17 ottobre 2022

DA FREUD A LACAN


 


È apparso qualche mese fa il secondo numero della rivista «Phi/Psy – Filosofia e Psiconanalisi», diretta da Federico Leoni e Riccardo Panattoni, nel quale, fra gli altri, compare l’articolo di Enrico Redaelli Freud, Lacan e il ritmo. Una lettura indo-minoica di ‘Al di là del principio di piacere’, che pubblichiamo per gentile concessione.

FREUD, LACAN  E IL RITMO. UNA LETTURA DI " ALDILA' DEL PRINCIPIO DEL PIACERE"     

di Enrico Radaelli

Riunisce in una stessa eruzione la Nascita e la Morte. Non è un uomo. Non è neppure un dio. Non è me, ma è più di me: il suo ventre è il dedalo nel quale lui stesso si è perduto, mi perdo con lui e nel quale io mi ritrovo essendo lui, cioè mostro.
(G. Bataille, Il labirinto)

 

Il labirinto

 

Cento anni fa Freud pubblica Al di là del principio di piacere. Forse il suo testo più contorto, più misterioso, più inquieto. Un libro-labirinto.

Da una pagina all’altra il padre della psicoanalisi conduce il lettore in un dedalo di ipotesi formulate in totale libertà, discusse, accantonate e continuamente riprese per saggiarne la consistenza. Zoppica, come egli stesso ammette, imboccando false piste e vicoli ciechi, da cui torna indietro per battere altre strade. Disegna delle mappe, salvo poi cancellarle e ridisegnarle daccapo. Perlustra il dominio del principio di piacere sino ai suoi confini, costeggiando la terra promessa che si estende al di là. Ma, come nota Derrida, sembra giocare col rocchetto, annunciando di continuo questo «al di là», salvo rilanciarlo sempre un po’ più in là. Dietro un’altra curva, dopo un altro snodo, alla fine di un altro tragitto. Perennemente altrove, il sospirato «al di là» si profila da ultimo come un punto incollocabile in perpetuo movimento. Scivola via lungo i percorsi in cui l’autore lo rincorre zoppicando. Qualcosa di sfuggente abita il labirinto.

 

Il Minotauro

 

Ciò a cui Freud dà la caccia nel labirinto si mostra solo in parte. Ogni tanto si intravede il corpo: ha le sembianze di Eros. Ogni tanto la testa: ha le sembianze di Thanatos. O forse il contrario. Ma sono entità distinte o una sola entità? Freud formula entrambe le ipotesi, nessuna delle due però lo convince. Pulsione sessuale e/o pulsione di morte. Forse sono parti distinte di una stessa entità tra cui vige una relazione oscura. «Un’equazione a due incognite» scrive infine. Ad abitare il labirinto è un mostro biforme.

Spesso accostato alla lussuria, per le sue mostruose origini, e alla morte violenta, per l’uso a divorare corpi umani, il Minotauro appare agli occhi di Bataille un perfetto amalgama di Eros e Thanatos. Dante lo colloca a guardia del VII cerchio dell’inferno, dov’è relegata una variopinta moltitudine di peccatori. Tra gli altri, tiranni, sodomiti, usurai e scialacquatori. Cosa accomuna uomini tanto diversi? Un eccesso. Non una dismisura dovuta a semplice incontinenza, ma quella «matta bestialitade» di cui il Minotauro è massimo emblema. Eccesso come godimento di oggetti non appropriati. È quanto chiarisce Virgilio a Dante rievocando i principi dell’etica aristotelica durante una sosta didattica nell’infernale discesa.

 

L’al di là del principio di piacere è in effetti un al di là dell’etica aristotelica: una dismisura non quantitativa (il troppo) ma qualitativa (l’inappropriato). È tale eccesso a fare della pulsione un mostro sfuggente e della psiche umana un labirinto? Bataille sottoscriverebbe certamente. Freud pare pensarlo quando, in alcuni momenti, suggerisce che ogni pulsione è sempre sessuale (Eros) e, in altri momenti, sospetta che ogni pulsione sia abitata alla radice da un che di negativo (Thanatos). Lacan gli farà eco, coniugando i due pensieri: esistono solo pulsioni sessuali e sono tutte pulsioni parziali, ossia volte al godimento di oggetti non appropriati, l’unico appropriato essendo perduto (un che di negativo, appunto). Thanatos è dunque un punto cieco che abita da sempre Eros: ciò che lo rende eccedente rispetto a ogni supposta meta appropriata in realtà inappropriabile; ciò che lo devia curvandolo attorno a un vuoto; ciò che, curvandolo, ne scandisce il ritmo. È il pulsare della pulsione.

 

Il Minotauro appare allora l’emblema non di determinate pulsioni piuttosto che altre, ma della pulsione in quanto tale: un ritmo, una vibrazione che attraversa l’umanità per intero. Acheronta movebo.

