26 ottobre 2022

CARLO SINI, Le potenze della terra e le figure dello specchio

 

LE POTENZE DELLA TERRA E LE FIGURE DELLO SPECCHIO

di Carlo Sini

 

[È uscito da alcune settimane il quarto volume della collana Le mappe del pensiero (Jaca Book) a cura di Tommaso Di Dio, Francesco Emmolo, Enrico Redaelli, che raccoglie una scelta dei materiali prodotti nell’anno 2018-2019 nei seminari che si sono tenuti presso Mechrí, Laboratorio di filosofia e cultura intorno al tema Evoluzione, progresso. Il volume comprende, in apertura, un saggio di Carlo Sini, dal titolo Le potenze della terra e le figure dello specchio, e una scelta dei “cartigli” che ne hanno guidato lo sviluppo: se ne pubblicano un estratto e i relativi cartigli. L’indice del volume è scaricabile da qui.]

 

L’irrevocabile

 

Chiedere dell’origine, di come noi umani abbiamo fronteggiato le potenze della terra, di come il sogno del pastore abbia protetto i fragili confini del nostro giardino di parole, ci sembra la cosa più naturale del mondo: non è ciò che fa da sempre «tutta la nostra scienza» (come direbbe Nietzsche)? L’esercizio di questo sguardo panoramico, «da fuori», non fa questione, pare, ad alcuno; ma è un fatto che così neghiamo a noi stessi di essere un transito e in un transito. I nostri saperi però (come i nostri corpi) non stanno di contro al mondo, stanno nel mondo e ne provengono. Tuttavia, se dici «mondo», già stai in un sapere «panoramico»: come farsi carico di questo nodo? Come sciogliere la sua problematica «duplice verità»?

 

C’è nondimeno qualcosa di irrevocabile in tutto ciò. Irrevocabile è, anzitutto, che sei qui: schermato dalla cultura sin dalla nascita, cioè dal sogno del pastore e dal furto del Titano[1]. Esattamente come una piccola volpe sta nella sua nicchia, schermata, dici tu, dalla «natura»; ma tu in particolare come prodotto in cammino del lavoro della conoscenza, dei suoi specchi strumentali e dei suoi specchi vocali. Proprio dallo specchio della parola e dalla potenza collaborativa delle sue figure verbali nascono i sogni delle forme di vita, le aggregazioni religiose e politiche, le arti della memoria orali e scritte: un patrimonio incarnato di cui nessun automa potrebbe recuperare reale memoria; per esempio come, nelle nostre figure di sogno, abbiamo mostrato qui. Astenetevi saggiamente dal sogno impossibile dell’automa-filosofo: non è davvero il caso di temerlo o di rimpiangerlo.

 

Ma irrevocabile, nel contempo, è che l’esser qui comporta sempre e necessariamente la strozzatura di un corpo: transeunte incarnazione di un luogo, di una provenienza, di una storia, di un destino. E così il destino del singolo corpo vivente è il luogo del «reale», dove capita di comparire e scomparire attraverso tempi innumerabili. Immagina le vicende dell’ultima volpe argentata del polo o dell’ultimo cammello del deserto del Gobi, dell’ultimo cammelliere e della sua forma di vita. Si potrebbe dire: evoluzione delle forme di vita senza progresso, come accade di tutte le figure della terra e della terra medesima, specchio provvisorio del Cielo e della sua potenza senza scopo. Una galassia in meno o una in più costituirebbero regresso o progresso nell’universo?

 

Ma che dire poi di questo discorso? Esso testimonia di molte conoscenze (dal deserto del Gobi alle galassie…), ma non ne aggiunge alcuna; piuttosto suggerisce un modo di condividerle, influenzando il senso della nostra forma di vita «copernicana» in cammino. Il lavoro di un sogno che in verità si distingue da quello del moderno scienziato. Egli studia sui corpi le tracce del cammino metamorfico della vita sul pianeta. Intende i corpi come «documenti storici» della vita; così gli capita anche di sognare che siano i corpi la «causa» del cambiamento; per esempio, l’osso ioide causa del linguaggio articolato e non la sua conseguenza, poiché non considera i corpi come effetti delle pratiche di vita e specchi, o figure dello specchio, delle potenze del cielo sulla terra. E poi lo scienziato trascura la sua stessa collocazione storica e la storicità del lavoro sociale che gli fornisce i suoi potentissimi «strumenti»: Vico aveva le sue ragioni.

