12 aprile 2025

PERCHE' CI SI ALZA LA MATTINA?

PERCHÉ CI SI ALZA LA MATTINA? di Rocco Ronchi Ci sono delle buone ragioni per sperare? Oppure, detto più prosaicamente ma anche in modo maledettamente più concreto, “perché ci si alza la mattina?”. Se nella notte ci si è rigirati insonni nel letto era proprio perché quella domanda non sembrava trovare risposta. La speranza in certe ore notturne è proprio come morta. “Perché ci si alza allora la mattina?” chiede il filosofo Ernst Bloch nella sua conversazione del 1964 con Theodor W. Adorno, da lui chiamato amichevolmente Teddy (Qualcosa manca… sulla contraddizione dell’anelito utopico contenuta in Ernst Bloch, Speranza e utopia, Conversazioni 1964-1975, a cura di R. Traub e H. Wieser, Mimesis, Milano 2022). Quali sono le radici metafisiche di quella folle speranza in un giorno migliore senza la quale l’esistenza sarebbe intollerabile? Il curatore italiano del libro Eliano Zigiotto, come Laura Boella, che lo correda con una breve e intensa post-fazione (dal titolo: Il coraggio di sperare e di disperare) insistono nel “datare” queste conversazioni: sono, ripetono, di cinquanta – sessanta anni fa quando il mondo era profondamente diverso, quando la guerra fredda imperava e la filosofia era praticata come atto critico e sovversivo. Bloch e Adorno (per non parlare di György Lukács, compagno di studi filosofici del giovane Ernst, anche lui fugacemente presente in questi dialoghi) erano filosofi che nell’hegelo-marxismo avevano il loro orizzonte di riferimento teorico e nel socialismo quello pratico. Le loro strade certo divergono, anche drammaticamente, ma tutti condividono la speranza in una trasformazione radicale dello stato di cose, anzi il loro dissidio nasce proprio dai diversi modi in cui questa comune speranza può essere declinata. Ora, quel mondo è indubbiamente tramontato al punto che nemmeno chi si propone di rinnovare la malmessa sinistra italiana osa pronunciare quella parola, “socialismo”, che per Ernst come per Teddy era pressoché un’ovvietà. “Socialismo” era per loro “il sogno di una cosa” latente nel “processo storico”, di cui si poteva discutere la praticabilità ma non certo la “necessità”. Eppure quella domanda, “perché ci si alza la mattina?”, rimbomba più che mai nella nostra testa frastornata. Ciò si deve, forse, al fatto che quella domanda non ha a che fare con il tempo lineare degli eventi, piuttosto va alla radice del tempo, chiede di qualcosa che non è più tempo, qualcosa che se ne sta fuori dal tempo, come il celebre exaiphnes di cui parlava il Parmenide immaginato da Platone, un “improvviso” (così bisognerebbe tradurlo) che del cambiamento è l’origine senza essere parte del tempo (per questo la sua traduzione con “istante” è fuorviante). Nella prima delle conversazioni raccolte nel volume (anch’essa del 1964), l’intervistatore Jurgen Rühle fa una domanda a bruciapelo a Bloch. Una vera domanda “giornalistica”. Gli chiede: lei che ha scritto Il Principio speranza (1959), lei che ha rimesso in circolazione la necessità dell’utopia, una nozione che gli stessi marxisti, volendo essere “scientifici”, disprezzavano, lei ci sa dire in due parole “qual è l’idea di fondo della sua filosofia?”. Bloch non esita a rispondere. Da vero filosofo sa che ogni pensiero vivente si nutre di una sola intuizione sebbene occorrano migliaia di pagine e un’intera esistenza di ricerca per comunicare al mondo la sua ineffabilità di principio. Quel punto, dice, è l’“oscurità dell’attimo vissuto”, quel punto è la strana natura del presente, del “qui e ora”. Non bisogna alzare gli occhi al cielo per cercare il mistero. Ciò che è massimamente vicino, perché io lo sono, adesso, è in realtà l’enigma. L’immediato, come lo chiamano i filosofi, è l’enigma, l’immediato è la sorgente costante dello stupore. “Una vita” denota il tempo speso nel tentativo di decifrarlo e la “storia degli uomini”, con i suoi conflitti, con le sue catastrofi e con le sue rivoluzioni, è il succedersi degli “esperimenti”, quasi sempre fallimentari, con cui l’umanità ha cercato di risolvere quella X incognita nell’equazione del presente vissuto. Il presente, a ben considerarlo, ha infatti una ben strana natura. Il presente è intimamente aporetico, è un vicolo cieco. Ad esso non posso sottrarmi – provatevi, se ci riuscite, a fuoriuscire dal suo orizzonte claustrofobico… –, in esso tutto passa e, tuttavia, il presente resta a me, mentre lo sono, ignoto: per vedere qualcosa, per sentire qualcosa, per sapere qualcosa non bisogna forse fare sempre un passo indietro, articolare una distanza, esiliarsi in un “punto di vista” necessariamente esterno alla “cosa” che si ha di fronte? Come recita il proverbio tedesco, ai piedi del faro che illumina il mare c’è il buio e la visione, spiegano i fisiologi, è debitrice di una macchia cieca al fondo della retina. “Utopia” è allora il nome “preciso” che la speranza umana ha dato al momento apicale in cui quell’equazione sarà finalmente risolta, all’attimo immenso in cui il presente potrà dirsi veramente vissuto in pienezza. È un nome “preciso” perché utopia significa al contempo nessun luogo (ou-topos) e il luogo del bene (eu-topos). continua e si conclude qui: https://www.doppiozero.com/ernst-bloch-perche-ci-si-alza...

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