 

Dioniso

 

Secondo Kerenyi, quell’amalgama di sesso e morte, cui Freud dà la caccia nel proprio labirinto, è il tratto che contraddistingue la più antica divinità greca. Ma non è Eros – che pure potrebbe aspirare al titolo di dio primordiale, se ci affidiamo alla Teogonia esiodea – e nemmeno Thanatos. È invece Dioniso. Il suo culto, legato al ciclo della morte e della rinascita, è assai anteriore al sorgere della civiltà greca. Proviene da Creta, l’isola che ospitava il labirinto di Cnosso. Di un suo legame col Minotauro e con le vicende di Arianna e Teseo narra il mito. E proprio nel Minotauro Deleuze ravvisa una delle tante maschere del dio. Del mostro taurino, d’altronde, Dioniso sembra avere la stessa duplice natura: sesso e morte, erotismo e distruzione.

 

Fulcro dello studio di Kerenyi, nel volume Dioniso, è il nodo che lega insieme il bíos e la zoé. Vita finita e vita infinita, traduce l’autore. Se il termine bíos indica la vita individuale, destinata alla morte, la zoé allude alla vita della specie, resa perenne dalla riproduzione sessuale. Thanatos ed Eros, Thanatos implicato e replicato in Eros. Il loro intreccio irresolubile costituisce la cifra di Dioniso.

È questo intreccio il vero «al di là» del principio di piacere. Il testo freudiano vi allude in due circostanze. In entrambe è convocata la filosofia, seppur come testimone un po’ scomodo. Dapprima il positivista Freud cede alle speculazioni di Schopenhauer sulla morte come vero scopo della vita. Ma le assimila a un porto di mare in cui – scrive quasi scusandosi – siamo andati a infilarci solo perché, senza accorgercene, ormai eravamo già approdati lì (contorta locuzione per dire che l’approdo era necessario). Poi deve addirittura arrendersi al discorso mitico, attingendo dal Simposio di Platone. Non senza qualche ritrosia, viene dunque rievocato il mito dell’androgino per dar voce a questo pensiero: la sessualità è mossa da un ritmo. E tale ritmo sorge da una divisione, come testimonia il latino sexus. La vita sessuata è cioè abitata da un punto cieco – un negativo, una mancanza, una scissione – che l’unione degli amanti in apparenza colma ma in realtà rigenera attraverso la riproduzione. Ecco il ritmo. Ed ecco l’«al di là»: se nel principio di piacere il fine è la fine (l’omeostasi e, al limite, l’inerzia dell’inorganico), nella sessualità il fine è l’inizio. Ma un inizio circolare che ripete ritmicamente la morte entro la vita: muore l’individuo perché viva la specie. Eterno ritorno dell’uguale, direbbe il dionisiaco Nietzsche. Eterno ripetersi della vita finita che scandisce il ritmo della vita infinita, direbbe Kerenyi.

 

Difficile rischiarare questo intreccio coi lumi della scienza, come pure Freud a un certo punto azzarda, tentato dall’idea di ritrascrivere il mito platonico dell’androgino in termini biologici, scomodando «protisti» e «cellule germinali». Alla fin fine l’unico linguaggio all’altezza di questo «al di là» pare proprio quello del discorso mitico. O, come direbbe il Platone del Timeo, un «discorso bastardo» che oscilla tra la credibilità di un sogno e l’evanescenza di un fantasma

 

La Signora del Labirinto

 

La parola bíos – spiega il filologo Kerenyi – non indica semplicemente la vita. Se questa infatti vuol essere vita «individuata», ossia vita distinta di un singolo organismo, deve includere anche la morte. Il bíos può anzi essere definito solo per mezzo della morte. E, più precisamente, per mezzo di un certo modo di morire, per il quale Kerenyi ricorre a un’espressione di Diodoro Siculo che suona in sorprendente sintonia con la definizione freudiana della pulsione di morte: «il venir meno della vita con una morte propria».

 

Invero, la sintonia non deve sorprendere. Tre capitoli dopo, infatti, l’autore di Dioniso scopre le carte dicendosi in debito con Al di là del principio di piacere per l’idea che «la morte e la distruzione della vita sarebbero legate alla vita stessa». Non c’è bíos (vita finita comprendente la morte) senza zoé (vita infinita) poiché questa è il presupposto di quello. Ma non c’è zoé senza bíos poiché questo, con la sua finitezza, scandisce il ritmo di quella e, col proprio annientamento, ne permette la perpetuazione. È questo pulsare ritmico della morte entro la vita, questo eterno ciclo di morte e di rinascita, che gli antichi Greci celebravano come Dioniso, divinità proveniente da una sterminata antichità – mostra Kerenyi – con le sembianze di una Grande Dea. Le loro orme si sovrappongono fino a confondersi sull’isola di Creta, terra in cui la Grande Dea, lì approdata da chissà dove, sembra passare il testimone a Dioniso. Prima di scomparire lascia però sull’isola diverse tracce: la dea è rievocata da un sigillo in cui compare al fianco di due leoni, da alcuni vasi provenienti da Festo, da una tavoletta di Cnosso in cui è chiamata «Signora del Labirinto». E proprio lì, nel labirinto, si svolgeva la danza cerimoniale in suo onore.

 

Come a dire: non solo parole ma anche gesti. Ciò che Freud riporta a galla, affidandosi al mito del Simposio, non è una favola frutto del genio platonico, nemmeno un semplice racconto, giunto da chissà quale bocca all’orecchio di un brillante uomo greco. È piuttosto l’eco di un rito, che per secoli, e forse per millenni, ha raccolto attorno a sé una vasta umanità facendola danzare. Al ritmo della morte-nella-vita.

