07 ottobre 2022

MATERNITA' e ISTINTO

 


MATERNITA' E ISTINTO. PER UN USO NON OPPRESSIVO DELLE CATEGORIE DI NATURA e NARRAZIONE

Io di Marco Tedeschini

 

 Il 26 agosto scorso, sul NYT, è apparso un articolo dal titolo Maternal Instinct Is a Myth that Men Created (consultabile, purtroppo a pagamento, qui: https://www.nytimes.com/2022/08/26/opinion/sunday/maternal-instinct-myth.html). L’autrice, Chelsea Conaboy, Ilesprime una tesi chiara e, per molti versi, non nuova: donne, l’idea che l’istinto materno sia qualcosa di innato automatico e distintivamente femminile è un mito, sapevatelo. Occorre dunque riscrivere la storia della maternità sulla base delle recenti acquisizioni provenienti dalle neuroscienze (e Chelsea l’ha fatta uscire lo scorso 13 settembre per i tipi di Macmillan, qui se ne può leggere un’anteprima: https://us.macmillan.com/books/9781250762290/motherbrain). Conaboy intende immettere una nuova narrazione della maternità nell’infosfera, una narrazione che contrasti apertamente con quella, un po’ da buon selvaggio, che ci parla di un istinto di maternità che le donne dovrebbero seguire sempre e comunque perché ne andrebbe della loro felicità. Un contrasto la cui posta in gioco è politica nel senso più concreto: maggiori tutele, il congedo parentale retribuito (che, a quanto scopro, in USA non è previsto), una presa in carico del neonato da parte della comunità e soprattutto delle istituzioni. Una questione di giustizia.

 

Un paio di giorni dopo, Jerry Coyne ha criticato l’articolo di Conaboy sul suo blog, con un post lungo e argomentato che si può leggere qui: https://whyevolutionistrue.com/2022/08/28/is-maternal-instinct-a-misogynistic-myth/ (devo la sua lettura a un amico-su-facebook che l’ha condiviso). La polemica sta già tutta nel titolo: Another dismissal of biological facts that go against ideology. Altroché mito, l’istinto materno è un fatto incontestabile, evolutosi nell’essere umano come in altre specie viventi; non riconoscerlo o fingere che non esista in nome di un’ideologia equivale a mentire. Ora, l’articolo di Conaboy, è tutt’altro che ingenuo e trivialmente ideologico e, in fondo, intende aggredire l’uso semplicistico, interessato e oppressivo che è stato fatto del ruolo delle donne nella generazione dei figli. Certo, butta via il bambino con l’acqua sporca, ma serve a poco, anzi, è persino controproducente restaurare per questo un clima da ortodossia / eresia. È un tic storico, che converrebbe curare.

 

Proviamo intanto a fare una diagnosi. È ovvio, ma a volte conviene ripeterlo, che la “verità” non è mai solo una questione epistemologica, ma anche sempre politica e, senza una mediazione politica della “verità”, la “verità” libera l’autoritarismo e autorizza la sopraffazione di chi non si adegua a quella “verità”, sopraffazione a cui seguono vittimismo e spirito di vendetta, perché alla sopraffazione epistemologica (ma in verità: ideologica) non può che seguire l’odio e la sordità di chi è stato azzittito in nome della “Verità”. Ma non è di questo che bisogna parlare: qui, nessuno zittisce nessuno, anzi, finalmente, si parla e si argomenta. Il problema è che troppo spesso “verità” e politica non riescono a stare insieme, vuoi per la presunta ipocrisia di chi opera per produrre effetti politici, vuoi per la presunta rigidità intellettuale di chi difende la “verità”. Il problema infatti è che Coyne ha ragione, ma la battaglia politica, simbolica, di Conaboy è sacrosanta. In entrambi i casi, allora, la posta è la giustizia: la giustizia sociale (Conaboy); la giustizia epistemica (Coyne)[1]. Si capisce subito l’assurdo di questa storia: le due cose dovrebbero andare insieme e invece confliggono, aspramente.

