Il rifiuto della guerra
Bruna BianchiLe proteste contro la guerra in Russia, come accade per molti movimenti sociali, sono un fenomeno carsico: crescono di nascosto e in profondità per molto tempo, poi si manifestano in tanti modi diversi per brevi periodi. Da marzo ad agosto le proteste collettive a Mosca e in altre città sono quasi scomparse del tutto per poi tornare in settembre: il dissenso contro la “mo-killi-zation!”, cioè contro il decreto sulla mobilitazione per la guerra, ha sorpreso tanti. Una protesta fortemente giovanile e femminile, fatta di azioni in strada, incendi ai centri di reclutamento, sostegno ai familiari delle vittime e alle persone arrestate, iniziative di controinformazione. E perfino danze, come quella delle donne di Jakutsk, città della Siberia che, durante un arruolamento forzato, hanno circondato gli agenti ballando in cerchio la osuokhay, la danza tradizionale e gridando “No alla guerra, no al genocidio!”. Anche per questo i bersagli privilegiati della repressione sono state le donne e le ragazze, a cominciare da quelle in abiti scuri con chiaro riferimento alle Donne in nero, da oltre trent’anni una delle più straordinarie storie di nonviolenza nel mondo
«Ricordiamoci le parole di Pierre in Guerra e pace: “Tutto il mio pensiero consiste in questo: poiché le persone malvage si uniscono e costituiscono una forza, le persone oneste devono solo fare la stessa cosa. È semplice”. No, non è affatto semplice. Ma è possibile ed è la cosa più importante. E questo significa che non possiamo permetterci di cedere» (Lev Ponomarev)
Cosa è accaduto nella società russa negli ultimi mesi? Quanto e come i principi e le pratiche della nonviolenza hanno avuto modo di emergere? Da marzo ad agosto le proteste collettive in Russia sono cessate. La sensazione di isolamento di fronte alla pervasiva retorica governativa, la paura della repressione, dell’espulsione da scuole e Università, di perdere il lavoro, l’ansia per le continue violazioni dei diritti umani, le minacce e le vere e proprie persecuzioni di attivisti e attiviste, le sentenze esemplari contro insegnanti, giornalisti-e e figure politiche hanno certamente avuto un ruolo importante nel dissuadere dalle proteste pubbliche. Mentre centinaia di migliaia di cittadini russi si sono autoesiliati portando con sé la loro cultura e la loro esperienza di resistenza e di attivismo, in Occidente l’opposizione alla guerra non è più stata al centro dell’attenzione dei “grandi” media e la questione del dissenso nella società russa e quella dei reali sentimenti della popolazione sono rimaste nell’ombra.
Si è andata così diffondendo la convinzione che il consenso alla guerra sia pressoché unanime, che la società civile russa sia fragile e che non riesca ad esprimere una risposta forte contro la guerra.
Se è vero che la società civile organizzata si è indebolita progressivamente negli anni, e in particolare nei mesi di guerra, sotto i colpi della repressione, la società civile indipendente, i gruppi femministi, quelli di volontariato e di sostegno agli obiettori e ai profughi ucraini, quelli che si impegnano per i diritti umani e per una libera informazione hanno esteso la loro influenza.
Verso le proteste del 21-26 settembre
Si può avere un quadro della vastità dei campi d’intervento e delle modalità dell’attivismo dal profilo di alcune di queste associazioni contro la guerra, delle loro motivazioni e delle loro iniziative pubblicato all’inizio di luglio dal quotidiano online con sede in Lettonia, Meduza. L’attività di questi gruppi, molti dei quali nati all’inizio della guerra, non ha avuto lo stesso impatto di una dimostrazione di massa in una grande città, ma i loro messaggi sono stati più capillari, hanno offerto aiuto concreto e psicologico alle vittime della guerra e della repressione, raccolto fondi, confutato le falsità della propaganda, condotto sondaggi di opinione, sostenuto i valori umani in una situazione disumana.
Né si devono dimenticare le azioni di protesta di coloro che hanno continuato a scendere per le strade avvicinando i passanti e cercando di instaurare un dialogo (data.ovdinfo.org).
