Colgo l’occasione per recuperare un bel pezzo del Corriere della Sera pubblicato lo scorso 6 maggio:
García Lorca insegnò la poesia al ’900
di Roberto Galaverni
Se non tutte, certo molte cose sono iniziate
grazie a Federico García Lorca. Lo ha sottolineato a più riprese Carlo Bo, il
più importante e autorevole mediatore della poesia spagnola in Italia. «Si deve
dire — scriveva ad esempio Bo — che è stato grazie alla tragica fine del poeta
che la letteratura spagnola ha potuto occupare il posto che le spettava
nell’ambito della letteratura europea del Novecento». È infatti attraverso il
varco aperto dal cuneo incandescente della figura e della poesia di Lorca,
eletto a simbolo della cultura spagnola mortificata dal franchismo, che i
maggiori poeti del Novecento spagnolo hanno trovato un’accoglienza e una
collocazione estremamente favorevoli: Antonio Machado, Juan Ramón Jiménez,
Jorge Guillén, Pedro Salinas, Rafael Alberti, Luis Cernuda, Gerardo Diego,
Dámaso Alonso, Vicente Aleixandre… Sembrano i nomi di un’incredibile formazione
di poeti. Il «rinascimento poetico» di Spagna, così lo ha definito Bo. Certo si
tratta di un Novecento poetico tra i più rilevanti d’Europa; un Novecento nella
sua prima parte addirittura leggendario, tanto più che con l’inizio della
guerra civile nel 1936 (lo stesso anno della fucilazione di Lorca) e il
successivo avvento del franchismo, la crescita, il rigoglio di quella
stupefacente stagione di poesia ha subìto una cesura molto violenta.
La ricezione europea e in particolare italiana
della poesia spagnola contemporanea è nata così sotto il segno duplice di un
mito, quello dell’immagine di una patria vera o autentica la cui ricerca ha impegnato
numerosi dei suoi stessi protagonisti, e insieme di una vicenda drammatica.
Quella poesia, insomma, fu percepita e vissuta come un sogno che strada facendo
si tingeva dei colori di una tragedia. Del resto, quando verso la fine degli
anni Trenta (la prima raccolta di poesie di Lorca esce da noi nel 1940) e tanto
più poi nel corso degli anni Quaranta i poeti spagnoli cominciarono a essere
tradotti in misura consistente, Spagna e Italia potevano riconoscersi
protagoniste di vicende molto vicine, ma come a parti invertite, trovandosi la
prima nella situazione di una dittatura che era da poco cominciata, la seconda
di una che si sarebbe di lì a poco conclusa.
Se si pensa ad esempio alla poesia dell’altra
grande colonna del Novecento poetico spagnolo, ossia Antonio Machado, è vero
allora che la visione delle campagne di Castiglia che fiorisce dalla lettura
dei suoi versi — la natura, il paesaggio, gli uomini, i riti del lavoro, la
bellezza e la durezza del vivere, la tenerezza, la malinconia — non poteva
sottrarsi al contrasto con la storia presente, la percezione del passato dalla
consapevolezza del destino che per tanti si sarebbe compiuto. «È la terra di
Soria arida e fredda. / Nelle colline e nelle sierre calve, / nei verdi prati e
poggi cenerini, / passa la primavera / e lascia in mezzo all’erbe profumate /
le sue minute bianche margherite. / La terra non rinasce, i campi sognano»…
(la traduzione è di Oreste Macrì). Questa specie di asimmetria ha segnato nel
profondo la ricezione della poesia spagnola in Italia, con effetti destinati a
durare ben oltre le sue due prime grandi generazioni novecentesche (quella del
’98 e quella del ’27). E forse è vero che al di là dei partiti presi ideologici
e delle tante forzature indebite, il senso più pieno della poesia spagnola
contemporanea e delle screziature d’oro della sua lingua è possibile avvertirlo
tenendo sempre presente la zona d’ombra della sua stessa storia, prima nella
forma di un presentimento, quindi di un presente che sembrava interminabile,
infine di un retaggio sempre da ripensare. Basta guardare, passando d’un balzo
alle generazioni più giovani, alla cosiddetta «poesia dell’esperienza», che fa
capo anzitutto a Luis Garcia Montero e che si fonda appunto sul richiamo alla
responsabilità storica e civile, riportata però dentro alla misura dell’uomo
comune e della vita di tutti giorni, lì dove la dimensione corale (il «noi»)
non è più quella di una cerchia poetica chiusa ma dei semplici uomini in
quanto tali.
Si riconosce giustamente che il merito forse più
profondo di una riuscita traduzione poetica è quello di apportare una nuova
linfa vitale alla lingua di approdo, se non altro risvegliandone alcune
potenzialità latenti ma che giacevano come assopite. La prima grande ondata della
poesia spagnola è arrivata in Italia per merito di traduttori e poeti in gran
parte ascrivibili a quella sorta di surrealismo senza rivoluzione che è stato
il nostro ermetismo. Mi chiedo allora se proprio la lingua di Lorca, di
Machado e dei loro più o meno vicini compagni di strada non abbia avuto una
certa importanza nel rendere più poroso, più carnale, più disponibile ai sensi,
un linguaggio altrimenti indirizzato verso una specializzazione poetica
altamente astrattiva; un linguaggio più vicino al cristallo piuttosto che al
sangue e alla febbre della passione. Torno allora di nuovo a Lorca, nella
traduzione davvero notevole di Carlo Bo. Questi sono i versi iniziali della Sposa
infedele: «E io che me la portai al fiume / credendo che fosse una
ragazza, / invece aveva marito. / Fu la notte di San Giacomo / e quasi per
obbligo. / Si spensero i fanali / e s’accesero i grilli. / Alle ultime svolte /
toccai i suoi seni addormentati / e di colpo mi s’aprirono / come rami di
giacinti. / L’amido della sua gonnellina / suonava alle mie orecchie / come un
pezzo di seta / lacerato da dieci coltelli».. Sembra di trovarsi già nel più
pieno e maturo secondo Novecento italiano, quello di una poesia capace di unire
percezioni, corporeità e sensualità, intelligenza, narrazione, distanziamento e
incanto. Se tutto questo fosse vero, si tratterebbe di un motivo in più, un
motivo intimo e sostanziale come solo le questioni di lingua possono esserlo,
per rileggere una corolla di poeti che brilla comunque di luce propria, una
luce calda e vera.
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