11 ottobre 2022

THOMAS BERNHARD E IL NOSTRO DOPPIO

THOMAS BERNHARD E IL NOSTRO DOPPIO di Mariano Croce pubblicato martedì, 27 Settembre 2022 · 1 Commento Ogni libro ha un suo Doppelgänger, un doppio che sembra rimettere in scena sotto falso nome protagonisti e vicende per rivivere una storia con forza moltiplicata. E verrebbe subito da parlare di questo doppio, di questa vita che si disloca altrove per dare corso a un maggese letterario, se il dubbio non fosse che così alfine si rischia di confondere, di mescolare le tracce, di coprire le orme secche con orme fresche – “Ma dove si è cacciato il nostro scrittorello?”, si chiede in fondo lo stesso Bernhard ne I miei premi (Adelphi 2009, p. 20), in cui, doppio del suo doppio, si fa, in uno, autore fittizio di un personaggio reale. Ma dacché chi scrive è convinto, come sostiene Henry Miller, che l’erba sia una lezione di morale perché cresce persino nei più induriti degli interstizi, varrà la pena correre il rischio e introdurre un gradiente di nomadismo recensorio. Sicché, cominciamo dal doppio. Il male oscuro di Giuseppe Berto, che pure si espone a molte letture, consacrato com’è all’analisi del profondo, è innanzitutto un modo di sottrarsi alla narrazione a mezzo narrazione. Il peso opprimente dello scrivere, al contempo sintomo e causa di tormenti interiori e mali esteriorizzati, viene giocato in un rapporto col padre, che è sì origine di una nevrosi, eppure al contempo sublima un’assenza per una sorta di inversione delle cause con gli effetti. Forse un timore, più che un’assenza, vale a dire quello di non saper scrivere, di non saper trovare la parola giusta che possa cucirsi alla cosa con la precisione auspicata. Per questo a riguardo de Il male oscuro, come Berto stesso nota con qualche eccesso di sarcasmo, non può parlarsi certo di neorealismo. È la vicenda, piuttosto, di un realismo impossibile, la storia di un’approssimazione sempre rinviata all’oggetto reale dello scrivere, che per paradosso si raggiunge solo con l’obliquità dello scrivere: scrivere che non si riesce a scrivere perché non si riesce a scrivere. Non c’è dubbio che sia nevrosi, se questa è la dimensione in cui il singolare si ribella al sacrificio della sua soggettività quando si relaziona all’oggetto inseguito. Ma chi ne gode, ovvero chi legge, sa cosa farne di questa nevrosi: una forma di godimento, appunto, che è in fondo l’unico riscatto possibile in letteratura. Nel labirinto dell’inconscio, sede di macchinazioni senza posa che aspirano al nascondimento di tutto ciò che ci muove, un universo che ambisce rimanere inespugnabile a chiunque tenti l’accesso, il libro di Berto è un ospitale esercizio di psicanalisi per procura: basta la studiatissima parsimonia nell’uso dei segnali interpuntivi a stilare un programma che non lascia incolume alcuna lettrice o alcun lettore: “Così con questo transfert ormai in funzione le cose della psicanalisi procedono un po’ meglio dal punto di vista affettivo” (Giuseppe Berto, Il male oscuro, Neri Pozza 2016, p. 336). E, al di là di ogni espediente narrativo, è più che probabile che Berto qui parli dell’affetto che lega chi legge a quanto legge. E l’affetto è particolarmente forte proprio perché Il male oscuro rifiuta la letterarietà per seguire un flusso d’incoscienza: l’esercizio di una lettura difficile chiama in fondo a un ben più intenso esercizio del sé su sé. Così, possiamo chiudere la rapida analisi di questo comodo doppio per discutere l’oggetto troppo a lungo rinviato del presente scritto. La fornace, il terzo dei romanzi di Thomas Bernhard, tradotto da Magda Olivetti per i tipi di Adelphi (che meritoriamente prosegue la ripubblicazione dell’opera omnia del più grande scrittore austriaco della seconda metà del Novecento), mette in scena un dramma matrimoniale che finisce tra la farsa e la tragedia e che scorre lungo le linee del giallo. Quando una donna, immobilizzata