Sulla scrittura «piatta» di Annie Ernaux
di Ornella Tajani
Sono rimasta colpita dalle critiche mosse alla scrittura «piatta» di Annie Ernaux all’indomani del Nobel, come se tale scrittura fosse in fondo facile, non letteraria, robetta: mi è sembrato quasi il «potrei farlo anch’io» che si sente davanti alle attese di Lucio Fontana, per fare un esempio.
Nel mio piccolo non credo di aver mai usato questa definizione per parlare della sua opera, preferendo quella di scrittura misurata, che procede per sottrazione, raggiungendo una sapiente condensazione. Per questi motivi non è affatto una lingua facile da tradurre – come per altri versi non lo è quella di Ágota Kristóf -, lo si capisce anche soltanto quando si è alle prese con un passaggio da inserire in italiano nella recensione a un suo testo ancora inedito: a volte una frase, che magari prevede una rapida successione di immagini perfettamente montate, appare come un minerale, impossibile da scomporre o da scalfire.
La definizione di «scrittura piatta» rinvia all’écriture blanche, usata da Roland Barthes nel parlare, fra gli altri, di Camus (associazione che Ernaux ha in realtà rifiutato); è lei stessa a utilizzarla in varie occasioni, ad esempio nel video che segue, in cui spiega che cosa intende: intende il fatto che quando scrive non sceglie un termine perché è “beau”, ma perché è ”juste”.
Con estrema semplicità ed efficacia, Ernaux fornisce una chiave della propria opera, che va oltre lo stile; e, se vogliamo soffermarci sullo stile e sulla sua presunta scarsa complessità, risulta evidente quanto trovare il termine “giusto, esatto” sia molto, molto più difficile che trovarne uno bello.
Pezzo ripreso da https://www.nazioneindiana.com/2022/10/30/sulla-scrittura-piatta-di-annie-ernaux/
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