11 ottobre 2022

 


CONTRO UNA LINGUA CHE SI INFRANGE SUL MURO DELLA SOCIETÀ: L’EREDITÀ DI ANNA SEGHERS

di Alice Pisu 

pubblicato martedì, 11 Ottobre 2022 su  


Una letteratura che non volesse più indagare le mutazioni e i pericoli presenti negli esseri umani tradirebbe la propria vocazione e rinuncerebbe alla possibile incidenza che è riservata soltanto a lei”. Così Christa Wolf nel saggio La ragione terrena indaga la fusione di pensiero, scrittura e impegno nell’opera di Anna Seghers muovendosi tra gli interrogativi che dominano l’intera produzione narrativa e saggistica di una delle maggiori scrittrici tedesche del Novecento. E rintracciando tra le pagine una profonda sfiducia nel valore del lavoro umano, Wolf riconosce come dominante il problema della ricerca del luogo della letteratura: “Che cosa essa deve consolidare con ogni mezzo negli esseri umani, nei nostri contemporanei a tal punto minacciati? Seghers risponde con tutta la sua opera: la fiducia in ciò che è terrestre”.

L’intera esistenza di Anna Seghers (pseudonimo di Netty Reiling) è caratterizzata dall’impegno per le lotte del suo tempo, evidente sin dalla prima produzione nei racconti usciti su giornali e riconoscibile anche nell’adesione al Partito comunista tedesco, nell’esperienza nell’Unione degli scrittori proletario-rivoluzionari e, in senso più ampio, nell’accesa partecipazione a convegni e dibattiti con interventi nei quali emerge la potente influenza della storia tedesca nella sua formazione intellettuale e nell’impronta artistica. Emblematica la scelta di compiere un omaggio attraverso la scelta del suo pseudonimo al talentuoso, incompreso e a lungo dimenticato pittore olandese Hercules Seghers. Una fascinazione nata nell’affrontare il tema ebraico nelle opere di Rembrandt per la sua tesi di laurea che la porterà a interrogarsi in senso più ampio sul ruolo dell’artista nella società, sul processo creativo e sui condizionamenti storico-politici sulla visione. È il contatto con profughi conosciuti negli anni dell’Università a forgiare la sua visione sensibile illuminata dalla lettura di Dostoevskij, a determinare la cifra politica e sociale della sua azione. Trova tra i suoi grandi protagonisti gli umiliati e gli offesi: i marginali del Novecento.

Dopo i primi racconti, sarà La rivolta dei pescatori di Santa Barbara (1928) a definire in modo più nitido l’estrema attenzione dell’autrice nei confronti del movimento proletario descrivendo la sommossa fallita dei pescatori di un piccolo villaggio (per la sua valenza l’opera otterrà il Premio Kleist). Tra le pesanti ripercussioni subite con l’avvento del nazismo la messa al bando dei suoi testi e l’esilio a Parigi e in Messico. Solleverà istanze fondamentali nei romanzi incentrati sui temi sociali e nei discorsi tenuti ai convegni. Di particolare impatto le parole lanciate al Congresso internazionale degli scrittori per la difesa della cultura a Parigi nel 1935: “Raramente ha potuto darsi nella nostra lingua una visione poetica complessiva della società. Realizzazioni singole, grandi, spesso travolgenti, talvolta incomprensibili per lo straniero: ma ogni volta era come se la lingua s’infrangesse contro il muro della società”.

Il suo primo romanzo, La settima croce, del 1942, circolato clandestinamente, diventa ben presto un manifesto di libertà e resistenza. Fred Zinnemann ne trae il film omonimo due anni dopo, contribuendo a sancire la fama dell’autrice. In Transito (1944) descrive l’angoscia di migliaia di espatriati disposti a tutto pur di procurarsi i documenti per imbarcarsi da Marsiglia. Opere rilevanti non solo per l’atto di denuncia che racchiudono ma per la capacità dell’autrice di definire la misura esatta dell’assillo e calarsi in prospettive profondamente private per renderle portatrici di una memoria collettiva.

