanismi di estraniazione favoriti dall’inedita commercializzazione di un elemento immanente l’esistenza degli individui: il tempo. Non c’è demonizzazione del lavoro, c’è demonizzazione di un lavoro teso non allo sviluppo soggettivo dell’individuo bensì al solo profitto dei detentori dei mezzi di produzione.
Già da queste sole tre righe si intravede l’impalcatura portante di una società che, rispetto all’Inghilterra di secondo ’800, preserva ancora oggi delle differenze surrettizie fra i membri di una stessa specie istituite sulla base indiscussa del patrimonio economico individuale. La maggior parte del pubblico alfabetizzato non è istruito, la maggior parte del pubblico non istruito fa della propria esistenza una risposta alla necessità di lavorare. Il quesito è roboante: si lavora per vivere o si vive per lavorare?
Dal Capitale ai social-media: il tempo è denaro, sì, ma anche le parole.
Il controllo ad oggi è capillare: è esercitato su un sostrato che altro non è se non l’essenza individuale soggettiva che viene così soppiantata e privata della sua stratificazione originale. Il soggetto è inanimato, nel senso che è privato della propria anima per opera di un meccanismo di trasposizione della razionalità in realtà virtuale. Tutto ciò che è razionale è virtuale, solo virtuale, aggiungerei.
Il filosofo statunitense Wilfrid Sellars, scomparso alla fine degli anni ’90, sosteneva che il linguaggio fosse lo specchio dei pensieri dell’individuo, o meglio, lo specchio del modo di pensare di un soggetto, il riflesso dell’organizzazione della sua interiorità.
Il modo in cui parli, in nuce, definisce il modo in cui pensi. Se si osserva molta propaganda politica attuale il concetto appare piuttosto aderente alla realtà. Interessante è il fenomeno Giorgia Meloni la cui metrica linguistica si presta inspiegabilmente bene a ritmi esotici che tradiscono i contenuti dei comizi da retorica del confine di madre integerrima di cui ama adornarsi.
Il verbo, scritto o parlato, è manifestazione della vivacità di un mondo interiore, quindi. Va da sé che un linguaggio abituato e piegato alla semplificazione algoritmica e computazionale è un linguaggio pensato per l’impoverimento espressivo dell’individuo. Il risultato dell’equazione è l’inibizione dolosa di ogni possibilità di arricchimento e sviluppo interiore soggettivo.
In buona sostanza la lettura di un articolo anziché aprire porte e dare input, inebetisce e ottunde i sensi già ferocemente provati dalla navigazione in rete. L’obiezione che si potrebbe facilmente sollevare è la seguente: beh ma tutto sommato questi parametri rendono le informazioni fruibili anche a chi non è così alfabetizzato, costituiscono in fondo uno strumento democratico. Tassativamente: no.
Questo della riduzione della lingua a povertà e miseria non solo non è uno stratagemma progettato per andare in contro ai più pigri d’intelletto ma anzi è un esercizio bieco volto semplicemente a perpetuare, sclerotizzare e normalizzare lo stato di cose per cui la complessità, il nutrimento individuale e una comunicazione di qualità siano cosa “per pochi”. Ma neppure è questo il fine primario. Come già anticipato, più articoli mediocri e inclassificabili escono, più visibilità (e quindi classificabilità) e profitto trarrà la piattaforma on-line. Quindi non solo il servizio è scadente ma viene anche pagato a caro prezzo dato che la lente utilizzata per indagare la realtà è fabbricata coi colli di bottiglia (che tanto sono quelli che più ci si addicono, no?) della nostra inconsapevolezza.
Herbert Marcuse scrisse un testo che fu il manifesto di una generazione intera, quella del ’68, One Dimensional Man (L’uomo a una dimensione) e già in quest’opera la critica ai nascenti mass media era quella di ridurre ed impoverire l’universo di discorso in favore del pensiero unico. Ad oggi la continuità di un simile esercizio di allontanamento dalla complessità non è più garantita da soggetti senzienti fatti di carne ed ossa, i controllori del pensiero unico sono codici alfa-numerici in grado di individuare i trend del momento e sottoporci quelli più in linea coi nostri gusti. L’algoritmo veste i panni di un Tiresia spaventoso e senz’anima.