 

Taglio e montaggio

 

Dalla Grecia alla civiltà minoica e da questa ai riti mediterranei del Neolitico in cui signoreggia la Grande Madre: si dirà che qui aleggia il fantasma di Jung. E non del tutto a torto, considerata l’amicizia di questi con Kerenyi, dalla quale è anche nato un volume a quattro mani. Se poi si sapesse che teniamo ancora in serbo qualche riferimento ai Veda, ci sarebbe di che storcere il naso. Invero, non agli archetipi junghiani qui guardiamo, quanto al taglio lacaniano. Ossia, il taglio con cui Lacan rilegge Al di là del principio di piacere e con cui taglia via tanto il misticismo junghiano quanto il positivismo freudiano. E si tratta proprio della questione del Taglio.

 

Il fantasma di Jung, evocato e subito scacciato sul finire di Al di là del principio di piacere, è ciò che Freud vuole esorcizzare. È forse uno dei motivi per cui egli tenta di ricondurre il ritmo della pulsione all’ambito del biologico. Si tratta, per così dire, di ritrascrivere la Grande Dea, ossia l’intreccio della morte-nella-vita, su base organica in termini di divisioni e ricongiunzioni cellulari. Di fatto creando un altro mito, anzi tutta una mito-bio-logia, che attraversa il libro per intero, dalla vescichetta con la corteccia protettiva sino alla pulsione insita nelle cellule germinali che le spingerebbe a riunirsi come gli amanti del Simposio.

 

Per Freud, insomma, la pulsione è psicosomatica, ma il suo ritmo è somatico, ha la propria origine nel corpo, forse addirittura nelle cellule. Questa, quanto meno, la via di ricerca che egli intende battere. Lo ribadisce ancora molti anni dopo, in Analisi terminabile e interminabile. Qui, dopo aver rintracciato l’implicarsi di Eros e Thanatos nel pensiero di Empedocle e averlo paragonato alla propria dottrina delle pulsioni, scrive che le due dottrine sarebbero identiche se non fosse per un’unica differenza: «quella del filosofo greco è una fantasia cosmica, la nostra aspira più modestamente a una validità biologica».

 

L’origine del ritmo – il pulsare della pulsione – sarebbe dunque la stessa nei primi organismi sessuati come nell’essere umano. Al di là del principio di piacere, in effetti, non traccia una netta soluzione di continuità tra natura e cultura: leggendolo si ha l’impressione che la pulsione evolva naturalmente – senza strappi, senza tagli – dalla prima alla seconda. Un unico filo si srotolerebbe dai protisti sino all’umano. Ma tale filo non basta a far uscire Freud dal labirinto, non è abbastanza lungo o consistente. Poiché, come ammette l’autore, sull’effettiva origine della sessualità, miti a parte, brancoliamo ancora nel buio più totale. Quell’origine, scrive sconsolato, è «un sito tenebroso dove non è penetrato neanche il raggio di un’ipotesi».

 

Diversamente Lacan. Con un taglio netto, egli sposta l’intera questione del ritmo dal piano biologico a quello storico-linguistico. Se c’è un ritmo nella pulsione – quel ritmo scandito da Thanatos quale motore di Eros – questo è introdotto dal significante. Di più: la pulsione stessa trae la propria origine dal taglio del significante. È cioè un effetto del modo in cui il significante marchia il corpo umano trasformandolo in un corpo pulsionale.

 

Anche per Lacan la pulsione è una creatura multiforme, ma sganciata dal retaggio animale e da ogni naturalità biologica. Meno simile al Minotauro, più simile a un mostro meccanico ottenuto artificiosamente assemblando cose diverse, come suggerisce il Seminario XI: «una dinamo in funzione collegata a una presa del gas, da cui esce una penna di pavone che solletica il ventre di una bella donna, che è lì in pianta stabile per la bellezza della cosa». Quest’immagine un po’ barocca della pulsione come «montaggio», stile collage surrealista, è lì a sottolineare come essa si ponga in netta discontinuità con la natura. Un lavoro di taglio e di montaggio più affine a un’operazione cinematografica alla Ėjzenštejn che non a un processo organico di divisioni e ricongiunzioni cellulari.

 

Dunque, solo l’essere tagliato dal linguaggio ha pulsioni. E il ritmo che le scandisce è sì dettato da una morte-nella-vita, ma non da una morte «biologica» iscritta nella catena dei viventi, bensì da una morte «linguistica» iscritta nella catena significante: Thanatos, il pulsare della pulsione, altro non è che il negativo introdotto dal linguaggio.

Cosa dire, allora, del ritmo della morte-nella-vita che Freud intravede come in sogno, con gli occhi speculativi di Schopenhauer o di Platone, e che crede o spera di ravvisare più lucidamente nelle componenti organiche dei viventi sessuati a partire dai protisti pluricellulari? Che ne è di questo ritmo pre-umano e pre-linguistico? Mera mito-bio-logia su cui non vale la pena spendere nemmeno due parole? Invero, due parole Lacan le spende: «arco» e «freccia».

 

L’arco e la freccia

 

A dirla tutta, nel Seminario XI Lacan spende anche più di due parole, forse troppe. Sarà più cauto, o forse più lucido, nei seminari successivi, quando riscriverà l’intera questione del sexus, della divisione sessuale, sotto il segno dell’impasse – ciò che è impossibile da sapere perché punto di incidenza reale a partire da cui soltanto può costituirsi qualcosa come un «sapere».