L’esperienza dell’esilio segna nel profondo l’autrice che solo al suo rientro in patria nel 1947 otterrà un riconoscimento crescente. Membro del Consiglio Mondiale per la Pace, sarà anche la prima donna a capo dell’Unione scrittori della Repubblica Democratica Tedesca, carica ricoperta sino al 1978. Seghers osserva e analizza i conflitti per tradurne i traumi sociali, ispezionarne la componente ignota e affermare che “ciascun popolo, nell’avanzata impetuosa della propria storia, trascina con sé di generazione in generazione ciò che chiamiamo eredità. Avido di libertà, trae dall’arte della sua tradizione il nutrimento che gli serve da viatico”.

In tale quadro che ruolo è affidato agli intellettuali? Come affermato nell’acceso carteggio intrattenuto con György Lukács sul metodo letterario e sui presupposti dell’arte, Seghers riconosce nella figura dello scrittore un prodotto della sua epoca e un soggetto creativo, per questo ha il dovere di “puntare sulla realtà” lasciando ogni “timore di scostarsi dal vissuto immediato”(G. Lukács, Il marxismo e la critica letteraria, Einaudi, Torino, 1973). È tale visione a permettere a Seghers di maneggiare la realtà senza rifiutarne la componente fantastica e porsi alla continua ricerca di nuovi disegni narrativi con una prosa che sin dalla prima produzione mostra una particolare affinità con Fëdor Dostoevskij per l’indagine sulla crisi dell’individuo, con Edgar Allan Poe per il profondo interesse per il tema della morte e della reincarnazione, per le atmosfere e per i meccanismi narrativi ricorrenti sul rapporto con una voragine interiore. Riconoscibile anche una corrispondenza significativa con la tensione filosofica kafkiana nello studio del disordine che domina la produzione matura dell’autrice, con le espressioni oniriche di H.P. Lovecraft nel tracciare attraverso le immagini dell’incubo una profonda paura di vivere e con l’esplorazione del fantastico e del grottesco di E.T.A. Hoffmann affinata dall’uso dell’elemento ironico per amplificare l’assurdità del reale. Seghers affiderà proprio a Hoffmann, immaginato in un caffè a confrontarsi con Franz Kafka e Nikolaj Gogol’ sulla relazione tra scrittura e esistenza nel racconto Incontro a Praga (1973), l’affermazione che meglio sintetizza l’impronta letteraria dell’autrice: “Ciò che la gente ritiene pura fantasia, può contenere talvolta un lembo di corposa realtà”.

Le novelle racchiuse in I morti dell’isola di Djal e altre leggende (trad. Daria Biagi, L’orma) si basano proprio su tale illuminante evidenza, in un intrigante gioco di travasi tra realtà e sogno. Rimasta sinora inedita in Italia, l’opera permette di osservare le evoluzioni della scrittura di Seghers (con testi pubblicati tra il 1924 e il 1965) e di scorgere la natura fantastica di racconti giovanili dall’ebrezza cupa e l’affondo nel reale nei testi fortemente contestualizzati storicamente che caratterizzano la produzione successiva. Oltre agli aspetti tematici e formali, è interessante osservare i risvolti editoriali dei racconti racchiusi, perché indicativi della volontà dell’autrice di rapportarsi a realtà eterogenee. Ci sono testi usciti a Mosca, come Le più belle leggende del brigante Woynok, pubblicato sul mensile Das Wort diretto da Bertold Brecht, Lion Feuchtwanger e Willi Bredel che accoglie le voci di scrittori antinazisti tra cui Walter Benjamin, Thomas Mann, Stefan Zweig, o come Leggende di Artemide, uscito sull’edizione tedesca della rivista sovietica Internatsionalnaya Literatura, che presenta racconti di Romain Rolland, Ernest Hemingway, Heinrich Mann. Alcuni testi escono a Berlino per le più prestigiose case editrici del tempo, altri a New York, come Posto nella terra promessa, alcuni racconti a Città del Messico come Un posto dove stare, pubblicato sul mensile antinazista Freies Deutschland legato all’omonimo movimento, interessato a ospitare gli scrittori della resistenza tedesca fuori dalla Germania.