Alcune di queste reti, come l’organizzazione giovanile Vesna e il FAR, le femministe contro la guerra, sono state tra le prime a opporsi al decreto sulla mobilitazione, a chiamarla “mo-killi-zation” e a promuovere la protesta che dal 21 al 26 settembre è esplosa in oltre 40 città in tutta la Russia e accompagnata da 2080 arresti (data.ovdinfo.org). Dall’inizio del conflitto al 17 agosto i casi di detenzione sono stati 16.417 (data.ovdinfo.org).
L’approvazione del decreto sulla mobilitazione ha scosso la parvenza di normalità della vita quotidiana, ha inasprito l’opposizione nelle regioni periferiche che hanno subito le maggiori perdite nel conflitto e hanno suscitato la rabbia giovanile. A gridare la loro collera e la loro disperazione, infatti, sono stati per lo più giovani uomini, spesso giovanissimi, e le donne di ogni età1.
“Non morirò per Putin”. La protesta giovanile
I giovani in età militare, che avevano risposto in misura minima alle pressioni per l’arruolamento volontario, già nei sondaggi di giugno avevano presentato le percentuali più elevate di opposizione alla guerra. Il sondaggio condotto da Levata Center, l’unica agenzia indipendente e considerata “agente straniero”, aveva rilevato la più altra percentuale di dissenso tra i giovani dai diciotto ai venticinque anni: 36 per cento contro il 20 per cento della popolazione nel suo complesso2. Una serie di sondaggi “confidenziali” condotti da VCIOM, il centro statale russo per i sondaggi di opinione, i cui risultati sono trapelati sui media, nel mese di luglio aveva riscontrato percentuali più elevate (cato.org). Nel rapporto si legge:
Una delle conclusioni più eloquenti che si possono trarre dal sondaggio è che i giovani russi sono determinati a porre fine alla guerra e il loro atteggiamento nei confronti del presidente in relazione all’“operazione speciale” e alle sanzioni non sta cambiando in meglio. La maggior parte dei giovani è favorevole ai negoziati e contraria al proseguimento delle ostilità:
– nella classe di età 18-24 anni, il 79 per cento delle persone intervistate è favorevole alle trattative;
– in quella dai 25 ai 34 anni il 56 per cento;
in quella dai 35 ai 44 anni il 46 per cento.
Più si innalza l’età e più cresce la percentuale di coloro che credono che la Russia debba continuare a combattere (thebell.io).
In settembre il Levada Center ha voluto indagare le reazioni della popolazione al decreto sulla mobilitazione. Alla domanda: “quali sentimenti ha suscitato in te l’annuncio della mobilitazione parziale?” i giovani dai 18 ai 24 anni hanno dato le seguenti risposte: rabbia: 23 per cento, paura: 56 per cento, trauma: 31 per cento, tutte percentuali nettamente più elevate rispetto alla media (levada.ru).
Il timore di essere arruolati forzatamente è più che fondato. I giovani in età militare, infatti, rischiano di essere convocati presso gli uffici di reclutamento se sono espulsi da scuole e Università, talvolta al minimo segno di dissenso, o se sono arrestati nel corso di manifestazioni di protesta.
Anche il numero delle perdite in guerra tra i giovani e giovanissimi ha con tutta probabilità contribuito al diffondersi di stati d’animo dominati da paura e rabbia. Essi, infatti, in particolare quelli che provengono dalle province più povere – Daghestan, Buriazia, Baschiria – sono stati tra i primi a perdere la vita. Nel complesso, secondo i dati ufficiali, dall’inizio della guerra al 7 ottobre, il 33 per cento dei casi di morte si sono verificati nella classe di età tra i 18 e i 26 anni e i giovani tra i 21 e i 23 anni hanno subito – (13,5 per cento) – le perdite maggiori (en.zona.media).
Scorrendo i resoconti delle proteste di settembre a cura di OVD.news e le immagini scattate dagli stessi arrestati, sfilano davanti agli occhi tanti volti di giovani e giovanissimi. Un esempio quello di uno studente di Arcangelo, espulso dalla scuola per essersi rifiutato di seguire i “colloqui su cose importanti” e fermato dalla polizia mentre stava andando ad una manifestazione di protesta (fotografia), o quello del ragazzo che a Belgorod è sceso in strada con un cartello in cui auspicava la vittoria dell’Ucraina: “Libertà e vittoria all’Ucraina. No alla mobilitazione” (foto), o ancora i volti di ragazze e ragazzi che all’interno del furgone di polizia a Novosibirk il 24 settembre ostentano orgoglio e sicurezza di sé (foto).