 

Va detto che almeno qui, in Occidente, si respira un’aria pesante ogni qual volta ci si misura con il problema della “verità” (io stesso sto virgolettando…). Quello di “verità” sembra essere un concetto compromesso: la cosa che significa o è troppo difficile da maneggiare, o è troppo difficile da raggiungere. Comunque, è troppo difficile.

Ma non possiamo farlo fuori dall’oggi al domani. In più preme, turba, tormenta sotto forma di fake news, di narrazioni mistificanti, di ansie. Ecco: la verità ci mette ansia, sempre e comunque. Forse, è un problema che riguarda solo le odierne società democratiche e industrialmente avanzate, comunque ci riguarda. Ora, a scanso di equivoci, non voglio reintrodurre surrettiziamente un concetto forte di Verità. Non a caso, mi sto limitando a parlare di “verità” particolari. Ma già qui, a un’altezza tutto sommato bassa, si incontrano serie difficoltà. Lo mostra il battibecco da cui sono partito. Inoltre, non penso che “verità” e politica debbano essere l’una la condizione dell’altra. Piuttosto, credo sia necessario ammettere che “verità” e politica non possono stare l’una senza l’altra. Voglio dire: se l’istinto materno è un fatto, di questo fatto la politica come lotta e la politica come istituzione non può non tener conto; in casi del genere, il luogo della battaglia politica consisterà – e oggi mi pare consistere – nella scelta tra seguire tale fatto naturale, assegnandogli una sorta di potere destinale, o provare a contrastarlo fino a invalidarlo. Ma perché si possa anche solo parlare di scelta bisogna avere la possibilità di scegliere, che è una questione culturale anche, e forse in primo luogo, in quanto è una questione scientifica e tecnologica: sono sapere scientifico e progresso tecnologico ad aver ampliato la libertà umana, aprendo la possibilità per questo animale di emanciparsi da una serie di vincoli dati per natura, tra cui, per esempio, il vincolo che la fecondazione possa avvenire solo nel rapporto sessuale tra un individuo maschile e uno femminile, oppure che a gestare un embrione e un feto possa essere solo la madre biologica.

 

Poi, l’emancipazione non va da sé. Non basta avere davanti una mela per allungare il braccio e prenderla e mangiarla. Ma il conflitto tra politica e “verità” non può risolversi in una politica che oscura la “verità”; questa strategia ha il fiato corto. Deve includerla nel proprio spazio e assegnarle un valore. L’istinto materno, se è effettivamente un fatto evolutivo, c’è; ma questo non significa che sia uno stampo nel quale la donna liquefatta prende forma. È questo pensiero a essere retrivo, riduttivo e metodologicamente fallimentare. I fatti possono essere valorizzati, arginati o apertamente contrastati. In fondo, come la politica ha incluso la religione tra Cinque e Seicento, così è necessario che includa anche le conoscenze scientifiche. Preciso: non che detenga la verità, ma che ci faccia i conti, scegliendo non di conseguenza, ma con conseguenza, valutando cioè sulla base di una comprensione informata ed esperta e di una considerazione delle istanze attualmente presenti, ciò che è più giusto per perseguire il bene collettivo (nulla di meno irenistico, se ci si pensa bene…). Naturalmente sono tutte ovvietà. Ovvietà che, quando si toccano alcuni temi, vengono però improvvisamente dimenticate e si torna al muso duro, alla vittima che sogna lo schianto del carnefice live, a Topolino, che picchia Gamba di legno.