Il racconto di apertura esce invece a Francoforte nel 1924, supplemento del Frankfurter Zeitung und Handelsblatt. I protagonisti sono i morti che popolano il cimitero di Djal: dopo un passato intrepido sono ora costretti all’immobilità. Al centro la figura di un inquietante parroco cinquantenne dagli occhi ardenti e “il cranio che continuava a crescergli” motivato dal solo obiettivo di seppellire quanti più cadaveri possibile, con una disinvoltura messa alla prova dal ritrovamento dei resti del capitano Morten Sise. Le altre novelle che costituiscono la prima parte dell’opera – Le più belle leggende del Brigante WoynokLeggende di Artemide e La nave degli argonauti – rivelano la straordinaria capacità di Anna Seghers di dare forma a un sottile incanto dai risvolti tetri nello spazio del mito, della favola, del sogno che traduce il complesso catalogo emotivo ispezionato dall’autrice.

La confluenza di dimensioni idealmente lontane annulla i confini del noto per creare nel tempo del racconto uno spazio in cui ridefinire i reperti del passato e offrirne una rivisitazione originale. La natura fluida del linguaggio seghersiano traduce la ricerca inesausta di nuovi modelli che nella sezione dedicata alle leggende serba aperture al fantastico venate da una sottile malinconia per definire rimpianti e fantasie, proiezioni chimeriche di desideri impossibili, abbagli pieni di grazia, visioni allucinate sulla fine. Aspetti che trovano una prima fondamentale traduzione nell’allestimento del paesaggio naturale che rispecchia l’inquietudine dell’individuo, la rassegnata convivenza con uno strazio, l’irrequietezza del vivere. Seghers indaga la matrice oscura dell’essere umano attraverso vicende fantastiche che amplificano il reale nella raffigurazione di un cocente desiderio di evasione dal presente, come accade al brigante Woynok sospinto per tre giorni dalla bufera.

Adesso poteva scegliere se appiattirsi lì a morire rapidamente di freddo o se, sempre vorticando, continuare a volare; della seconda opzione ne aveva abbastanza.

Con le Leggende di Artemide (1938) Seghers parte dal dialogo tra un gruppo di cacciatori in osteria per immaginare le forme che può assumere l’inganno, lo smarrimento nel desiderio, l’imperscrutabilità del destino, l’abbaglio della giovinezza in un’affascinante rielaborazione del mito. Attraverso il racconto di una visione incantevole, seziona stati d’animo, elegge dettagli minimi per renderli portatori di condizioni interiori come la sopraffazione della nostalgia, la prepotenza di un ricordo, la commovente vulnerabilità di chi trascorre l’esistenza sperimentando un patetico compromesso tra attese vane e aneliti. Tra i componimenti fantastici racchiusi nella prima parte è La nave degli argonauti (1953) a consegnare un potente messaggio di rinnovamento e rinascita in una storia sulla sorte di uomini e dei dominata dalla fascinazione per un nuovo e inatteso approdo.

La prosa di Seghers invita il lettore a superare la visione creata nel testo per sperimentare esiti ulteriori rispetto al punto in cui la vicenda si interrompe sulla pagina, sollecitandolo a concepire quelle immagini come parte di un disegno più ampio intuibile anzitutto nella raffigurazione fisica delle ambientazioni, che riconduce ai temi esistenziali dell’intera produzione dell’autrice.

Il vento odorava di mare e di alberi. Come apparivano avidi e gretti i confini della terra, a confronto con il cielo che si inarcava sopra di loro. Le nuvole non si univano per più di un minuto eppure non si dividevano mai, disegnavano figure sempre diverse e si trasformavano più in fretta di quanto si possa immaginare, ora in montagne, ora in creature fantastiche; talvolta si ergevano come divinità, talaltra come piante. Le loro ombre si rincorrevano alte sopra le piccole cose del mondo, accuratamente divise le une dalle altre.

Sono acqueforti dei bassifondi le storie della seconda parte del volume. Tracciano l’aspro ritratto sociale di un’epoca fortemente contestualizzato storicamente e capace di superare la stringente collocazione temporale. Seghers non è interessata a plasmare una dimensione circoscritta nel tempo e nello spazio per ridurre il racconto a mera denuncia sociale ma intende compiere un superamento: cercare nella forma e nella lingua gli strumenti per rielaborare esperienze private o testimonianze fatte proprie e inventare così motivi narrativi nuovi in grado di fondere stagioni remote e espressioni del suo presente.