Si deve verosimilmente alla rabbia giovanile l’aumento a partire dal 21 settembre del numero degli incendi appiccati ai centri di reclutamento. Dall’inizio del conflitto queste forme di sabotaggio sono state 67: 34 nei sei mesi prima del decreto sulla mobilitazione e 33 dal 21 settembre al 13 ottobre. Lo ha calcolato Mediazona, media indipendente russo fondato da Marija Alëchina e Nadežda Andreevna Tolokonnikova del gruppo di protesta e della band Pussy Riot, che pubblica e aggiorna costantemente una mappa dei roghi. Agli atti di sabotaggio hanno fatto appello anche le fondatrici di FAR, come una di loro ha recentemente dichiarato: “Abbiamo immediatamente scritto un appello a sabotare i centri di arruolamento militare e a manifestare per le strade” (opendemocracy.net).
Non sempre i resoconti di OVD riportano l’età degli arrestati per i reati di sabotaggio o danneggiamento, ma quando compare questa informazione si tratta sempre di giovani. È il caso di un ventenne che il 26 settembre alle 4 del mattino a San Pietroburgo ha appiccato il fuoco a un edificio che portava l’insegna “Ufficio di reclutamento militare”. Quello stesso giorno è apparsa sulla pagina di VKontakte la frase a lui attribuita: “Ciascuno protesta come meglio crede”. Sempre il 26 settembre a Novosibirk è stato arrestato un giovane di 22 anni accusato di aver pianificato di appiccare il fuoco a un ufficio di reclutamento e di aver organizzato un gruppo di giovani per compiere atti simili. Altri incendi sono stati causati da giovanissimi con l’intento di colpire i simboli della federazione russa; a Ulan Ude due diciassettenni hanno bruciato una bandiera russa che avevano issato sul monumento di Lenin (ovd.news).
Questi incendi si aggiungono alla lunga catena di atti di sabotaggio che dall’inizio del conflitto hanno ripetutamente danneggiato le linee ferroviarie per impedire il rifornimento di armi all’esercito dispiegato in Ucraina (vice.com).
“Sembrate delle ladre”. La protesta femminile
Le donne e le ragazze hanno avuto un ruolo preponderante nella protesta contro la mobilitazione. Nel complesso esse hanno rappresentato il 51 per cento dei 1.383 casi di arresto il 21 settembre e il 71 per cento degli 848 casi di arresto il 24, percentuali particolarmente significative se le si confrontano con quelle relative al febbraio-marzo 2022 (30 per cento) e ancor più con quelle degli anni precedenti: 6 per cento nel 2019 e 11 per cento nel 2021 (reuters.com). Un tale aumento è certamente dovuto alla crescita del movimento femminista (che è passato da 30 sezioni nel 2019 a 45 nel 2021), ma anche alla volontà da parte delle donne di farsi carico della protesta al fine di evitare a uomini e ragazzi l’arruolamento forzato. Infatti, gli attivisti che avevano partecipato alla protesta sono stati inviati ai centri di reclutamento in almeno 17 dipartimenti di polizia il 21 settembre e in 16 il 24 (euronews.com).
Il sentimento di orgoglio per il ruolo avuto nelle manifestazioni, la volontà di dimostrare di saper vincere la paura emergono da alcune fotografie che le ritraggono al momento dell’arresto, come da quella scattata a Tomsk il 24 settembre (foto)
Non stupisce quindi che la repressione si sia abbattuta in modo particolarmente duro sulle donne e le ragazze e in misura maggiore rispetto al passato. A San Pietroburgo, come in altre città, bersagli privilegiati sono state le donne e le ragazze in abiti di colore nero con chiaro riferimento alle Donne in nero, le pacifiste che nelle manifestazioni vestono a lutto per le sofferenze portate dalla guerra. A Ufa il 24 settembre alcune ragazze del gruppo sono state detenute con l’insolente motivazione che “assomigliavano a ladre”.