In questo seminario, invece, si sbilancia. Rievoca la dimensione propriamente biologica dell’intreccio di vita e morte nel mondo naturale dicendo che «la presenza del sesso nel vivente è legata alla morte». Se Freud fa ricorso a Schopenhauer, che riprende tale idea dalla sapienza orientale, a sua volta Lacan usa un’immagine molto antica, e comune a diverse tradizioni sapienziali, per rievocare questo enigmatico intreccio di sesso e morte: l’arco con la freccia. È un’immagine della morte, ossia della vita che fagocita se stessa, poiché rievoca la dialettica tra cacciatore e preda. È un’immagine del sesso, ossia della vita che rigenera se stessa, poiché il movimento elastico dell’arciere, che spinge la corda indietro per slanciare la freccia in avanti, rievoca il movimento elastico del vivente, che «ritorna» all’utero perché da lì si sprigioni nuova vita. Una vita destinata a sua volta alla morte. L’immagine dell’arco come ritmo che intreccia vita e morte proviene dai Veda e giunge ai greci rafforzata da un’omofonia. Nella lingua greca basta spostare l’accento e biós (arco) diviene bíos (vita), come nota Lacan citando il detto di Eraclito: «all’arco è dato il nome della vita e la sua opera è la morte».

 

Sotto quest’immagine Lacan riassume un passaggio sul quale si è soffermato in precedenza. Qualche pagina prima, non appena inizia a parlare della pulsione, fa riferimento al legame tra sesso e morte in ambito biologico. E anch’egli, come Freud, prima cita Platone, poi scomoda cellule e cromosomi, infine evoca il fantasma di Jung per esorcizzarlo. Sembra lo stesso canovaccio che anima alcune pagine di Al di là del principio di piacere e, per certi aspetti, si può leggere come una variazione sul tema.

Qui l’enigmatico intreccio di bíos e zoé è richiamato con un esempio (ogni individuo cavallo è transitorio e muore, la specie cavallo sopravvive), cui fa seguito una digressione biologica. Cuore dell’enigma è infatti il sexus, la divisione tra i sessi a livello organico. Guardando all’origine di tale divisione, Lacan riflette sulla maturazione delle cellule sessuali, un tema che ha sedotto, oltre che Freud, anche il Bataille dell’Erotismo: un vero e proprio topos per chi si occupi del rapporto tra Eros e Thanatos. Nella determinazione delle cellule sessuali – osserva Lacan – opera una «combinatoria» basata sull’«espulsione di resti», cioè su una perdita di cromosomi. Vi è dunque, sul piano biologico, un ritmo (una combinatoria) reso possibile da un negativo (un’espulsione). Così come, sul piano linguistico-culturale, vi è un ritmo (una combinatoria, un gioco di significanti) reso possibile da un negativo (il taglio). Pur sostenendo di non voler fare una «speculazione analogica», egli riconosce un’«affinità» tra i due ritmi, che chiama rispettivamente «enigmi della sessualità» (ritmo biologico) e «gioco del significante» (ritmo culturale).

 

Dunque Lacan si sbilancia, ma sembra non volersi sbilanciare troppo. Non è un’«analogia», assicura, interessato com’è a condurre il discorso altrove, ma intanto il sasso è gettato: è una «affinità».

A voler essere maligni, si potrebbe chiedere cosa sia un’affinità senza analogia. Ma le vere domande sarebbero altre. Come si colloca questo ritmo «biologico», dovuto all’origine sessuale del vivente, con quello «culturale», dovuto al taglio significante? In entrambi abbiamo una qualche forma di Thanatos: un punto cieco che si ripete, un negativo quale segreto motore del positivo, una «morte» che scandisce il ritmo della vita. Quale dei due ritmi è dunque l’origine e quale ne è eventualmente il riverbero? È il primo a essere modello del secondo (nel senso che il ritmo biologico è l’archetipo o un punto di partenza che si prolunga naturalmente nel ritmo culturale)? Oppure è il secondo a essere modello del primo (nel senso che è il taglio significante a proiettare il proprio ritmo all’indietro, allucinando qualcosa di simile nella natura sotto forma di «enigmi della sessualità»)? Se insomma la pulsione è un ritmo – l’intreccio irresolubile della morte-nella-vita – dove risiede l’origine di questo ritmo, nella natura o nella cultura, nel vivente sessuato o nel vivente parlante, nella morte biologica o nella morte linguistica?

 

Detto ancora altrimenti: la natura è una mera superficie riflettente su cui noi proiettiamo i nostri tagli (significanti), o siamo noi l’eco di un taglio (sessuale) già insito nella natura che la cultura registra e rispecchia a modo suo?

 

Il canto della morte

 

Quale, in ultima analisi, la vera origine del ritmo per Lacan? Per trovare una risposta chiara e inequivocabile bisogna risalire al Seminario VII. Qui egli parla del taglio significante come di una creazione ex nihilo. A indicare che niente le è presupposto. Non il corpo né la psiche, non la materia né lo spirito, i quali si articolano l’uno in relazione all’altro solo a partire dal taglio. Tanto meno un qualche ritmo primordiale presente in natura nella forma di una morte-nella-vita – leggibile spiritualmente come pulsione archetipa o materialmente come pulsione chimico-organica – derivante dalla divisione sessuale dei viventi. Niente di tutto ciò viene prima.