per metà della sua vita in una sedia a rotelle, viene uccisa, tutte le prove sembrano incastrare il marito, Konrad. L’antinarrazione bernhardiana, che tipicamente colloca i fatti, o presunti tali, nei lacerti di discorsi sempre al condizionale (“avrebbe detto”, “avrebbe fatto”) porta nel mondo di disperata e angosciosa isolatezza del protagonista: isolatezza morale e psichica, prima e più che sociale. L’imbastitura di Bernhard si nutre di un assortimento di segni che esorbitano la nevrosi, e rimandano piuttosto a una psicosi trapunta di sadismo, terrore, follia, benché stemperata dallo scenario da burla campagnola dal gusto tipicamente viennese. Per superare un primo livello di superficie narrativa, ancorché molto godibile, si potrebbe optare per una lettura che facesse spola fra i molti indizi disseminati da Bernhard e adottare un modo inquisitivo teso a risolvere il giallo. E le ragioni sarebbero più d’una. Le fonti della storia sono molte e frammentarie: le varie voci raccolte nelle taverne locali concordano su alcuni aspetti, sì, ma non su altri. Inoltre, in questo continuo avvicendarsi di prospettive, tende a sfuggire che il narratore è un assicuratore, che con l’abilità tipica del piazzista di professione coinvolge i potenziali clienti nelle spire dei pettegolezzi. Né andrebbe trascurato, se volessimo provarci redivivi Dupin, che il narratore aveva da poco venduto a Konrad una polizza di assicurazione sulla vita. Inoltre, il corpo della vittima è stato singolarmente manipolato per l’imperizia degli inquirenti: l’assistente gendarme Moritz ammette di aver agito in maniera del tutto contraria al regolamento. Insomma, l’allure del poliziesco è rinfocolata, e a un tempo screditata, dalla macchina del pettegolezzo quale fonte unica e inattendibile di ogni evidenza: nella dinamica dell’indiscrezione diffusa e a basso costo, l’attività di collezione delle prove si altera di continuo, sino a rompere ogni linearità nel processo ricostruttivo. E se tutto questo non bastasse, si potrebbe facilmente scadere dall’indiziario allo psico-amatoriale, se solo si pensasse ai numerosi parallelismi tra Konrad e il suo creatore, avvertito come misantropo meschino e iracondo, barricato nella sua dimora, chiuso di stanza in stanza una stanza alla volta, in piena e deliberata rinuncia al sesso, agli amici, alla gioia, ritrovandosi solo su un feticismo delle scarpe, con le sue circa cinquanta paia (cfr. Gitta Honegger, Thomas Bernhard: The Making of an Austrian, Yale University Press 2001, p. 104). Ma è proprio il doppio di cui sopra che mi impedisce questa via giudiziosa ma un poco facile e che, ne La fornace, mi induce a cercare Il male oscuro. Ed è così che, come avessimo sotto gli occhi La lettera rubata, si ritrova d’un sol colpo il vero protagonista del libro, ovvero il saggio, come indica senza ombra di censura l’esergo: “Ma invece di pensare al mio saggio, mentre cammino su e giù, avrebbe detto a Wieser, conto i passi e questo mi conduce sull’orlo della follia”. Una sintesi che persino solleverebbe dal compito di leggere il resto dell’opera, se questa non fosse squisita in ogni sua pagina. Cos’è, quindi, il saggio che, come l’attante di Greimas, esercita effetti inaspettati nelle sue improbabili connessioni con le folle di figure che si raccolgono ne La fornace? Non si può che cominciare dall’ambiente in cui tutto avviene, sul piano simbolico, prima che fattuale: la fornace di Sicking, in fondo immagine del “vivido e dinamico presentarsi del passato inconscio” in cui “tutto confluisce su un piano unico, fondendosi” (Giuseppe Berto, Io e la psicoanalisi. La sonda della verità, “Il Resto del Carlino”, 17 maggio 1964). Uno spazio in disuso, che comanda un sentimento di istintiva distanza, ma che pure attrae visitatori e curiosi, e che pertanto chiede difesa “da tutti i cosiddetti elementi estranei” (p. 10). La fornace, un tempo tra i possedimenti