07 aprile 2025

ARMIAMOCI E PARTITE...

Mettere l’elmetto alla “generazione fiocco di neve” Il collega Marco Maurizi l’ha sintetizzato alla perfezione: «La borghesia liberale è passata da “un brutto voto potrebbe condurre alla morte dei nostri fragili figli” a “preparatevi a vivere in un bunker” nel giro di poche settimane». E davvero, ultimamente, con una intensità esplosiva dopo il fallito incontro nello Studio ovale tra Trump e Zelensky, non era possibile accendere la tv su un talk show politico, leggere un corsivo sui quotidiani, aprire Facebook, senza sentire o leggere una Gruber, un Giannini, un Mentana, un Augias, un Flores d’Arcais – sto facendo intenzionalmente solo nomi di opinionisti progressisti – farsi portavoce dell’ineluttabilità dell’ora presente e dell’unica strada tracciata davanti a noi: il riarmo. Tutto ciò che poteva disturbare questa adesione all’ananke veniva o contestato con accanimento o intenzionalmente taciuto: Schlein è stata screditata come leader inaffidabile, semplicemente perché ha osato non allinearsi a un Partito socialista europeo che si è reso subito disponibile a sostenere le proposte di Ursula von Der Leyen; nessuno ha concesso il minimo spazio alla speranza che una qualche forma di opposizione interna a Trump saprà forse riorganizzarsi oltreoceano nei prossimi quattro anni e ci si è affrettati a dichiarare l’Europa orfana di papà Stati Uniti, esortandola a crescere e a imparare a fare a botte da sola; ovunque si è evocata la Conferenza di Monaco e hitlerizzato Putin, come se questi intenda entrare domani a Parigi coi panzer. Persino una rivista moderata (nei molti sensi del termine) come Il Mulino, ha sostenuto con perfetto tempismo l’idea di reintrodurre un esercito di leva. Soprattutto, giorno dopo giorno, si è profilato davanti ai nostri occhi un soggetto – i valori europei – sovrastorico, metafisico, mitico, nel quale si confondevano Europa geografica e storica ed Unione dei trattati, Europa e umanesimo-illuminismo-libertà-democrazia-civiltà, Altiero Spinelli e Mario Draghi/Christine Lagarde, Europa e iniziative egemoniche di Macron e di Starmer (che dell’Unione non fa nemmeno parte). Ma non si può tacere, naturalmente, il caso del più sintomatico fra gli opinionisti, Antonio Scurati. Tre anni fa lo scrittore aveva aggiunto i propri parerga a Plutarco con un elogio delle res gestae di Mario Draghi: uomo che «ha retto le sorti di una nazione e di un continente» e «le ha tenute in pugno con il piglio del dominatore, sorretto da una potente competenza, baciato dal successo, guadagnando una levatura internazionale, un prestigio globale, un posto di tutto rispetto nei libri di storia. Ha conosciuto il potere, quello vero, ha conosciuto la fama degli uomini illustri, la vertiginosa responsabilità di chi, da vette inarrivabili, decide quasi da solo della vita dei molti». Questa volta Scurati ha pen(s)osamente meditato sull’assenza di virtù guerriere dei giovani europei, virtù che tra brevissimo potrebbero invece essere assolutamente necessarie per la sopravvivenza della nostra civiltà (Dove sono ormai i guerrieri d’Europa?, «La Repubblica», 4 marzo 2025). Non so se Scurati possa essere definito tout court un progressista: di sicuro nei suoi libri la postura democratica e antifascista è ribadita con forza. Tuttavia, osservava Gianluigi Simonetti in un acuto articolo («Tuttolibri», 19 ottobre 2024), il suo stile denuncia un «ritorno del represso formale» in cui si intravede una fascinazione estetica per quel fascismo razionalmente rigettato. Anche l’articolo su Repubblica è nevroticamente ambiguo, reggendosi su un’equivoca antifrasi: la virtù guerriera vi è infatti evocata a contrario, a partire dalla sua assenza, per evitare una sua affermazione troppo diretta e ideologicamente imbarazzante. Nonostante Scurati riconosca tutti i vantaggi della vita in tempo di pace e di welfare, a dar forma al suo testo è il topos dell’ubi sunt, la nostalgia per un passato di poderose dimensioni epico-storiche. È istruttivo mettere a confronto questo tortuoso Grovesciamento retorico di Scurati con quello non meno sintomatico di Matteo Salvini, sullo stesso argomento. Circa un anno fa, la Lega ha depositato alla Camera un disegno di legge sulla reintroduzione della leva obbligatoria. Il disegno di legge era stato preparato nei mesi precedenti da un battage del segretario del partito, il quale, seguendo una strategia retorica di cui certo non è l’unico detentore ma in cui è particolarmente versato, aveva alternato interpretazioni della proposta aggressive – di destra – ad interpretazioni rassicuranti – compatibili con un’ideologia progressista: nel primo caso, la leva era il mezzo per insegnare le regole e il rispetto a giovani che indulgono alla pigrizia a causa del reddito di cittadinanza; nel secondo, una forma di impegno verso lo Stato e la comunità non dissimile dal servizio civile, orientabile verso attività come la tutela dei boschi e il pronto soccorso. Salvini preme sempre sul pedale dell’eccesso linguistico, della violenza e della forza evocate “solo” simbolicamente, in linea con lo stile dei politici della destra radicale globale; ma sa benissimo che certi valori conservatori (ordine, gerarchia, disciplina) non possono essere riesumati in quanto tali, senza una debita contestualizzazione, in una società come la nostra: smussando gli angoli, confondendo i confini, il servizio militare viene così presentato come un “quasi” servizio civile. Il leader della Lega fa il percorso logico inverso a quello di Scurati, così che le due strategie argomentative formano insieme una struttura a chiasmo: non “è bella la vita in pace, ma prepariamoci alla guerra”, bensì “mi piace la vita militare, ma rispetto l’amore per la pace”. Tuttavia la risultante finale non è molto diversa: il mondo in cui a combattere – ma fino a ieri lo si chiamava “peace keeping” – era solo una piccola porzione professionalizzata della popolazione è durato appena un soffio. Il dovere di difendere la patria – come recita anche la nostra Costituzione – torna ad essere di tutti i cittadini. La guerra e la disciplina militare riappaiono nel nostro orizzonte mentale. Questa convergenza tra il populismo di destra e il liberalismo di sinistra ci direbbe molto dell’inconscio politico di questi giorni, se solo volessimo indagarla: i due poli opposti del magnete, che negli ultimi decenni hanno sempre tenuto a ribadire la naturale repellenza reciproca, la loro incompatibilità ontologica, hanno l’identica pulsione al dolce et decorum pro patria mori. Parlare dei giovani Il tratto più osceno – non riesco a scegliere un aggettivo meno violento – dell’attuale tambureggiamento bellicistico è che l’età dei suoi sostenitori va dai cinquanta-sessant’anni ai novanta, condizione che li porrà al riparo dall’arrivo dell’eventuale cartolina precetto (ma immagino che oggi esistano più innovative forme 4.0 per convocare al macello): cartolina che invece raggiungerebbe per primi i nostri figli, nipoti e allievi. Sono convinto non da oggi che il discorso pubblico sulla giovinezza e sui giovani sia uno dei più stucchevoli, tra i molti che circolano nella mediosfera. Raramente infatti mi capita di prendervi parte. A ventriloquare quel che i giovani sarebbero, penserebbero, desidererebbero ci sono già fin troppi adulti. Quello con i giovani, per un insegnante, è innanzitutto un rapporto quotidiano. Esperienza, non teoria. Contatto – piacevole o faticoso –, non ciancia senza responsabilità. Se la leggerezza con la quale si discetta di giovani e scuola, giovani e fragilità, giovani e social mi urta i nervi, figurarsi sentire cronisti, compiaciuti di poter battezzare per primi l’ora storica fatale tra uno spot pubblicitario e l’altro, parlare di riarmo: ovvero, rendere più probabile, come capitò ai “sonnambuli” che si ritrovarono senza parere nel primo conflitto mondiale, l’invio al fronte dei nostri ragazzi e ragazze. Ed è proprio questo corto circuito tra superficialità dei metodi e dei mezzi e gravità del contenuto a sgomentare. Ma forse tale corto circuito è solo apparente e la solidarietà di metodi, mezzi, contenuti è molto più profonda di quanto non sembri. La guerra è la continuazione della governance con altri mezzi Non sarà sfuggito a nessuno come il termine «resilienza», fin qui inteso soprattutto come una qualità delle persone, specie dei lavoratori, o al massimo dei sistemi (economici, politici, …), abbia potuto essere applicato – senza bisogno di alcuno spostamento semantico, metonimico o metaforico – a un kit di sopravvivenza all’invasione militare. Sto parlando ovviamente del ben noto video della Commissaria per la gestione delle crisi dell’Unione Europea, Hadja Lahbib. La bravissima dirigente scolastica Ezilda Pepe mi ha fatto notare altre consonanze lessicali tra un documento che risale alla pandemia da covid e il piano Rearm Eu. Nelle «Indicazioni strategiche ad interim per preparedness e readiness ai fini di mitigazione delle infezioni da SARS-CoV-2 in ambito scolastico (a.s. 2022 -2023)» ricorrevano questi due termini inglesi. Spiega Ezilda: preparedness ➝ conoscenze, competenze e risorse