Il ritmo della pulsione prende dunque avvio unicamente dal taglio del linguaggio. Un taglio creatore. Per comprenderne la genesi – verrebbe da dire: la Genesi – bisognerebbe rileggere la creazione ex nihilo del Seminario VII alla luce degli studi del più grande musicologo del Novecento, Marius Schneider, raccolti nel sorprendente volume Il significato della musica.

 

In principio era il Verbo. Ma, osserva Schneider, se si guarda alle varie tradizioni sparse nei cinque continenti ci si accorge che quello del principio è un verbo non ancora articolato. Più che una parola, è un grido (nella tradizione egizia, il grido del dio Thot) o un suono (la vibrazione di una sillaba mistica) che emana da un abisso primordiale (il tao della tradizione cinese).

Prendiamo come riferimento la tradizione vedica, su cui Schneider si sofferma maggiormente. Qui si parla di un essere ancora immateriale che dalla quiete del non essere improvvisamente risuona e, a poco a poco, questa vibrazione originaria si riveste di luce e si converte in materia divenendo il mondo creato. Nel primo stadio della creazione la natura del mondo è dunque puramente acustica, una sola nota da cui poi si articolano diversi suoni: l’essere coincide con l’essere-detto (come direbbe il Lacan del Seminario XIX) o, meglio, con l’essere-risuonante. La vibrazione da cui i diversi suoni prendono forma, ossia tutte le forme, non smetterà di riverberare in ogni cosa creata come ciò che in sé non esiste ma in tutto insiste. Non diversamente dall’insistere della pulsione di morte, che riverbera in ogni pulsione parziale e nei suoi oggetti volta a volta determinati. Thanatos come vibrazione creatrice?

 

«Canto della morte» è in effetti il nome che la Bṛhadāraṇyaka Upaniṣad dà a questa vibrazione primordiale: un suono cupo che genera la vita vibrando in una bocca spalancata per la fame. Il grido nasce da una fame, una fame pura, che non è cioè la fame di qualcuno, così come il grido non è il grido di qualcuno, non essendovi ancora alcun soggetto: è inizialmente un evento, un puro taglio che si apre nel nulla. Come il grido nella notte di cui parla Lacan, che solo in un secondo momento, quando avrà incontrato una risposta, diverrà domanda, dando luogo a un soggetto (che grida per domandare) e a un oggetto (ciò cui mira il grido una volta divenuto domanda). Solo a quel punto si produce un ritmo, una dialettica di vuoti e di pieni, di domande e di risposte, ciò che la tradizione vedica designa come logica del sacrificio, del do ut des, del qualcosa che rimanda a qualcos’altro, e che Heidegger chiama Bedeutsamkeit, la significatività del mondo, riassumibile nella formula lacaniana ∀x(φx). Solo in questo secondo momento, raccontano infatti i Veda, sorgono i contrari: pieno/vuoto, luce/buio, caldo/freddo, spirito/materia, ecc., il cui ritmo non è che un’eco del suono primordiale, un’articolazione del taglio originario.

 

L’abisso in cui il primordiale «canto della morte» ha luogo è una cavità risonante, indicata, oltre che come una bocca spalancata, anche come una caverna, talvolta come un vaso. Ma non bisogna intendere tale vaso, o tale cavità, come uno spazio già costituito, con i suoi dentro e i suoi fuori, giacché nella cosmogonia vedica è il suono che, risuonando, crea lo spazio. Non diversamente – verrebbe da osservare – dal vaso di cui parla Lacan nel Seminario VII (che è poi la brocca di Heidegger) definito «il taglio significante di tutti i tagli significanti». Il vuoto e il pieno non gli preesistono – scrive in merito Lacan – ma «vengono introdotti dal vaso in un mondo che, di per sé, non conosce niente di simile».

 

Schneider osserverebbe che il vaso, prima ancora di essere un utensile, è anche originariamente, come tutti gli arnesi di uso quotidiano, un oggetto sonoro. Nelle società primitive, infatti, gli stessi strumenti del lavoro, sospesi dalla loro funzione mondana, diventano strumenti musicali, arnesi per la festa (che è essa stessa una sospensione del tempo mondano e lavorativo). Il vaso, ad esempio, come altri contenitori affini, è battuto come un tamburo. È da lì che emerge il suono cupo che richiama il grido primordiale (ogni festa, nel suo fondo, è una rievocazione dell’origine). Sempre da lì nascono, o rinascono, i contrari: i due momenti propri del ritmo, il battere e il levare, articolano tutte le opposizioni binarie, a partire da quella tra il lavoro e la sua sospensione festiva. Nel tamburo di Shiva tali opposizioni sono incarnate dalla sua stessa struttura binaria a forma di clessidra: due spazi vuoti contrapposti e uguali, come nella lettera X, a indicare morte e vita, cielo e terra, maschio e femmina, ecc. Battendo il tamburo i contrari entrano in risonanza tra loro rinnovando la commistione di Eros e Thanatos: ecco allora gli uomini danzare al ritmo della morte-nella-vita perché da questa si rigeneri la vita.