della famiglia di Konrad, e da questi riottenuta al prezzo di costose peripezie, è l’“unico luogo dove per lui fosse ancora possibile vivere”, che pure “a poco a poco, […] con una rapidità addirittura infernale, si era trasformata per Konrad in una sciagura senza pari” (p. 17). E otteniamo così un indizio dirimente sul luogo, che è metonimia di altro, vale a dire della possibilità, lì e solo lì, dello scrivere: se la moglie non agognava che tornare dalla sua famiglia a Toblach, ritornarvi “per lui non sarebbe stato altro che la rinuncia definitiva al suo saggio” (p. 19). Il saggio ha la sua condizione di possibilità nel luogo. Eppure, ogni elemento dell’universo fornaciano è un segno ambiguo, che sa essere al contempo sé stesso e il suo opposto. Spia, quindi, di un’impossibilità studiata, solo dissimulata sotto la forma di un’interminabile preparazione delle condizioni opportune. Proprio a cominciare dalla moglie, che da lui era inseparabile e che pure era “contraria al saggio per abitudine, dunque contraria per natura al saggio di lui” (p. 21), tanto che Konrad si immagina come sempre posto dinanzi a una ricorrente alternativa: tra “mia moglie o il saggio, io, com’è naturale, sceglierei il saggio” (p. 43). E sempre la moglie è l’oggetto di un martirio a un tempo esoterico e soteriologico: se il saggio concerne l’udito – in una chiave, come c’è d’aspettarsi, tra il nevrotico e lo psicotico – Konrad espone la moglie a esercizi d’ascolto estenuanti e paradelittuosi, che egli reputa essenziali per il saggio, e che nessuno capisce se non Konrad stesso, che nell’udito colloca la dimensione umana di salvezza e riscatto. Se la qualità unica di questo professionista della follia sonora è quella di percepire qualsivoglia effetto acustico, finanche il più distante e tenue, questa qualità però s’incista nel disperato bisogno di Konrad che anche gli altri, e in primo luogo la moglie, sviluppino la stessa propensione al portento. Perché “l’udito permette tutto” (p. 71). E ciò che nella moglie lo disperava non era né la riottosità all’esercizio né l’inettitudine a un miglioramento incrementale, ma la natura ondivaga dell’affinanda qualità: “La cosa più strana era che l’udito di lei in ogni momento si rivelava l’udito più balordo che ci fosse, per esempio lui diceva Che fatica camminare a voce altissima e chiarissima e lei non capiva, poi diceva Che fatica camminare con un fil di voce e lei capiva subito” (p. 96). È proprio per la presenza di tanti segni ambigui che viene da mettere in questione l’esistenza stessa di uno scritto che si gioca interamente sul suono. È possibile, in altri termini, che il saggio tanto inseguito da Konrad invero non esista? Il mio sospetto, detto altrimenti, è che il saggio non traduca altro che un’idea: Konrad sente tutto, sì, ma non riesce a sentire sé stesso, e nella disperata ricerca delle sonorità più impercettibili, va cercando sé proprio là dove non si troverà mai, ossia nelle torture inferte a quelle cavie umane cui a parole chiede disperatamente di avvertire suoni, mentre in cuor suo prega avvertire ciò che egli stesso non avverte, ovvero Konrad. Questi va cercandosi nel luogo per lui più tetro e disgustoso, cioè gli altri, e vincola tutto un regime di immaginarie possibilità a questo suo stato di esperimentatore che ha in spregio ogni protocollo etico. E in questa condizione, che tenta una simbiosi tra solitudine e ricerca sadica degli altri, “ci sarebbe da impazzire”, ma egli non si consente la follia (p. 75). Perché sa che “questo saggio inizialmente non era stato altro che una decisione solitaria, poi null’altro che il più solitario dei lavori” (p. 75). Un progetto di personificazione che gli sfugge proprio perché assalito dalla moglie e dai suoi avventori, che lo inducono a concretare sé stesso per il tramite improbo del loro udito. Questa possibilità di coltivare il silenzio, prodromico allo scritto