 

E allora l’universo di cui parliamo è come la città di Leibniz: essa è replicata nella percezione di ciascuna monade, in relazione con tutte le altre. L’universo, la città, non sono mai altrove dal dinamico, reciproco determinarsi sistemico di tutte le prospettive: si tratta di processi, non di sostanze, di vortici, di multiversi, non di universi, ma la nostra scienza evoluzionistica non è ancora familiare con queste figure dello specchio e con questi sogni verosimili[2].

 

Lo stacco e il destino

 

 

In ogni tappa del nostro cammino abbiamo sperimentato il nodo tra conoscenze strumentali e discorsi sociali, nodo che ovviamente accade anche qui. In hoc corpore, in hoc signo, ovvero l’irrevocabile esser qui come ci siamo: punto di arrivo di un immenso cammino di variazioni e di metamorfosi. In particolare, cammino del progresso tecnologico che ha potenziato gli organi naturali del corpo animale con strumenti esosomatici e cammino del progresso dei discorsi, che hanno disegnato il profilo astrattivo del nostro umano sapere: perché le parole dicono sempre l’universale (diceva Hegel), cioè dicono la risposta che «in generale» vale per tutti, ciò che ognuno è pronto a fare (diceva Peirce) in relazione con gli altri. È così che nasce l’illusione e la superstizione (nondimeno operativamente preziosa) della parola. L’illusione che le parole dicano «cose» corrispondenti (per esempio «il reale») e non che dicano agli altri, e a se stessi, che cosa conviene credere e fare nelle concrete situazioni della vita.

 

Entrare nel discorso, per l’infante, è il primo compito dell’educazione finalizzata a diventare umani; diciamo appunto «in-fanzia» per differenza dalla sua meta. Il discorso nel quale viene accolto ognuno di noi non è una secrezione cerebrale, ma una relazione vivente organica che si replica dalla notte dei tempi. Il suo «lavoro» trasmette significati condivisi (abiti di risposta) con il «colore» della loro apprensione vivente in situazione: emozioni, stupori, timori, desideri, tutta la «musica» del linguaggio che a Mechrí studiamo in particolare nel Seminario delle arti dinamiche, dove preminentemente risuona il canto delle Muse, dal quale qui siamo partiti, e la loro danza immortale[3].

 

Il discorso che per ognuno è originario (liquido amniotico della sua anima), trasmette una tradizione nella quale conoscenze, credenze e procedure in cammino evolvono insieme, intrecciandosi e influenzandosi vicendevolmente. Entro questa tradizione incancellabile, il moderno metodo scientifico ha operato il suo grande «stacco», con il progetto e la pretesa della sospensione metodologica di tutte le credenze, di tutte le emozioni, di tutte le tradizioni, per incentrare la sua azione sulla esclusiva efficacia del «mezzo», del «medio» (methodos), compresa la riduzione della semplice presenza (l’irrevocabile esser qui nella sua modalità storico-emotiva) alla esperienza oggettivata tramite ricettori esosomatici e schemi strumentali e protocollari (immaginati sin dall’inizio da Bacone a Galilei). Resta il fatto però che il sapere complessivo non può mai fare a meno del «detto»: «Cantami o Diva, e non mentire troppo».

 

Il successo dell’uso euristico degli strumenti e delle macchine ispira l’idea che anche la realtà sia una grande macchina e che essa macchinalmente si comporti; per esempio sulla base di quella scomposizione analitica fisico-chimica che conduce a pensare l’inorganico come componente universale di tutto ciò che è, compreso il mondo organico abilis sapiens. Ogni cosa è materia inorganica, ovvero è conformata alle operazioni strumentali oggettivanti e astrattive. Questo fare, nondimeno, presuppone il vivente, l’unità operativa della vita organica in tutte le sue specifiche strozzature corporee in azione, vale a dire il fare di ogni singolo scienziato: è lui la «fisica» in senso «reale»; essa non sta da altre parti, se non nella sua vita, nelle sue istituzioni, nelle sue macchine, nei suoi discorsi.

 

Da un lato la scienza moderna è specialistica o non è, perché il tratto caratteristico del suo lavoro consiste appunto nell’uso vario e molteplice di specifici strumenti «specialistici». D’altro lato, il lavoro delle scienze e dei loro praticanti sono parte ed espressione di un’intera comunità storico-sociale al lavoro, impegnata in progetti, ipotesi, discussioni, valutazioni, programmazioni, realizzazioni e così via. Questa compenetrazione di pratiche e discorsi entro la stessa quotidiana vita attiva di ogni singolo scienziato, l’intreccio di competenze e convinzioni, esigenze e aspirazioni, certezze e immaginazioni, non va mai dimenticato: intrecci che non stanno «fuori» dal laboratorio delle pratiche concrete, perché invece ne sono parte operante (per lo più taciuta e cancellata al momento della esibizione dei risultati).

