La marcia su Roma e la prima guerra mondiale
Nel fiume di articoli e libri sulla marcia su Roma, evento fondante del regime fascista (che viene convenzionalmente associata al 28 ottobre 1922) – quest’anno sono cent’anni e ci troviamo con un’estremista di destra a capo del governo, – mi sembra prima di tutto meritevole un pezzo dello storico Marco Mondini uscito sul Domani.
Mondini inquadra la presa del potere di Mussolini negli sconvolgimenti politici, culturali, antropologici e psicologici causati dalla prima guerra mondiale, con il «parossismo di violenza che aveva contaminato gli europei».
Ci ricorda Mondini che «prima del 1914 milioni di maschi adulti europei non avrebbero saputo come (avuto il coraggio di) togliere una vita,» mentre nel 1918 lo avrebbero fatto con tranquillità «per uno dei grandi obiettivi ideologici in nome dei quali erano stati bombardati psicologicamente per anni da mass media invadenti, isterici e striduli. O anche, semplicemente, per abitudine. Una differenza abissale che la maggior parte degli storici italiani non ha capito».
Furono soprattutto nei paesi sconfitti, Germania in primo luogo, ma anche negli Stati successori dell’impero austro-ungarico, che si formarono gruppi egemonizzati dall’estrema destra che rivendicarono il diritto alla violenza per punire le forze – democratici e socialisti, i «nemici interni» – che avevano, a loro dire, causato la sconfitta attraverso il tradimento.
La frustrazione e il desiderio di rivalsa si impadronirono anche dei reduci italiani, convinti di non aver ottenuto abbastanza per «la patria» nonostante l’enorme sacrificio. E il movimento fondato da Mussolini nel 1919 riuscì a convogliare e esaltare i sentimenti, la frustrazione e il rancore di colore che pensavano di aver vinto la guerra ma si trovarono con la sensazione di aver subito la sconfitta.
Il trionfo dei fascisti è come noto motivato anche dal fatto che i poteri costituiti, il governo, la corona e l’esercito, li lasciarono fare. Ma è il contesto della storia transnazionale, la guerra totale che aveva plasmato la società europea attraverso il capillare sistema di informazione e propaganda, creato per mantenere il consenso al conflitto, che spiega l’affermazione dei fascisti nella società italiana. Il nostro paese, come gli altri paesi europei, non era uscito dall’abito dell’odio che si era formato nelle trincee e nella fucina della mobilitazione culturale degli anni di guerra. Il fascismo elaborò «progetti nuovi su cosa la nazione fosse, e chi avesse il privilegio di farne parte: patrioti e no, combattenti e no».
Quando tornarono a casa, scrive Mondini – che ha appena pubblicato col Mulino, Roma 1922. Il fascismo e la guerra mai finita – i veterani erano convinti di avere il diritto, anzi il dovere di assumere la guida del paese, cacciando (o annientando) tutti coloro che non ne erano più degni. La guerra sarebbe veramente finita solo allora».
Su come la prima guerra mondiale formò una nuova antropologia dell’odio e della contrapposizione mortale si veda anche il bellissimo libro di Paul Fussel, La grande guerra e la memoria moderna (Il Mulino), uscito negli anni ’70 e che ha contribuito a cambiare la storiografia sul conflitto.
In questo quadro è anche molto significativo l’ultimo capitolo del libro di Antonio Gibelli, La grande guerra degli italiani (Sansoni, 1998), «Il conflitto della memoria» nel quale l’autore mostra come i fascisti e i nazionalisti estremi si appropriarono efficacemente della memoria della guerra per scopi politici.
Segnalo anche tre articoli usciti su Doppiozero:
–Il fascismo immaginario tra mito e realtà, di Carlo Greppi
–La storia congelata, di Enrico Manera
–Straniero e straniato: Cousins alla marcia su Roma, di Denis Lotti.
Infine, una segnalazione sul 24 maggio del 1915, le «giornate radiose» dell’interventismo che furono per certi versi la prova generale della marcia su Roma.
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