15 aprile 2025

ARBASINO RICORDATO DA GOFFREDO FOFI

QUANTO CI MANCHI, ARBASINO! Il 22 marzo di cinque anni fa moriva Alberto Arbasino. Figura fondamentale per la cultura italiana del secondo Novecento, la sua originalità, curiosità e intelligenza sono oggi molto rimpiante. Alberto Arbasino, morto nel 2020 a 90 anni, fu il perfetto esemplare di un’Italia in pieno movimento, quella degli anni del “miracolo economico”. Rifiutò (non fu il solo) i moduli narrativi e le convenzioni morali (perlopiù moralistiche) del neorealismo con Le piccole vacanze (1957) e L’Anonimo lombardo (1959), ma anche con la frizzante sceneggiatura di La bella di Lodi per l’amico Mario Missiroli (riscritta per Einaudi, nel 1972) e via via con gli splendidi articoli “da conversazione” che uscirono sul settimanale «Il Mondo», e sul quotidiano milanese «Il Giorno», presto raccolti in volume. Le sue recensioni diventarono un riferimento indispensabile per molti della mia generazione, insoddisfatti delle retoriche vigenti sia comuniste che laiche, e desiderosi di scoprire voci più adeguate al nostro sentire, al nostro vivere e alle nostre aspirazioni. Arbasino si rifaceva a una “linea lombarda”, dossiana e poi gaddiana, e a una tradizione più inglese che tedesca, e semmai francese e statunitense, fitzgeraldiana. Non dimenticando – ci mancherebbe! – Borges… Articolo dopo articolo, le sue scoperte (anche da critico d’opera e di teatro giramondo) ci guidarono alla conoscenza di vecchi e nuovi scrittori, preparandoci all’avventura non del Gruppo 63 (che differenza tra Arbasino e Balestrini!) ma di maestri lontani (la grandissima Ivy Compton-Burnett, che egli fece in tempo a intervistare) e anche vicini (dal già citato Borges a Capote) e italiani, risalendo oltre Gadda a un certo Settecento e, più selettivamente, a un certo Ottocento ancora illuminista e appunto “lombardo”. Suoi tratti distintivi: un modo colloquiale arguto, un’attenzione (e talvolta perfino una pietas) di tipo nuovo per le figure più vivaci della storia della cultura e per le più originali e spumeggianti del mondo in cui viveva – guardando sempre oltre i suoi confini, da insofferente del nostro ostinato provincialismo quale era. “Le sue recensioni diventarono un riferimento indispensabile per molti della mia generazione, insoddisfatti delle retoriche vigenti sia comuniste che laiche, e desiderosi di scoprire voci più adeguate al nostro sentire”. Ci servì molto, Arbasino – ma senza affatto rinunciare ai nostri maestri “marxisti” e post-marxisti, diciamo pure francofortesi. Noi della generazione del ‘68 ci servimmo di lui per un indispensabile “aggiornamento”, a ben vedere speculare a quelli proposti da Kennedy, Gorbaciov, Giovanni XXIII… Con buona pace di Adorno e di Fortini, sempre col dito puntato contro la frivolezza di qualsiasi gioco, nell’incomprensione della funzione e della necessità del gioco. Da condirettore dei «Quaderni piacentini» mi toccò, per non incorrere nella scomunica dei miei più vicini amici e maestri, frequentare un po’ di nascosto Umberto Eco, che mi dava lavoro come traduttore e da cui ebbi molto da imparare – e fui tra i pochi, sul fronte di una accanita sinistra o saccente o sprezzante, a divertirmi con Il nome della rosa (e a impararne), e a presentarlo con lui e con altri e diversi amici in una calda serata milanese alla Sormani… Mi fu dunque facile, più tardi, intrattenere buoni rapporti con Arbasino, che incontravo spesso per strada, abitando lui a due passi dalla redazione de «Lo Straniero», e che a ogni nuova uscita di un suo libro mi gridava “sii clemente, Fofi, sii clemente!” e mi lasciava in portineria bustoni di bozze… Ma non era solo l’aspetto giocoso ad attirarmi di Arbasino quanto la sua acutezza sociologica, antropologica. Da protagonista e da narratore della nuova Italia, certamente becera ma per alcuni aspetti splendida (nel cinema, per esempio, grazie a Fellini, Pasolini, Antonioni, Rosi, Monicelli, Risi e la commedia, e grazie a Bellocchio e a Bertolucci; in teatro grazie a Ronconi e a Testori e alla brulicante novità e libertà di giovanili gruppi di “nuova drammaturgia”; in poesia grazie a Zanzotto, Sereni, Giudici, Raboni; in letteratura grazie a Morante, Ortese, Volponi, Calvino, Bianciardi…). Si può collegare Arbasino – più di ogni altro scrittore e regista italiano suo contemporaneo – alla ventata di libertà che aprì la via a una generazione animosa, e alla lunga, ahi noi, assolutamente sconfitta, ma il cui esempio potrebbe ancora rivelarsi importante in futuro. “Mai dire mai” diceva il geniale tedesco che anche Arbasino seppe ammirare – e non poteva essere altrimenti… Ma è opportuno alludere all’altro motivo che ebbero molti di noi per apprezzare l’opera arbasiniana. Oso dire che, con il grande Gallino, con Ferrarotti, con Panzieri e Pizzorno al Nord e con Rossi-Doria e i suoi allievi al Sud, è stato Arbasino a capire e raccontare meglio di tutti gli accademici titolati la grande mutazione degli anni del “miracolo economico”, nei suoi luoghi centrali ma anche e preferibilmente in quelli di contorno. E nel farlo, ha adottato uno sguardo talora più incisivo e partecipe di quanto non fosse quello degli studiosi. Memorabili sono i suoi diari di viaggio in Italia e all’estero, la sua inesauribile curiosità per il “nuovo” – possedendo poi lui la capacità di distinguere il “nuovo” davvero incisivo, a suo modo radicale, da quello superficiale e transitorio. E se L’Anonimo lombardo e Fratelli d’Italia sono due romanzi imprescindibili per capire chi stavamo diventando, Un paese senza e In questo Stato resteranno, come altrettanti “romanzi”, tra i più fedeli grandi ritratti di un’Italia insieme antica e nuova, anzi nuovissima… veridiche rappresentazioni di una mutazione in atto, capaci di coglierne saggiamente sia la necessità che la frivolezza, sia la profondità che la superficialità. Goffredo Fofi, 22 marzo 2025 https://lucysullacultura.com/compagni-di-strada/quanto-ci-manchi-arbasino/

Nessun commento:

Posta un commento