necessarie per affrontare un’emergenza readiness ➝ capacità di risposta tempestiva ed efficace all’emergenza attuata grazie alla preparedness. Con questi concetti abbiamo fatto “amicizia” nel periodo della pandemia. L’Istituto Superiore della Sanità inviò, infatti, un documento di gestione e mitigazione del rischio diffusione nel 2022, quando si “cominciò” a tornare a scuola. Le parole sono importanti, il succo era “pronti ad essere pronti”. Readiness torna in relazione al risk management di guerra in sostituzione dell’espressione REARM EU. Basta in effetti dare un’occhiata al documento sulla Preparedness Union Strategy dell’Unione Europea, per constatare non solo l’identità lessicale, ma l’affinità concettuale, la comunanza ideologica, la grottesca fraternità spirituale tra il vecchio documento epidemiologico e quest’ultimo. Resilience, preparedness, readiness: che siano le esigenze del mercato del lavoro, una pandemia, la sopravvivenza a uno stato di guerra, l’Unione europea reagisce – è proprio il caso di dirlo – con la medesima costellazione concettuale e linguistica. Come osserva poi Ezilda, l’espressione “Rearm” è scomparsa abbastanza in fretta dallo spazio pubblico, immediatamente neutralizzata nel lessico-pappa della burocrazia europea. Questo pronto restyling linguistico ricorda un episodio della storia delle politiche scolastiche mondiali la cui morale è istruttiva. Negli anni Novanta dell’eccitazione globalistica, la Banca Mondiale, «partendo dalla constatazione delle due priorità dell’istruzione – andare incontro alla crescente domanda delle economie di lavoratori flessibili in grado di acquisire prontamente nuove abilità e sostenere la continua crescita di conoscenza» propose sei riforme chiave per l’istruzione (Priorities and Strategies for Education, 1995), esprimendosi in termini assai chiari: autonomia, privatizzazione, apertura delle scuole alle famiglie, impiego di tecniche econometriche e valutazione dei tassi di rendimento dell’istruzione, enfasi esclusiva sulle soft skills e gli atteggiamenti necessari sul posto di lavoro e assenza di «ogni riferimento a materie come storia, letteratura ed arti». Nell’arco di appena quattro anni, però, banchieri, funzionari e policy-maker capirono che era necessario adottare una tattica più morbida. Pertanto nel documento successivo, Education Sector Strategy (1999), inaugurarono «una strategia di pubbliche relazioni anche per l’istruzione. In effetti, ciò che colpisce è il cambiamento di linguaggio: la retorica economica è abbandonata quasi completamente in favore di un linguaggio di cura, attento a sentimenti ed emozioni». In realtà, «i parametri fondamentali delle operazioni della banca non erano cambiati» (tutte le citazioni da A. Cobalti, Globalizzazione e istruzione, 2006, p. 224 sgg.). La borghesia liberale, i nostri opinionisti progressisti, non hanno dunque cambiato registro. La dolorosa verità è che il mondo che abitiamo parla un linguaggio tanto elusivo e vuoto da non aver mai detto nulla e da poter perciò essere usato per fare tutto: prima costruire società fondate sulla competizione economica, ora prepararsi alla guerra. Questa elusività e vanità semantica è la caratteristica principale di quella forma di amministrazione apparentemente neutrale del reale che ha sostituito la politica e che va sotto il nome di governance (A. Denault, Governance, 2018). Candidatasi a sostituire il government, troppo compromesso con il comando dall’alto della sovranità moderna, la governance gli preferisce l’impero della normativa tecnica, del regolamento, del benchmark, del quadro di riferimento, della “cultura” dell’assessment e dell’accountability, rafforzando – proprio quando proclama di liberarsene una volta per tutte insieme ai pesanti apparati statali del Novecento fordista – l’amministrazione burocratica del mondo, nella quale, come sappiamo dai tempi di Weber, i mezzi diventano fini, i fini si fanno irrilevanti, pertanto perfettamente intercambiabili, fino alla piena indifferenza etica. È quella che sempre Denault ha definito «mediocrazia», giocando sul fatto che in francese moyen significhi sia “medio” che “mezzo” e potendo perciò denunciare, nello stesso concetto, tanto un sistema economico, politico, mediatico, formativo che prospera sulla medietà/mediocrità delle sue regole, quanto il mito funzionalista del puro efficientamento, che produce conformismo, automatismi, superficialità: «non […] tanto il dominio dei mediocri, quanto lo stato di dominio esercitato attraverso regole che sono anch’esse mediocri, e tuttavia vengono