 

Ciò che i Veda restituiscono con chiarezza, nella lettura che ne dà Schneider, è come, per i loro estensori, in ogni pratica quotidiana, quali la costruzione e l’uso di un vaso, risuoni l’intero mondo (ciò che Heidegger vuol suggerire con l’esempio della brocca) nonché l’intera soggettività. La cosmogonia vedica può infatti essere letta come una vera e propria fenomenologia della soggettività nascente: la cavità originaria è allora il ventre materno, la vibrazione primordiale è il battito del cuore, la trasformazione del battito cupo in suono luminoso è il venire alla luce del neonato e insieme del mondo che questi via via percepisce. Tre diversi momenti – chiamati sonno (la cavità oscura), sogno (la vibrazione sonora) e veglia (il farsi luce della vibrazione) – scandiscono nascita del soggetto e nascita del mondo come un unico evento. Si tratta infatti della stessa origine, avvolta dapprima in un’oscurità dormiente, che poi esplode come un suono nel dormiveglia e un po’ alla volta si fa veglia effettiva. Se il primo momento è definito dormiente è perché – sembrano suggerire i testi vedici – esso è fuori dall’esperienza in quanto sorgere dell’esperienza stessa. L’intero processo è perciò visibile solo con gli occhi sognanti di cui parla Platone e descrivibile solo attraverso un «discorso bastardo» in cui ogni cosa è più cose (l’abisso primordiale è una bocca spalancata per la fame, ma anche una caverna, ma anche un vaso…). D’altronde, le parole dei Veda non sono in realtà parole, ma gesti. Si tratta di formule che accompagnano un rito sacrificale – attuato attraverso utensili che sono contemporaneamente strumenti musicali – dove ciò che importa non è la coerenza logica del discorso, non è la descrizione astratta del mondo, ma la concreta messa in opera del mondo stesso attraverso la musica e la danza rituali. Il sacrificio è infatti un «fare il sacro» (sacrum facere), ossia un riconfigurare il mondo dal principio – un principio sempre ri-evocato e ogni volta ri-fatto. Quella dei Veda è insomma una cosmografia, non una cosmologia.

 

Da questo punto di vista – ma solo da questo punto di vista, che potremmo definire «pragmatico-rituale» – il ritmo biologico generato dalla divisione sessuale dei viventi e il ritmo culturale generato dal taglio significante sono il medesimo, nel senso che accadono in uno col farsi del mondo. E caso vuole che l’immagine con cui Lacan raffigura il primo, quell’arco con la freccia che riassume gli «enigmi della sessualità» in ambito organico, sia forse uno dei più antichi simboli – così racconta Schneider – del suono creatore: «come il frullo della saetta così anche la vibrazione della corda dell’arco vale come simbolo sonoro dell’amalgama di vita e morte, soprattutto là dove la corda è concepita come femmina e lo scettro come maschio e insieme rappresentano la tensione che scaturisce dal dualismo cosmico».

 

Pura differenza

 

«Thanatos come vibrazione creatrice» potrebbe essere un buon titolo sotto cui riassumere la lettura della pulsione di morte offerta da Deleuze in Differenza e ripetizione.

In un capitolo del Significato della musica Schneider definisce il ritmo come una ripetizione dell’analogo in cui ciò che si ripete è un negativo – un che di inafferrabile – che ritorna in forme positive sempre nuove. Ciò che scandisce il ritmo, ciò che in esso si ripete, non è insomma nulla di empirico, pur non essendo altrove che nei battiti empirici, ognuno dei quali rievoca un primo battito che non ha mai avuto luogo se non come effetto di ritorno. Questo primo battito originario non è nell’esperienza (è semmai ancora nel sonno dell’oscura cavità primordiale di cui parlano i Veda, recepibile solo in un secondo momento come eco). Detto nei termini della filosofia: è un puro evento, un trascendentale.

 

Sono questi gli stessi tratti con cui la pulsione di morte è raffigurata all’inizio di Differenza e ripetizione. Una sorte di morte-nella-vita, un negativo quale segreto motore del positivo, è ciò che, per Deleuze, batte al cuore della ripetizione. Questa si dà infatti a vedere sotto due profili.

Da una parte vi è l’elemento empirico, ogni volta diverso, in cui la ripetizione si concretizza: i vari «travestimenti» – scrive Deleuze alludendo alle analisi di Freud – nel lavoro del sogno o del sintomo. Sono varianti o maschere da considerarsi quali «parti integranti e costitutive» della ripetizione.

 

Dall’altra vi è ciò che viene ripetuto, il quale non è un avvenimento reale dell’infanzia o un’esperienza originale traumatica. Come per il ritmo di cui parla Schneider, non c’è un elemento empirico iniziale che verrebbe poi riportato e modificato nelle sue varianti. Ciò che ritorna non è mai stato, ossia non è nulla di empirico, è semmai dell’ordine del trascendentale: Lacan lo chiamerebbe il taglio significante, qui Deleuze lo chiama pura differenza. Tale taglio è fuori dall’esperienza individuale essendone piuttosto l’evento (lacanianamente, ciò che istituisce il soggetto come tale). Ma mediante il travestimento esso è compreso nella ripetizione come pulsione di morte: è una sorta di vibrazione che scandisce i vari travestimenti, il ritmo delle maschere nel loro succedersi.