 

Infantilismi. E allora serve a poco ricordare, lo fa Coyne, che secondo Hume dai fatti (naturali) non si possono inferire doveri; Conaboy infatti sembra pensarla esattamente così, quando denuncia la narrazione americana, a suo dire, più diffusa sulla maternità, che l’istinto materno sia un dovere e un destino, denunciando in questo fatto (culturale) un dovere e un destino talmente alti da aver privato la donna di qualsiasi altro diritto. Difficilmente il discorso potrà suonare lontano, in Italia, nonostante, almeno sulla carta, l’assegno di maternità sia un diritto acquisito. Infatti, il problema di fondo è lo stesso: che rapporto c’è tra l’essere donna e la narrazione che ne abbiamo? La narrazione, sì, perché in essa si condensa il dovere. Non a caso Conaboy vuole rimpiazzarne una con un’altra, riconoscendo che una narrazione non può essere ridotta a un contenuto psichico (privato) o all’esito di un atto d’immaginazione, ma è piuttosto simile a un sigillo pubblico posto sulla realtà, la copia di cui tutti possiamo disporre, e di fatto disponiamo, per fare uso della realtà, anche se, appunto, non è affatto la realtà. In quanto uomo, allora, devo pormi la questione della mia narrazione della donna, cioè della narrazione maschile sulla donna, e magari, renderla esplicita, renderla pubblica affinché venga corretta oppure confermata, ma con metodo, con un metodo che salvaguardi uno spazio di mutabilità alla narrazione ogni volta ottenuta. Se la narrazione non può mutare, allora il sigillo diventa una pietra tombale. E anche se è vero che (principio economico banale) non si può cominciare ogni volta di nuovo, non è meno vero che non si può restare immobili (leggi: conservatori – vale a dire, oggi, pigri) di fronte all’istanza di cambiamento posta da un altro. Lecitamente, e anche molto giustamente, questa istanza nasce per intervenire sul dovere iscritto nell’essere che viene rappresentato; non è lecito però, e in fondo anche falso ingiusto e controproducente, in nome di questa istanza, negare quella che è una conoscenza accettata, condivisa e difficilmente oppugnabile, ovvero una certa affermazione valida (una “verità”) sull’essere in questione. Un gesto è veramente politico quando fa i conti con le indicazioni della “verità”.

 

In questo modo la politica può integrare la “verità” nel proprio spazio. Resta però da capire come gestire, almeno concettualmente, il rapporto tra essere e dover essere. Il problema si ripropone continuamente, non si può pensare di risolverlo qui. Qui si può pensare invece a un esperimento mentale, anzi concettuale, che aiuti a mantenere teso lo spazio di gioco tra politica e “verità”, cioè impedisca che la politica escluda o neghi la “verità” o che la “verità” si ponga in testa della politica. L’esperimento concettuale è questo: proviamo a porre il problema in termini diversi, proviamo a cercare una diversa disposizione logica e cronologica dei termini “essere” e “dover essere”. Invece di derivare il dovere dall’essere, o vietarlo, cosa che tanto non riusciamo a fare se non sulla carta e astrattamente, proviamo a derivare l’essere dal dovere[2]. In altri termini, proviamo a invertire l’ordine con cui normalmente pensiamo il rapporto tra “essere” e “dover essere”. Per arginare la pigrizia o la saccenza o il vittimismo, o quello che volete, si potrebbe pensare non al dover essere dell’essere, ma al dovere di essere. Perché, tanto, sempre di dovere si tratta: aggredendo l’istinto materno, chiamandolo “mito”, Conaboy, oltre a strigliare le istituzioni pubbliche per le loro inadempienze e ingiustizie, intende ampliare le possibilità d’essere della donna, cioè i suoi possibili modi di essere donna, cioè le possibili forme della sua identità-di-donna e identità-di-donna come questa-donna-qui, possibilità che non possono e non devono coincidere con la maternità e che, nondimeno, iscrivono ancora – e necessariamente – il “dovere” (anzi: i doveri) nell’essere donna. Desideri, aspirazioni, piaceri cercano soddisfazione e, dunque, pongono uno standard, una soglia al di sotto della quale qualcosa è andato storto: si vale meno, non si è l’essere che si è, che si è nati per essere, che si dovrebbe (anzi, si deve) essere. Meglio avere più di un dovere allora (lavoratrice, madre, amica, ecc.), per non avere rimpianti. E se dichiariamo di aver “abbandonato l’essere”, cioè, in realtà, i doveri (tutti) che l’essere porta con sé, ecco che abbiamo prestato il fianco all’accusa di falso ideologico. E poi, se per evitare il dover-essere devo negare l’essere, i conti non tornano. Si tratta di un gioco di prestigio che non sfugge gente come Coyne, et pour cause. E poi, è proprio difficile non porsi domande tipo quid est mulier? o, più genericamente, quid est homo? e non rispondere, foss’anche goffamente. Per non parlare della domanda delle domande: chi sono io? Allora, ecco che l’unica strategia che sembra non oppressiva negli effetti è quella che lascia aperte le possibilità empiriche, al modico prezzo di moltiplicare le linee di fuga: voglio essere donna (uomo) imprenditrice (imprenditore), madre (padre), amica (amico), sportiva (sportivo), ecc. ecc. (e mi fermo al sistema binario). Tuttavia le apposizioni tradiscono i molti, troppi standard a cui occorre dare soddisfazione e che non solo ci vengono assegnati, ma ci autoassegniamo. Doveri a cui “bisogna” corrispondere. Anche alla prima persona, infatti, “chi voglio essere io?” vale grammaticalmente come “mi piacerebbe” che non è diverso “devo”, cioè, alla fine, è un’autoingiunzione (anche se, come noto, socialmente mediata). Da tutte le parti spunta fuori un dovere che dipende (cioè segue) dall’essere, foss’anche l’“io”[3].