elevate a sistema giusto e coerente, a volte persino a chiave di sopravvivenza, al punto da sottomettere alle sue parole vuote coloro che aspirano a qualcosa di meglio e osano affermare la propria sovranità» (A. Denault, Mediocrazia, 2017, pp. 46-47). Educazione militare La scuola è naturalmente terreno d’elezione per l’applicazione di questo vuoto etico. Il “pieno” delle discipline e delle materie, concrezioni storiche di saperi che incorporano in sé anche le forme e le tecniche della propria trasmissione e appropriazione, è stato sostituito dal vuoto di pattern buropedagogici, i quali, in quanto forme pure prive di sostanza, possono essere tirati da ogni parte e sono buoni ad ogni uso. Quel che è diventata l’educazione civica ne è l’esempio paradigmatico. Tradizionale contenitore per lo studio della Costituzione, sempre a rischio di rappresentare la parodia eticizzata e catechistica dello studio storico del diritto, essa aveva comunque una propria, seppur vaga, fisionomia. Trasformata in “pattern pedagogico”, essa può essere annacquata, come è nelle più recenti formulazioni (non solo nell’ultima riscrittura valditariana) fino a includere “atteggiamenti” tautologici, come l’imparare il rispetto verso gli altri, e sempre nuove “educazioni”, da quella ambientale a quella stradale, da quella alimentare a quella digitale. Nella sua infinita manipolabilità, questo «insegnamento dell’ignoranza» – come l’ha chiamato Jean-Claude Michéa, che ne ha sottolineato il carattere di intenzionale progetto (de)formativo delle élite capitalistiche – può ovviamente anche fare un giro completo su se stesso e tornare a riempirsi di contenuti politicamente prescrittivi, come, nelle ultime Linee guida del 2024, l’imparare l’iniziativa economica e il rispetto per la proprietà privata (questi sì imputabili al solo Governo e Ministero in carica). Ma il pattern potrebbe presto essere ulteriormente riadattato, perché no. Il 2 aprile, al Parlamento europeo, è stata approvata la Relazione sull’attuazione della politica di sicurezza e di difesa comune. Vorrei portare l’attenzione sulla parte di questo lungo testo intitolata «Difesa e società, e preparazione [preparedness] e prontezza [readiness] civile e militare», in cui si affronta il tema della formazione dei cittadini europei ai rischi per la sicurezza del continente. La premessa è agghiacciante per la franchezza con la quale si riduce l’educazione a una forma di indottrinamento o addestramento: si «sottolinea che è necessaria una comprensione più ampia, tra i cittadini dell’UE, delle minacce e dei rischi per la sicurezza al fine di sviluppare una comprensione condivisa e un allineamento delle percezioni delle minacce in tutta Europa e di creare una nozione globale di difesa europea» (art. 133, corsivo mio). Si ribadisce anche «l’importanza cruciale dei cittadini nella preparazione e nella risposta alle crisi, in particolare la resilienza psicologica degli individui e la preparazione delle famiglie» (art. 134, corsivo mio). Ovviamente ci si occupa diffusamente anche dell’educazione in senso stretto, invitando l’UE e i suoi Stati membri a mettere a punto programmi educativi e di sensibilizzazione, in particolare per i giovani, volti a migliorare le conoscenze e a facilitare i dibattiti sulla sicurezza, la difesa e l’importanza delle forze armate, e a rafforzare la resilienza e la preparazione [preparedness] delle società alle sfide in materia di sicurezza, consentendo nel contempo un maggiore controllo e scrutinio pubblico e democratico del settore della difesa (art. 133). Attraverso “l’apertura al territorio” già da tempo le forze armate sono entrate nelle scuole italiane con apposite attività didattiche (una preziosa mappatura è quella fatta dall’Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università). Questo fatto, tra l’altro, la dice lunga sulla presunta urgenza di interventi per la difesa: l’aria era cambiata già da tempo. Quando indicazioni europee come questa, o simili, saranno recepite in Italia, l’educazione civica nel suo essere ormai pura forma burocratica, mezzo mediocre, strumento irresponsabile si presterà perfettamente ad accogliere per mera addizione queste nuove necessità educative. Il video sul «kit di resilienza», allora, tornerà utile come materiale didattico. Insomma: è tutto pronto perché, nella nuova veste anodina del non linguaggio delle élite che ci hanno governato negli ultimi quarant’anni, ritorni nelle scuole la vecchia educazione militare. Dal sito LEPAROLE E LECOSE

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