 

La pulsione di morte, nella prospettiva deleuziana, si delinea allora come l’eco del taglio, se s’intende un taglio che non è mai stato (nell’esperienza) e la cui eco altro non è se non il continuo tagliarsi del taglio stesso.

In Sessistenza Nancy formula una frase lapidaria che si presterebbe a commentare tanto i Veda quanto Differenza e ripetizione come anche alcuni passi di Lacan: «c’è una pulsione primordiale che tuttavia non preesiste rispetto all’esistere, ma in esso forza e forma il suo getto». Frase inusitata per un decostruzionista quella che inizia affermativamente con «c’è», il y a. Derrida, più prudentemente, scriveva s’il y a, «se ce n’è». Forse dire «c’è» è già dire troppo. Forse questa pulsione primordiale non «c’è», ma sicuramente insiste.

 

La danza della morte

 

Nel Seminario XI Lacan suggerisce come il ritmo della pulsione – nato dal taglio e qui chiamato «gioco dei significanti» – sia il primo nucleo da cui trae origine il sapere umano. Esso dà luogo a una sorta di «scienza primitiva». Si articola, infatti, in una serie di combinatorie basate su opposizioni binarie «affini» alla divisione biologica tra i sessi: yin e yang, acqua e fuoco, caldo e freddo, ecc. Animando le prime forme di sapere, il ritmo di tali opposizioni scandisce l’intera cultura umana nelle sue organizzazioni politiche, sociali ed economiche, facendo da sempre danzare gli uomini. Una danza, scrive Lacan, «più che metaforica», riferendosi alle gestualità ritmiche e ai riti danzanti presenti nelle più svariate tradizioni. I danzatori che nel labirinto celebrano la Grande Dea, le menadi danzanti che celebrano Dioniso e i battitori di tamburo che nell’antica India celebrano il canto della morte non ne sono che esempi e incarnazioni contingenti. Si tratta di danze che rievocano la morte-nella-vita muovendo dalle «ripartizioni sessuali nella società». Qui Lacan ha in mente – oltre agli studi sull’astronomia cinese di Léopold de Saussure, citati nel testo – le Strutture elementari della parentela di Lévi-Strauss, dove si mostra come l’intera economia e l’organizzazione politica delle società primitive sia fondata su una combinatoria basilare (la rete dei gradi di parentela) generata dalla proibizione dell’incesto (la versione antropologica di quel «taglio» che la psicoanalisi chiama castrazione simbolica).

 

L’intera scienza primitiva – il cui nucleo è la danza, intesa come unità sincretica di rito, mito e ritmo – sarebbe dunque, scrive Lacan, «una sorta di tecnica sessuale». È solo in età moderna, aggiunge l’autore, che il sapere e la conoscenza del mondo vanno incontro a un processo di desessualizzazione.

Thanatos come vibrazione creatrice? Sicuramente questi passi del Seminario XI suggeriscono che tanto la pulsione (sessuale) quanto il sapere e le prime tecniche umane (mito e rito) traggono origine da un taglio. Un taglio la cui eco Deleuze non esiterebbe a chiamare pulsione di morte. Il legame istituito da Lacan tra pulsione sessuale e sapere, tra godimento e significante, trova poi caustica illustrazione in un passaggio del medesimo seminario: «In questo momento, non scopo, vi parlo. Ebbene, posso avere la stessa soddisfazione esattamente come se stessi scopando».

 

In seguito il nesso tra sapere e pulsione trova ulteriori sviluppi a partire dal Seminario XVII dove il significante è definito «apparecchio di godimento» e la loro connessione è chiaramente descritta come primitiva e fondamentale. Leggendo queste pagine si ha l’impressione che il ritmo della pulsione si faccia danza, per riprendere l’immagine con cui si apre la postfazione di Miller, una «danza della pulsione di morte». Tale ballo, che anima l’intero seminario, vede scambiarsi di posto gli elementi dei celebri «quattro discorsi», illustrati da Lacan per mezzo dei rispettivi schemi che rievocano, in Miller, gli scheletri ballerini nell’iconografia della danza macabra. Qui ripetizione significante e godimento risuonano come i due tempi di uno stesso ritmo, quel battere e quel levare che non hanno di per sé alcuna sussistenza se non nel reciproco rimando e che, nel loro intreccio costitutivo, scandiscono il balletto dei discorsi, del sapere e della scienza. Come se il parlessere fosse, prima di tutto, un danzessere, la cui eventuale compostezza è solo una variazione diminuita della danza e il cui parlare e il cui sapere sono solo una variazione diminuita del cantare.

 

Gesti

 

Per quale motivo il sapere antico si articola attorno a una serie di dualismi «affini» alla divisione sessuale (yin e yang, luce e oscurità, cielo e terra, ecc.)? Secondo Žižek queste cosmologie sessualizzate, estintesi solo con l’affermarsi della scienza moderna, non sono il frutto di un semplice antropomorfismo, ossia di significati e valori soggettivi «proiettati» sulla realtà. «La loro proliferazione – leggiamo nel secondo tomo di Meno di niente – è un tentativo di compensare la mancanza della fondamentale coppia binaria che rappresenterebbe direttamente la differenza sessuale». Queste forme di sapere sarebbero dunque un tentativo, mai concluso e mai risolto in via definitiva, di coprire il buco del Reale, quella falla cui Lacan accenna nel Seminario XI come «enigmi della sessualità» e che più tardi scrive come «inesistenza del rapporto sessuale».

