19 aprile 2025

AMBIGUITA' SOVRANA

Marcello Sorgi Tanti complimenti, ok. Ma di concreto cosa è uscito dall’incontro alla Casa Bianca tra Donald Trump e Giorgia Meloni? Con accenti diversi, molti autorevoli giornali stranieri, dall’inglese Guardian, al francese Le Monde, allo spagnolo El Pais ieri si sono posti questa domanda (che potrebbe riguardare anche il successivo appuntamento romano con il vicepresidente americano Vance e i due italiani Tajani e Salvini). Sui dazi, nulla al di là della buona volontà di cercare un accordo. Sul riavvicinamento Usa-Europa, altrettanto, con una certa vaghezza sulla possibilità che ad accogliere a Roma Trump, che ha accettato l’invito di Meloni a restituirle la visita, possano farsi trovare anche i leader europei, a cominciare da Von der Leyen. Sull’Ucraina e su Putin, poco, se non il segnale che l’alleato americano comincia a spazientirsi. Sulla Nato qualcosa. Sull’Occidente, a tratti presentato, soprattutto da Vance come una religione o un insieme di valori, qualcosa di più: tal che alla domanda dei colleghi stranieri, posta anche in termini leggermente urticanti, che fanno pensare a un pizzico d’invidia per l’innegabile successo della premier italiana, si può rispondere che sia questo il risultato più importante dei due confronti tra Trump e Meloni e tra Vance e il vertice del governo italiano: dimostrare o voler dimostrare che l’Occidente esiste ancora. “In che senso? ”, potrebbero ancora chiederci i qualificati osservatori di cui prima. Nel senso che, solo per fare un esempio, era quanto meno avventata l’affermazione di VdL a Die Zeit, pronunciata proprio alla vigilia del viaggio di Meloni, secondo cui «l’Occidente come lo conoscevamo non esiste più». E di conseguenza anche le scommesse, della stessa VdL e di alcuni leader europei, sulla costruzione di un sistema alternativo di alleanze, a cominciare dalla Cina di Xi-Jinping. Non perché non sia lecito scommettere, né ipotizzare piani diversi, di fronte all’evidente, progressivo disinteresse di Trump e dei suoi più stretti collaboratori per l’Europa; ma un conto è una scommessa e un conto è la realtà di un’alleanza. Che, acciaccata per quanto sia, può essere rammendata, restaurata, rafforzata anche in un tempo breve. Mentre tra il volgere lo sguardo da un’altra parte e realizzare effettivamente qualcosa – per restare sempre alla concretezza – ce ne vuole, Sì dirà che le strizzatine d’occhio verso la Cina, o verso il complesso mondo arabo, a cui s’è assistito in queste settimane di confusione dopo l’annuncio (e il ritiro per novanta giorni) dei dazi americani potevano essere mosse tattiche, anzi sicuramente lo erano, per spingere Trump a pensarci bene prima di tagliarsi i ponti con l’Europa. Ma che questa fosse la strategia più adatta a ottenere il ripensamento, non è detto. Fatto sta che Trump la sua marcia indietro – si vedrà fino a che punto – sugli europei considerati fino a poco prima «parassiti e scrocconi» l’ha fatta davanti a Meloni, cioè di fronte alla sola leader dell’Unione che s’è schierata contro quelle strizzatine, e quando il primo ministro spagnolo ha preso un’iniziativa in senso opposto, lo ha attaccato. Poi ci sono le affermazioni seguite ai faccia a faccia. Magari ambigue, come la dichiarazione del segretario di Stato americano Rubio, che pur ribadendo che l’Ucraina non è la priorità dell’amministrazione di cui è membro, ha confermato che gli Usa non intendono affatto ritirarsi dalla Nato, ed è quello, sembra di capire, lo strumento di pressione attraverso il quale si pensa di agire sulle resistenze di Putin. A condizione, ovviamente, che tutti i Paesi che ne fanno parte mantengano gli impegni economici per il finanziamento dell’alleanza fin qui disattesi. Insomma, anche in questo caso, l’Occidente c’è e la Nato c’è. Mentre di altre alleanze strategiche – a parte quella dei “volenterosi” promossa da Starmer e Macron in una cornice comunque occidentale – non si vede neanche l'ombra. Come poi si possa stabilire un asse con un Paese schierato in questo momento con Putin e come quest’asse possa servire a ottenere la pace in Ucraina, è tutto da capire. E seppure si trattasse di intese commerciali per rimediare alla tempesta dei dazi, questo tipo di accordi, che in passato, è giusto rammentare, furono fatti perfino con Putin, in genere si fanno in tempi di pace. Finché in Ucraina si continua a combattere e finché Putin punta a espropriare Zelenski dell’intero territorio, sarebbe alquanto strano fare affari con chi dichiaratamente o dietro le quinte lo aiuta a realizzare i suoi obiettivi. In conclusione, la politica estera – materia a cui presto o tardi tutti i presidenti del consiglio italiani si sono appassionati – è fatta di risultati reali e di mutamenti di clima che precedono, spesso, gli stessi risultati. Meloni con il suo viaggio ha realizzato un cambiamento di clima, non solo tra Italia e Usa ma anche tra Europa e Stati Uniti. Adesso, c’è