“Destino
dell'uomo non è abitare un mondo, ma sognarne un altro”. Lo ha scritto
Francesco Biamonti. Non troviamo niente di più adatto per descrivere
la pittura di Gauguin in mostra a Milano.
Lea Mattarella
Paul Gauguin. Il
paradiso terrestre di un artista sempre in fuga
«Amo la Bretagna, in
essa trovo un che di selvaggio, di primitivo. Quando i miei zoccoli
risuonano su questo suolo di granito, sento il suono sordo, opaco e
possente che cerco nella pittura», scriveva Paul Gauguin nel 1889
rivelando che i termini “selvaggio” e “primitivo”
appartengono alla sua opera ancor prima della sua partenza per
Tahiti.
La consapevolezza che per
l’artista francese l’altrove era in fondo dappertutto, purché
lontano da Parigi, è il filo rosso che lega le opere esposte da oggi
e fino al 21 marzo a Milano, al Mudec, nella mostra “Gauguin.
Racconti dal Paradiso” curata da Line Clausen Pedersen e Flemming
Friborg e prodotta da 24 Ore Cultura.
Sono raccolte circa 70
opere, tra dipinti, disegni, incisioni, sculture, di cui la metà
appartiene alla Ny Carlsberg Glyptotek di Copenhagen che conserva una
delle più importanti collezioni al mondo del pittore. L’ ouverture
dell’esposizione è affidata a due autoritratti.
Il primo è datato 1889.
La composizione è scura, l’artista ha uno sguardo che ci
oltrepassa, non incrociando il nostro. Gauguin indossa un pesante
cappotto di lana come se dipingesse nel gelo. Qui Gauguin ha 40 anni,
un passato di viaggiatore, agente di cambio, collezionista. È
cresciuto in Perù, dove il padre giornalista aveva dovuto
rifugiarsi, costretto a lasciare la Francia a causa delle sue idee
repubblicane alla vigilia del colpo di Stato di Luigi Napoleone nel
1849.
Più tardi Gauguin si
imbarca come marinaio su una nave mercantile e fa il giro del mondo.
Tornato in Francia nel 1874, anno della storica mostra degli
impressionisti, presso lo studio del fotografo Nadar, conosce
Pissarro. Inizia così la sua vera avventura pittorica, sebbene già
dal 1871 frequentasse tele e pennelli. Ciò che decide di fare è
superare l’evanescente leggerezza impressionista, tutta libertà di
pennellate.
La sua è una pittura che
ha un peso specifico, un corpo, è solida, costruttiva. Gauguin amava
le superfici, e che fossero il più piatte possibili. Amava
incastonare vaste campiture di colore puro, cercando connessioni
armoniche dove non soltanto i complementari apparissero nella loro
intensità, ma anche accordi più legati, come per esempio certi suoi
stupendi blu, accanto a rossi e viola.
Per essere certo che
tutto apparisse al tempo stesso chiaro e sontuoso, circondava, anzi
chiudeva le sue forme con un segno scuro, bluastro, al modo in cui il
ferro contornava le figure delle vetrate gotiche.
Nel mondo gauguiniano gli
esseri umani appaiono solenni, plastici, come se prosperassero
silenziosamente in una loro classicità esotica. Attratto dalle
filosofie orientali, soprattutto dal buddhismo, l’artista ha infuso
nelle sue immagini femminili un fascinosissimo tasso di malinconia e
di sospensione meditativa.
Se si guarda l’ Autoritratto con il Cristo giallo si capisce anche con che spirito Gauguin esprimesse la sua vocazione. In questo quadro datato tra il 1890 e il 1891 l’artista si sdoppia, anzi si moltiplica. È al centro di una composizione che ha, a sinistra, un suo dipinto e a destra una ceramica. Il primo è il famoso Cristo giallo , al quale l’artista aveva prestato le sue sembianze; la seconda il Vaso autoritratto in forma di grottesca . Il suo volto compare quindi tre volte in un quadro- manifesto: riguarda la fatica dell’artista, crocifisso, incompreso, deformato dal calore del forno che lui stesso paragona alle fiamme dell’inferno, quelle che secondo lui tormentano, detergono e purificano. Eppure, lo vediamo dal suo sguardo determinato, è cosciente di dover andare avanti su quella strada. Gauguin è un uomo in fuga, certo, ma non da se stesso.
Le sue fonti sono varie. Ama Raffaello, si incanta di fronte ai fiamminghi, guarda con interesse Degas, Manet, Puvis de Chavannes, ma anche il Medioevo.
Non lavora dal vero, ma sulla memoria. Suggerisce a Pissarro di passare meno tempo davanti al paesaggio e di stare più in studio perché ha bisogno di rielaborare il mondo attraverso il pensiero.
Uno dei capolavori qui
esposti Mahana no Atua (Giorno di Dio) che è una delle sue tipiche
visioni made in Tahiti, con le fanciulle intente a eseguire l’upa
upa, una danza rituale proibita dalle autorità locali, all’ombra
di un grande idolo, è stato in realtà eseguito nel suo atelier
parigino, tra il primo e il secondo soggiorno in Polinesia (dove
morirà nel 1903). Una delle prime opere realizzate a Tahiti è
questa bellissima Ragazza con fiore del 1891.
Qui la modella nera è
costruita come fosse una figura della ritrattistica rinascimentale su
un fondo giallo su cui sbocciano fiori, che rivela un altro amore di
Gauguin, quello per le stampe giapponesi. C’è forse l’eco di Van
Gogh, lasciato ad Arles dopo un tragico tentativo di lavoro comune.
Ma la cosa certa è che «si tratta di un’arte del tutto nuova. Ed
è mia».
Anche la scultura, tra le
sue mani, come è chiaro dagli esempi in mo-stra, esplorerà qualcosa
di sconosciuto dando vita a opere che sembrano feticci. André
Breton, il capo dei Surrealisti, aveva capito che prima di loro
«Gauguin era stato il solo artista che avesse avuto la
consapevolezza di portare in se stesso un mago».
La Repubblica, 28 ottobre
2015
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