Slavoj Zizek in Hegel e il cervello postumano, citando Yuval Noah Harari (Homo deus. Breve storia del futuro), afferma che avere davvero potere sul proprio io nel XXI secolo (supposto che si possa parlare ancora di un io cosciente) non coincide più con l’eludere la censura dei contenuti bensì con il capire come riuscire ad ignorare date informazioni, con il “sapere cosa ignorare” dal piatto che quotidianamente ci viene servito. Un’intelligenza artificiale capace di schedare i nostri gusti assembla in sordina i mattoni della cultura dominante della contemporaneità.
Qualche giorno fa sono andata in ferie, il periodo di libertà condizionata più atteso dell’anno in cui andare ad amalgamarsi vicino a pozze di acqua salmastra, per amore reciproco, si intende. Con me ho portato un libro (comprato un po’ ad istinto come palliativo ai giorni di horror vacui) e mi sono così imbattuta in una scrittrice, giornalista e traduttrice ucraina naturalizzata brasiliana: Clarice Lispector.
Clarice Lispector nel suo capolavoro pubblicato nel ‘73 Agua viva (Acqua viva) dà una prova tangibile dell’assunto secondo il quale il pensiero possa sì eccedere il linguaggio, ma che il linguaggio stesso non indietreggi affatto nell’arduo compito, che invece assolve, di vestire quell’eccedenza. Scrive:
“Perché adesso ti parlo seriamente: non sto giocando con le parole. Mi incarno nelle frasi voluttuose e inintelligibili che si aggrovigliano al di là delle parole. E dallo scontro delle frasi emana un silenzio sottile. Dunque scrivere è il modo di chi si serve della parola come esca: la parola pesca quel che non è parola”.
Questo esempio è esattamente l’opposto dell’idea di linguaggio promossa e divulgata dall’uomo più ricco del mondo: Elon Musk (che se l’avesse pensata come Clarice probabilmente non sarebbe stato così ricco). Musk parla del linguaggio nei termini di uno strumento per la semplificazione del pensiero, è per lui un “algoritmo di compressione” del pensiero guidato dal cervello (che sintetizza dati contenuti ad una velocità dati troppo bassa. Di cosa siano fatti i pensieri Elon Musk lo ignora, andrebbe fatto presente che non esiste un pensiero prodotto dall’uomo che non sia discorsivo per la natura stessa dell’essere umano, che è linguistica, non solo economica o digitale. La nostra croce, al più, è quella dell’impossibilità di uscire al di fuori dei confini del logos, dei significati. Non c’è nulla che non sia in qualche modo “significato”, neppure il silenzio riesce a fuggire il senso dei concetti, del concepito.
Costui dà per assodato che il nostro cervello sia mera computazione, C. Lispector in questo senso ripristina lo statuto del linguaggio portandone alla luce il potenziale estetico ed immaginifico, impossibile da sottoporre al vaglio decodificatore di un intelletto algoritmico, quello di Elon Musk suppongo. E la partita si gioca tutta qui, per fortuna il linguaggio umano riesce ancora a smarcarsi dall’artificiale e dal prevedibile, dal calcolo computazionale ed algoritmico di codici incapaci di racchiudere la sua imprevedibilità. Metafore, significati, slang, allusioni, allegorie, parallelismi e molti altri strumenti della retorica sono specchio di quelle capacità umane impossibili da incastonare entro tabellarizzazione. Guardatevi, in definitiva, dal sorriso sardonico dello smile SEO, è il sicario senza scrupoli con cui il tardo capitalismo ripropone la suddivisione sociale, culturale e politica della società delle disuguaglianze che arriva a sperequare e reificare persino i beni immateriali più preziosi di cui disponiamo: le parole.
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