Attraverso tale visione l’autrice compone storie di una straziante umanità, incentrate ossessivamente sul senso dell’attesa indagata come condizione di incertezza che prescinde dagli esiti vani della vicenda a cui è connessa, compiendo ingrandimenti continui su storie individuali legate alla perdita, caratterizzate però anche da imprevisti sorprendenti. Aspetto che contraddistingue Gli Ziegler (1930), il racconto della rovina di una famiglia, funestata dalla malattia del padre, dalle ristrettezze economiche, priva di orizzonti. Emergono figure disperate, vinte dall’umiliazione, rassegnate all’impossibilità di un reale cambiamento, sovrastate da un silenzio che “faceva pensare che il tempo si fosse rotto”. Esistenze inadeguate, logorate nella sopravvivenza, raccontate attraverso micro avvenimenti che sono la metafora di un feroce annichilimento.

Di colpo sentì qualcosa contrarsi dentro di lei, come la sera prima; di certo si stava avvicinando una disgrazia, o un dispiacere, le sembrava già di avvertire la punta acuminata di qualcosa di pesante, di duro. Ma non riusciva a rendersene pienamente conto perché era troppo stanca. Tutta la stanchezza proveniva da un punto minuscolo in mezzo ai suoi occhi. Non fosse stato per quello avrebbe potuto volare.

Lo studio del corpo diventa lo strumento primario per Anna Seghers per narrare al contempo la deriva di una società oppressa e la disperazione del singolo, assegnare una forma all’affanno. L’angustia vissuta da un padre malato – “Il suo cuore triste inondò la piazza, buia” – , con un corpo ridotto a “una rigida cosa che richiedeva molto spazio”, capace ormai solo di vagabondare in una città deserta assieme a poche altre persone che paiono “dadi sballottati dentro un barattolo”, è condivisa da una madre che lava per l’ultima volta il corpo “ruvido, magro e brutto” di suo figlio, “quel corpo che era lui, che era rotolato giù per i pendii, si era arrampicato sui muri, nascosto negli anfratti, tuffato nell’acqua profonda del fiume”, e da figli logorati da rabbia e disgrazie, accomunati da occhi scuri e disperati, affissi “gli uni nel profondo buio degli altri”. Aspetti su cui l’autrice ritorna anche in racconti come Un posto dove stare (1941) dedicato al gesto eroico di una donna che ospita clandestinamente il figlio di un uomo arrestato dalla Gestapo nella Parigi occupata, o in Come si diventa nazisti (1943), la cronaca della trasfigurazione di un giovane fabbro divenuto sergente, mosso dalla sola convinzione che “la pietà verso il nemico” sia “tradimento”.

I morti dell’isola di Djal e altre leggende è il compendio dell’eredità lasciata da una scrittrice che ha saputo trovare nello studio della parola esatta, onesta, il viatico per trasmettere l’urgenza di una letteratura civile. Storie e leggende che anche nell’impronta fantastica dichiarano la profonda valenza politica dell’intera opera di Anna Seghers, motivata da una più ampia riflessione sull’esistenza lasciata oggi ai lettori. Una dolorosa e luminosa meditazione sull’insensatezza dell’umano di fronte all’incapacità di scorgere una direzione comune e condivisa.

Tutto fu vano. Le preghiere nelle chiese e nelle moschee, vane. Le congiure, le invocazioni a dei da tempo dimenticati e lasciati al loro destino: vane. E anche l’ultimo tentativo di resistere, armati fino ai denti: vano. La viltà fu altrettanto vana. […] Tutto ciò ch’era stato prima divenne incomprensibile. La vita intera, perché d’un tratto si era fatta vana. Il semplice ieri, l’altro ieri, chiari a chiunque, e i duemila anni che alcuni sapevano vedere nel passato; tutta una vita incomprensibile, nebulosa per quanto reale, l’esserci da tempi immemori: vani gli uni e gli altri. Se non c’è più futuro, il passato è esistito invano.

 


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