 

Il sapere, abbiamo detto, è sempre nella incarnazione di questo corpo, con tutta la musica e il colore dei suoi discorsi e dei suoi segni. Questa irrevocabilità del corpo-strozzatura mostra che esso è sempre un ramo, non la pianta, un osservatore, non la città. La vita dell’insieme è il presupposto che non è da sapere, ma da mettere in opera nella correlazione infinita e irriducibile dei progetti. L’intero non è una «cosa», la città non è un oggetto: la fanno in ogni momento gli abitanti, compreso il loro dire più o meno condiviso. Totalità intemporale di relazioni temporalizzanti. E così contemporaneamente il «reale» è un compito in cammino ed è l’intesa tacita sul significato di una parola.

 

Il discorso e l’infinito

 

All’ascolto, come tutti siamo da sempre, di un sogno, non ho potuto qui che raccontare di me, come il pastore risvegliato dal quale presi le mosse. Autobiografia necessaria, cioè la cosa più ovvia del mondo, ma anche la più trascurata e fraintesa (come se si trattasse del soggetto individuale patetico e ignaro). «Che importa di te! Dì la tua parola e infrangi te stesso», disse Zarathustra nell’Ora senza voce.

Che lo sappia o no, non posso che esporre e rendere visibile la mia appartenenza a un sape re storico-ermeneutico che dice di comprendersi come ultimo destino della filosofia dell’Occidente e dei suoi saperi: sapere, nondimeno, di un discorso transitante. La sua pretesa è di cancellare, rendere obsoleta, la pretesa di quei saperi che si intendono come «assoluti», cioè sciolti dalle relazioni che li costituiscono, ma che essi non ascoltano e non vedono. Apertura all’infinito del discorso forse nel senso del par. 374 della Gaia Scienza, che denunciava l’avvento di un «nostro nuovo infinito». E così anche il sapere della materia inorganica, come unità profonda del tutto che appare, mostra se stesso nel lavoro degli organismi viventi, in cammino discorsivo verso la mondializzazione dell’uomo copernicano: destino cosmico della Terra, il pianeta vivente, specchio delle potenze del cielo.

 

Ambiguità del nostro specchio e delle sue figure, nodo paradossale di un sapere che viene dal mondo, ne è parte, in ciò incontrando la sua «realtà», e poi lo dice in una esplosione di vicende e di «storie», che pretendono di ottenere da sé la provvisoria verità della conoscenza. L’eterno transitare delle figure e nelle figure, come l’altro costitutivo del corpo e del discorso.

Allora possiamo scorgere due serie infinite incontrarsi e rovesciarsi in un punto: l’inorganico cosmico, figura del sapere vivente, che si traduce interamente nell’organico vivente e sapiente, fatto però interamente di «mondo» e di nient’altro, sempre sul punto della sua metabolé.

 

A questo punto possiamo dire: inscindibilità mobile di scienza e comprensione; la verosimiglianza del sapere come canto della Terra. La scienza progetta i suoi strumenti per misurare i segni della Terra e del Cielo: conoscenza senza «spiegazione» (disse Wittgenstein). Ma l’ultima realtà non è nei corpi e nei significati dei segni, ma nel transito metamorfico infinito che li configura. Possiamo misurarlo strumentalmente, possiamo riferirlo in discorsi: evoluzione che procede senza necessariamente progredire; bisogno reiterato di sognare discorsi che forniscano spiegazioni del nostro stare insieme sulla Terra e con la Terra. Il transito procede senza attendere noi, con la sua infinita, inarrestabile s-figurazione raffigurante. Ecco l’opera continua del transito che volenti o nolenti ci coinvolge.

 

E allora noi? Che cosa dire di noi? Che cosa fare dell’irrevocabile esser qui?

 

 

Note

 

[1] N.d.r. Carlo Sini fa riferimento Esiodo e al mito di Prometeo dei quali ha parlato nelle pagine precedenti del saggio.

[2] Cfr. Carlo Sini, Da parte a parte, ETS, Pisa, 2008, p. 64.

[3] Cfr. C. Sini, In cammino verso il Monte Ida, in AA.VV., Dal ritmo alla legge, a cura di F. Cambria, Jaca Book, Milano 2019, p. 31.


Pezzo ripreso da  http://www.leparoleelecose.it/?p=45352


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