 

Insomma, sembra impossibile slegare l’essere dal dovere. Certe battaglie politiche servono a allentare o complicare questa connessione, moltiplicando le possibilità. In questo c’è un indubbio vantaggio: l’emancipazione. Ma se poi l’intreccio è inevitabile, se l’essere torna a dover soddisfare un altro dovere, allora è un’emancipazione a metà. Un’emancipazione priva dello spazio concettuale necessario per avere le mani completamente libere ed evitare i cortocircuiti da cui siamo partiti. Se dunque è difficile inibire il tic mentale che salda in uno essere e dover essere, forse si può intervenire sull’ordine in cui sono pensati i due. L’ordine “normale” è questo: c’è sempre prima un essere da cui segue un dover essere (così come lo studio della natura di X giustifica un ordinamento etico per X). Se l’esperimento mentale che ho proposto mi sembra promettente è perché ci costringe, mi pare, a invertire concettualmente il rapporto tra essere e dovere. Si tratta di una forzatura, anzi di una violenza, ma forse è una violenza necessaria.

 

Il dovere prima dell’essere. Non il potere prima dell’essere, però. Perché il potere di essere non è detto che lo si abbia e per averlo bisogna essere e, dunque, poter essere questo o quello; salvo osservare che non siamo del tutto identici a quelle staminali non a caso dette totipotenti. Il dovere di essere, invece, lo si ha senza predeterminare l’essere o, meglio, le sue possibilità. Il potere di essere presuppone la possibilità di scegliere; senza il dovere di essere non si potrebbe nemmeno scegliere. Il vantaggio è quello di inibire il meccanismo di standardizzazione della vita, cioè di impedire in anticipo che l’essere sia predeterminato o anticipato, cosa che può accadere solo nella forma del dovere. Anzi, di un dovere e, così, di doveri. Pensarla in questi termini significa pensare l’essere non tanto come un dovere (o il dovere di un certo essere) ma come il suo esito, e dunque portare l’attenzione sul fatto che il dovere di essere significa non solo il dovere di appropriarsi dell’essere (il proprio, appunto) ma anche il dovere di fare e lasciare essere se stessi e gli altri. Così si abbandona diversamente l’essere: lo si abbandona nel senso che lo si lascia stare o, comunque, si apre lo spazio concettuale per interrompere la predeterminazione, l’elencazione dei doveri standardizza(n)ti, la chiusura delle possibilità, senza che la “verità” susciti imbarazzo o diventi in qualche modo un ostacolo. Il problema è che se devi essere allora puoi essere, e il “puoi” lo puoi intendere in tutta la sua ampiezza; se per poter essere devi essere, il “puoi” lo intendi al massimo come insieme delle possibilità del “sei”, il “devi” è già quell’ingiunzione riduttiva da cui vorresti fuggire e l’esistenza è tutto meno che una cosa che ha a che fare solo con te: non lo decidi tu se esisti o meno, esisti solo se ci sei, ma se ci sei, e come, lo stabilisce qualcun altro. Ora, l’inversione concettuale di