sull’udito, è disinnescata da Konrad con programmatica capacità d’ingrovigliarsi in affari che pure detesta. E se il “capolavoro” che il protagonista de Il male oscuro non riesce a partorire per la ridda di patologie, patologemi e patografie, che si procura per non dichiararsi la propria incapacità, è in fondo un io ricomposto e in tregua con le altre istanze psichiche, a questo fine Konrad manca di una qualità che risulta essenziale: la qualità di non aver “paura di realizzare, di portare a compimento, semplicemente non aver paura di ribaltare la propria testa, con gesto fulmineo e spietato” (p. 225). Ma il doppio torna qui a offrirci una chiave per risolvere il dramma konradiano. Se è vero che il saggio sull’udito – cioè, nella mia ipotesi, il tentativo di udire sé stessi – è la causa delle disgrazie di Konrad, di cui forse la meno certa e per ironia la meno grave è l’omicidio della moglie, questo è perché egli dimentica qualcosa che Berto, attraverso l’analisi di sé, è riuscito a far suo per sfuggire alle grinfie di una degenerazione psicotica: “Qualsiasi cosa fosse venuta fuori, sarebbe stata comunque qualcosa attinente all’uomo” (p. 470). Senza mai cadere preda del paralogismo secondo cui la redenzione possa trovarsi o nel silenzio assoluto o nella confusione naturalmente ingenerata dagli altri, Berto s’avvede che il vero capolavoro, in qualsiasi sua forma, sta nell’“esplorazione di una parte di noi stessi che forse non abbiamo il coraggio di guardare, ma c’è, esiste in noi, e nasconderla non serve che a renderci sempre più ammalati e infelici” (Berto, Il male oscuro, p. 470). Ecco, quindi, la chiave de La fornace offertaci da Il male oscuro: l’assurdo patogeno konradiano, responsabile dell’insorgenza di una psicosi criminogena, risiede innanzitutto in un rapporto con sé stessi che oblitera l’ascolto del proprio sé e rende così l’altro la vittima sacrificale della propria infelice incapacità di avvertirsi. La morale è facile, e sa un po’ di melassa, ma non per questo è meno vera: nessuno ci ascolterà mai se, come rito propedeutico a una catalisi dei rumori di un mondo da sempre incline alla malattia, non ci si mette all’ascolto di sé stessi. E questa conclusione, condivisa, credo, sia da Bernhard sia da Berto, fa dei loro libri il luogo di una dura ma deliziosa pratica del sé: seguire le tracce di sé in chi sa ben scrivere dell’impossibilità di scrivere di sé e quindi dirsi. Per questa ragione, varrà la pena chiudere con quanto Carlo Emilio Gadda asserisce a proposito de Il male oscuro, che come La fornace, e molti altri romanzi di Bernhard, sembrerebbe a tutta prima mancare di una conclusione solare e speranzosa: “A contrastare il postulato vitalistico-moralistico del lieto fine, o d’una euforica certezza del bene perpetuo o d’una corroborante attesa del meglio a tutti i costi, sono proprio essi i meravigliosi racconti di soggetto ‘totale’, i drammi di qualità esemplare, che assembrano e rappresentano un mondo, o un sistema di accadimenti o di pensieri epici o ciclici, che preludano la cosiddetta nuova storia, che aprano la visione etica nuova, la nuova speranza, a chi è ancora in grado di poter sperare qualche cosa. Non c’è rosa senza spine” (Carlo Emilio Gadda, Postfazione, in Berto, Il male oscuro, pp. 480-481). La nevrosi irrisolta, come la psicosi omicida, nello spazio letterario, è in effetti il più lieto degli inizi, se l’attività cui dà avvio è quella di chi legge e, leggendo Bernhard, ha il privilegio di ascoltare sé per tramite suo. Mariano Croce Mariano Croce insegna Filosofia politica presso Sapienza Università di Roma. Si occupa di critica sociale, postcritica, battaglie LGBTIAQ+ e politiche della trasformazione sociale. ARTICOLO RIPRESO DA https://www.minimaetmoralia.it/wp/letteratura/thomas-bernhard-e-il-nostro-doppio/ pubblicato martedì, 27 Settembre 2022 ·

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