Nei posti di polizia le consuete umiliazioni sessuali e le minacce di stupro sono state inscenate nel modo più brutale e osceno. Valga per tutti il caso di una giovane di Vladimir, Alena, detenuta il 24 settembre. A OVD ha raccontato
“di essere stata costretta a spogliarsi completamente; le dissero poi che l’avrebbero obbligata a ‘sedere su una bottiglia’ (ovvero che l’avrebbero stuprata usando una bottiglia). Il detective Alexander Terentiev le disse che non le restava molto da vivere e che presto “sarebbe andata in Ucraina”. Dopo che la ragazza ebbe risposto che non era soggetta a servizio militare, il detective le assicurò che il suo ragazzo sarebbe stato arruolato e gli ‘sarebbero state tagliate le palle’. Poi, dichiarò Alena, il detective prese una bottiglia e mi disse che mi avrebbe costretto a pisciarci dentro e a bere da lì”.
Dopo molte ore di queste torture, la ragazza si è sentita male, ha firmato una dichiarazione in cui ammetteva di aver partecipato alla manifestazione, di aver scattato fotografie degli ufficiali di polizia e di averle diffuse sui social. A quel punto è stata rilasciata.
Le donne adulte che avevano partecipato alle manifestazioni sono state colpite nei loro affetti familiari. Ne è un esempio il caso di Lidija, madre di quattro figli, di Voronez, città non distante dal confine ucraino. Il 26 settembre, sulla porta di casa è stata prelevata e trascinata in un’auto da alcuni uomini in abiti borghesi; lì le hanno intimato di cessare ogni forma di protesta e di “abbassare la testa”, altrimenti i servizi di affido famigliare sarebbero stati informati della sua condotta e le avrebbero tolto i bambini, mentre il marito e il figlio maggiore sarebbero stati arruolati.
Nei giorni delle proteste e in quelli immediatamente successivi agenti e collaboratori di polizia hanno fatto irruzione nelle abitazioni delle attiviste e delle donne sospettate di aver partecipato alle manifestazioni, o di aver diffuso volantini contro la guerra; le hanno minacciate o le hanno condotte ai centri antiterrorismo. È accaduto a Darja e Victoria, autrici di un volantino in cui avevano scritto: “Porteremo una bara in ogni casa, a spese dello stato”.
Il tema o l’immagine della bara ritornano con una certa frequenza nelle frasi e nei poster nel corso delle manifestazioni collettive e individuali. Chi ha fatto riferimento ai ragazzi che tornano in Russia nelle bare di zinco, come Tatjana di 72 anni di Petrozavodsk, chi ha diffuso volantini con disegni di bare. A Mosca Alexander ha dato ai suoi volantini la forma di annuncio pubblicitario: “Agenzia funebre Russia. Forniremo gratuitamente una bara: figlio, marito, fratello, amico”. Non sappiamo nulla del destino di Alexander, ma sappiamo che Darja e Victoria al centro antiterrorismo sono state afferrate per il collo, prese a calci, trascinate per i capelli, colpite alla testa con vari oggetti tra le minacce di essere denunciate per prostituzione e gli insulti: “feccia, sudiciume, meritate di essere uccise”.
La volontà di terrorizzare, di infondere la convinzione di non poter sfuggire al controllo e alla punizione ha causato l’arresto di tre ragazze che a Brjansk erano scese in strada con i loro poster contro la guerra sui quali avevano scritto le frasi: “Questa non è la nostra guerra”; “Basta derubarci del nostro futuro” e alcuni versi della più famosa canzonetta sovietica per bambini del 1962:
Possa esserci sempre il sole
Possano esserci sempre cieli azzurri
Possa esserci sempre la mamma
Possa esserci sempre io!
Anche le donne anziane hanno voluto gridare la loro indignazione. A San Pietroburgo Irina ha affidato la sua protesta a una iscrizione deposta sulla tomba dei genitori di Putin. Per questo gesto è stata accusata di profanazione ed è stata messa agli arresti domiciliari. L’iscrizione diceva:
“Genitori del maniaco, prendetevelo con voi, ha causato così tanto dolore e così tanti problemi, che il mondo intero sta pregando per la sua morte. Morte a Putin, voi avete cresciuto un mostro e un assassino”.