essere e dover essere non fa fuori questo altro, anzi lo riafferma potentemente, ma mentre lo afferma lo limita, apre lo spazio concettuale per inibirne l’azione. Il dovere di essere, allora, si traduce anche in questo: che la donna, ma non solo la donna, deve essere, e tale essere che deve essere non lo possiede nessuno, all’inizio nemmeno quella donna lì. Detto altrimenti, il dover essere non è prescritto e anticipato dall’essere, semmai il dovere prescrive e anticipa l’essere. Il dovere di essere significa allora che questo dovere non consiste nel dovere di corrispondere al proprio essere, non suona come: “sii chi già sei”; “sii chi sei sempre stato”; “ricordati di chi sei”; “sei nato per …”; “diventa quello che sei e sai di essere”, ecc. ecc. No, ma: “sii”, e basta. Ecco come dovrebbe suonare. Il dovere di essere significa la libertà di essere e significa che la libertà non è scelta e non è una scelta (non in prima istanza almeno), ma un fatto, un fatto che deve essere rispettato: la donna che deve essere, per esempio, non è specie e non è genere sessuale e, in un certo senso, non è nemmeno donna; è uno. Questa unicità si può pure tradurre in “madre”, o in altri legittimi e leciti desiderata, ma questi vengono dopo, arrivano alla fine e eventualmente, ricombinando e rinegoziando ogni volta di nuovo i presupposti biologici e culturali che ci rendono caso per caso chi sono, chi sei, chi è, eventualmente, chi siamo. È a quest’altezza che la lotta e l’istituzione possono trovare alla loro azione un senso autenticamente politico.

 

Note

 

[1] Il sintagma si capisce. Non si capirebbe, invece, se qualcuno pensasse all’epistemic injustice, che riguarda i soggetti svantaggiati nell’accreditamento del sapere, non perché il sapere non sia valido ma perché non è autorevole chi lo diffonde (tradizionalmente: almeno le donne e i bambini).

[2] L’aria di famiglia di questo esperimento non è difficile da riconoscere: appartiene al tracciato intellettuale che da Immanuel Kant porta a Emmanuel Levinas. Quando ho letto i due articoli da cui ho preso le mosse, avevo da poco finito di rileggere Analogia del soggetto (1992) di Marco Maria Olivetti, che appunto si inserisce in questo tracciato con una notevole originalità. Le letture hanno fatto cortocircuito ed ecco il risultato.

[3] C’è un articolo famoso di Andrea Long Chu, apparso sul NYT il 24 novembre 2018, nel quale chiede unicamente che la sua transizione e il suo desiderio, i quali non la renderanno più felice, vengano presi sul serio. Ecco, credo che questo sia un buon esempio dell’inversione dei termini a cui sto pensando. L’articolo s’intitola My New Vagina Won’t Make Me Happy e può essere letto qui: https://www.nytimes.com/2018/11/24/opinion/sunday/vaginoplasty-transgender-medicine.html.

 

 

[Immagine: Christopher Bucklow, Tetrarch, 10.07am 5th April2008].


articolo ripreso da: http://www.leparoleelecose.it/?p=45199

   

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