molto da lavorare, e molto da riflettere prima di parlare. Un’idea di Trump, nel bene e nel male ormai ce la si è fatta. E la sua apparizione nella Sala Ovale con Meloni non ha certo contribuito a dissipare i dubbi. Conoscendo l’Italia e l’Europa, la strada s’intravede, ma è molto in salita. Stefano Folli Si poteva immaginare che con J. D. Vance, il vicepresidente, si sarebbe entrati più nel merito delle questioni che dividono l’Europa — o meglio l’Unione — e gli Stati Uniti, a cominciare dai famosi dazi. Sembra invece che i colloqui con la premier Giorgia Meloni abbiano ricalcato alla lettera l’atmosfera della Casa Bianca: un dialogo gentile e assai cordiale, tanti sorrisi, scarsa concretezza. In parte è comprensibile. Da un lato l’Italia non vuole e non può infrangere il vincolo europeo, per cui sulle tariffe si resta solidali e nessuno tratta per se stesso. Dall’altro è logico che Vance non abbia titolo per andare oltre Trump, tanto più che sono passate solo poche ore dal primo incontro, quello di Washington. In sostanza la visita del vicepresidente è servita a rafforzare l’operazione simpatia americana verso un alleato che gode, diciamo così, dello status di “nazione preferita” nella scala delle preferenze di Trump e Vance. Preferenza non commerciale, s’intende, visto che sui dazi siamo in alto mare. Meglio sulle spese militari, dove l’Italia sta facendo uno sforzo non indifferente. Preferenza sentimentale, dunque, dal momento che il presidente non esita ad affermare che il privilegio dell’Italia durerà fin quando ci sarà Giorgia Meloni a palazzo Chigi. Viva la franchezza… e in effetti non si fatica a credere che tale sia il pensiero dell’amministrazione americana. Tanto più che l’arcipelago politico italiano è abbastanza frastagliato: a destra c’è Salvini che vorrebbe essere lui l’alleato preferito del trumpismo arrembante, ma non sembra aver trovato sponde a Washington, dove i voti si pesano, certo, ma si pesano anche. E Giorgia Meloni è in vantaggio sul leghista in entrambi i campi. Quanto al centrosinistra, la scelta è evidente: tutti, dal Pd ai 5S a Renzi, con l’unica eccezione di Calenda, puntano al prossimo turno. Aspettano che Trump esaurisca il suo mandato quadriennale e sperano che, al momento dei bilanci, i fallimenti superino i successi, così da evitare che la stagione del presidente isolazionista e protezionista si trasformi in una specie di dinastia, con Vance nelle vesti del principe ereditario. Lui ci crede fin d’ora e non poco. Quindi si preoccupa di tessere una rete di relazioni in Europa e nel resto del mondo. L’Italia meloniana è senz’altro in cima alla lista e qui Trump e Vance la pensano allo stesso modo. Quanto alla presidente del Consiglio, anche lei si è dedicata a un’operazione simpatia, sia in Usa sia ieri a Roma. È già stato scritto che si muove facendo attenzione a non indebolire il filo che unisce l’Italia all’Europa di Ursula von der Leyen. È assolutamente così. Ma c’è un margine per le iniziative nazionali, diciamo meglio per affermare una certa dose di autonomia. Quando Giorgia Meloni alla Casa Bianca afferma che occorre agire insieme «per fare l’Occidente di nuovo grande» mette in campo un gioco di parole piuttosto abile a patto di vederne anche l’ambiguità. Il gioco di parole riguarda il Maga trumpiano: in questo caso non sarebbe solo l’America a tornare grande, bensì, appunto l’Occidente. Eppure c’è una domanda a cui né la nostra premier né tanto meno il neo presidente hanno risposto in modo definitivo. In questo Occidente, destinato a ritrovare una grandezza, l’Ucraina avrà o no un posto. A sentire le frasi di Trump e Vance, e ancor più i loro silenzi, si direbbe che la nozione di Occidente nel 2025 non arrivi a comprendere Kiev. L’America di Trump la sta cedendo alla Russia un passo alla volta. La presidente del Consiglio è stata invece, come è noto, una strenua difensora dell’indipendenza ucraina. Ora sarebbe il caso che il suo pensiero fosse reso più esplicito. Danilo Paolini Avvenire, 18 aprile 2025 Meloni, quindi, cammina su un filo: qualora rischiasse il “licenziamento” da Trump, dovrebbe scegliere se seguire le orme di Orbán e isolarsi dal resto dell’Ue (ma l’Italia non è l’Ungheria, nella storia dell’Unione) oppure rompere con l’amico Donald, sancendo il fallimento della sua missione. Missione che lei ha sintetizzato in «fare di nuovo grande l’Occidente». Trumpianamente. Forse troppo, perché la grandezza dell’Occidente, per come l’abbiamo conosciuto finora, risiede nelle sue istituzioni liberaldemocratiche, cioè nel sistema di controlli e contrappesi che ciascun potere esercita sugli altri, garantendo appunto libertà e democrazia. E non sembra questa la priorità di un presidente che appena tre mesi fa ha concesso la grazia a 1.500 suoi sostenitori che nel 2021, dopo la vittoria di Biden alle presidenziali, diedero l’assalto alla sede del Congresso.

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