“No alla guerra, No al genocidio”. Le proteste nelle regioni orientali
Anche nelle proteste che si sono svolte a Machačkala in Daghestan, a Jakutsk nella Siberia orientale, a Ulan Ude in Buriazia e a Grozni in Cecenia, le donne e le ragazze sono state le principali protagoniste.
Nelle zone più orientali, abitate da popolazioni non slave, ha affermato il 4 ottobre una delle fondatrici di FAR, “ci sono molti villaggi completamente svuotati. Non resta un solo uomo […] le popolazioni in queste regioni comprendono che sono diventate una risorsa per Mosca […] Nella Russia europea Mosca cercherà di creare l’illusione di normalità fino all’ultimo momento, ma non durerà a lungo”. (opendemocracy.net). In queste regioni la mobilitazione è stata percepita come una forma di pulizia etnica e si è configurata come una serie di incursioni. In Buriazia migliaia di persone sono state arruolate forzatamente in 24 ore; gli avvisi di arruolamento sono stati consegnati di notte e sono stati messi immediatamente in pratica senza alcun rispetto per le esenzioni previste dalla legge (en.zona.media). “I nostri mariti, padri e fratelli non vogliono uccidere altri mariti e padri” hanno gridato le donne a Ulan Ude; a Jakutsk esse hanno circondato gli agenti danzando in cerchio la osuokhay, la danza tradizionale, gridando: “No alla guerra, no al genocidio”.
A Machačkala il 25 settembre le donne hanno cercato di respingere gli agenti, di liberare i giovani arrestati gridando che non avrebbero permesso che i loro figli fossero mandati a morire, che questa non era la loro guerra, che nessuno aveva aggredito la Russia. Le arrestate sono state 120 tra cui numerose minorenni (en.zona.media).
In Cecenia, a Grozny, il 21 settembre si è svolta la protesta delle madri contro la mobilitazione; in 130 sono state arrestate e un numero ancora imprecisato dei loro figli sono stati costretti a firmare la dichiarazione di reclutamento volontario pena la ritorsione sulle loro madri. A queste donne che avevano avuto l’ardire di sfidare l’autorità doveva essere inflitta una punizione esemplare; sono state quindi condotte al municipio per subire il castigo per mano dei loro mariti a cui sono stati consegnati tubi di gomma riempiti di calcestruzzo. Se coloro che avevano il dovere di sottomettere le donne nella famiglia non l’avessero fatto, alla punizione avrebbe provveduto la polizia.
La guerra, progetto patriarcale di ricolonizzazione del mondo, ridefinisce e riafferma con la violenza tutti i confini, non solo quelli territoriali, ma anche quelli mentali, simbolici, di genere, di generazione e di “etnia”.
Dal 26 settembre le proteste collettive si sono spente, ma la collera dei giovani e delle donne, il loro senso della giustizia offeso, la loro repulsione per la guerra probabilmente riaffioreranno. Dalle testimonianze e dalle immagini che sono trapelate fino a oggi è lecito pensare che della loro esperienza coloro che hanno protestato conserveranno non solo la paura e il senso dell’oltraggio, ma anche la forza morale che hanno trovato in sé stessi-e e i legami di solidarietà nati dalla protesta, come suggerisce la frase su un poster che una donna di Tomsk teneva a settembre tra le mani: “Se anche tu hai paura, abbracciami” (themoscowtimes.com).
Note
1 Quando non indicato diversamente, la fonte delle notizie sulle manifestazioni di protesta a cui ho attinto è stata la cronaca degli avvenimenti in lingua inglese nel sito di OVD (events). Poiché le notizie sono ordinate cronologicamente (settimana per settimana) il nome della persona arrestata, il luogo e la data sono gli elementi principali per risalire alla cronaca completa dell’evento.
2 Questi dati includono anche le giovani donne. Non sono riuscita a trovare dati disaggregati per sesso.
[Questa pagina fa parte di Voci di pace, spazio web
di studi, documenti e testimonianze a cura di Bruna Bianchi]
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