 

L’idea žižekiana di queste cosmologie come toppe, contingenti e precarie, per coprire un buco, una falla ontologica costitutiva, è indubbiamente un’immagine efficace. Ma rischia di inquadrare la questione in termini puramente bidimensionali. Come se la sapienza antica risiedesse nelle pagine di un libro e fosse dunque assimilabile a un’ontologia occidentale. Un’ontologia inevitabilmente bucata, perennemente incompleta. Potrebbero forse rientrare in questa categoria alcune derive dello junghismo e le speculazioni cosmologiche in stile new age. Ma non le antiche pratiche sapienziali, nella misura in cui queste sono appunto pratiche.

 

Si prendano ad esempio i Veda. Come già detto, essi costituiscono una pratica di parola impastata con la pratica sacrificale. Sono le parole che accompagnano l’azione, il mito che accompagna il rito, il canto che accompagna la danza. Nulla a che vedere con le ontologie degli occidentali, frutto dello sguardo di meri spettatori – frutto cioè di una voce che, materializzatasi nella scrittura e resasi visibile nei segni alfabetici, si è staccata dalla mano. L’originario fruitore dei Veda è invece un cantore, un rituante, un danzatore. Sicché i Veda non vogliono-dire niente nel senso del voler-dire. Sono originariamente un fare e, per noi che li leggiamo oggi, un fatto. Sono cioè, nella forma scritta che si è tramandata sino a noi, un deposito: il resto di qualcosa che è stato fatto, il residuo di un’azione compiuta, le tracce sul pavimento di una danza.

 

Non diversamente, si potrebbe osservare, dalla parola di Lacan. Il quale, lungi dal parlare per costruire cosmogonie o ontologie di qualunque tipo, prende la parola nei suoi seminari per compiere un’azione formativa – per formare persone che dovranno prendersi cura di altre persone non disquisire di metafisica (sebbene nulla impedisca di fare anche quello, così come nulla impedisce di leggere i Veda come una speculazione cosmogonica o come un serbatoio di archetipi dell’inconscio collettivo et similia: è anche questa un’azione, un far qualcosa di quelle parole, e a giudicare la maggior o minor proficuità di una simile operazione saranno solo i suoi effetti). È noto l’epiteto di «anti-filosofo» di cui Lacan amava fregiarsi, a intendere come nella sua pratica di parola non vi sia alcun voler-dire, alcuna volontà speculativa o teoretica.

 

Da questo punto di vista, le antiche pratiche sapienziali, come la pratica lacaniana, non mancano di nulla. Colte in uno spazio topologico, anziché bidimensionale, non hanno falle da coprire. Non sono ontologie (del tipo: «c’è», il y a, una pulsione primordiale…) volte a rattoppare brecce. Sono semmai gesti. Riti, più o meno antichi, più o meno moderni. Danze a loro modo perfettamente compiute. E, se si adotta questa prospettiva, lo stesso Reale perde le sembianze di un buco. Si delinea semmai come un farsi: il taglio è il farsi del taglio, il ritmo è il farsi del ritmo, la differenza sessuale è il farsi della differenza sessuale. Un fare che non è l’uomo a compiere più di quanto non sia il mondo, essendo l’uomo e il mondo, il soggetto e l’oggetto, il risultato di quel fare, anonimo e impersonale, che è l’accadere stesso della vita.

In Jacque Lacan, l’economia dell’assoluto Federico Leoni scrive che quella di Lacan è una non-ontologia per certi versi ebraica, per altri versi cinese. Ecco, abbiamo qui raccolto alcuni appunti per la versione indo-minoica.

 

Bibliografia

 

 

G. Bataille, L’erotismo (1957), SE, Milano 2017

G. .Deleuze, Differenza e ripetizione (1968), Cortina, Milano 1997

S. Freud, Al di là del principio di piacere (1920), in Tre saggi sulla sessualità. Al di là del principio di piacere, Bollati Boringhieri, Torino 2012, pp. 131-228

S. Freud, Analisi terminabile e interminabile (1937), in Opere. 1930-1938. L’uomo Mosè e la religione monoteistica e altri scritti, Boringhieri, Torino 1979, pp. 499-535

K. Kerényi, Dioniso (1976), Adelphi, Milano 1992

J. Lacan, Il seminario. Libro VII. L’etica della psicoanalisi (1986), Einaudi, Torino 2008

J. Lacan, Il seminario. Libro XI. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi (1964) (1973), Einaudi, Torino 2003

J. Lacan, Il seminario. Libro XVII. Il rovescio della psicoanalisi (1969-1970) (1991), Einaudi, Torino 2001

J. Lacan, Il seminario. Libro XIX. …O peggio (2011), Einaudi, Torino 2020

F. Leoni, Jacques Lacan, l’economia dell’assoluto, Orthotes, Napoli 2016

J.-L. Nancy, Sessistenza (2017), il melangolo, Genova 2019

M. Schneider, Il significato della musica (1970), SE, Milano 2007

S. Žižek, Meno di niente. Hegel e l’ombra del materialismo dialettico (2012), Ponte alle Grazie, Milano 2014

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