11 giugno 2012

Federico Garcia Lorca & Leonard Cohen






Colgo l’occasione per recuperare un bel pezzo del Corriere della Sera pubblicato lo scorso 6 maggio:
García Lorca insegnò la poesia al ’900
di Roberto Galaverni

Se non tutte, certo molte cose sono iniziate grazie a Federico García Lorca. Lo ha sottolineato a più riprese Carlo Bo, il più importante e autorevole mediatore della poesia spagnola in Italia. «Si deve dire — scriveva ad esempio Bo — che è stato grazie alla tragica fine del poeta che la letteratura spagnola ha potuto occupare il posto che le spettava nell’ambito della letteratura europea del Novecento». È infatti attraverso il varco aperto dal cu­neo incandescente della figura e della poesia di Lorca, eletto a simbolo della cultura spagnola mortificata dal franchismo, che i maggiori poeti del Novecento spagnolo hanno trovato un’accoglienza e una collocazione estremamente favorevo­li: Antonio Machado, Juan Ramón Jiménez, Jorge Guillén, Pedro Salinas, Rafael Alberti, Luis Cernuda, Gerardo Diego, Dámaso Alonso, Vicente Aleixandre… Sembrano i nomi di un’incredibile formazione di poeti. Il «rinascimento poetico» di Spagna, così lo ha definito Bo. Certo si tratta di un Novecento poetico tra i più rilevanti d’Europa; un Novecento nella sua prima parte addirittura leggendario, tanto più che con l’inizio della guerra civile nel 1936 (lo stesso anno della fucilazione di Lorca) e il successivo avvento del franchismo, la crescita, il rigoglio di quella stupefacente stagione di poesia ha subìto una cesura molto violenta.
La ricezione europea e in particolare italiana della poesia spagnola contemporanea è nata così sotto il segno duplice di un mito, quello dell’immagine di una pa­tria vera o autentica la cui ricerca ha im­pegnato numerosi dei suoi stessi protago­nisti, e insieme di una vicenda drammatica. Quella poesia, insomma, fu percepita e vissuta come un sogno che strada facendo si tingeva dei colori di una tragedia. Del resto, quando verso la fine degli anni Trenta (la prima raccolta di poesie di Lorca esce da noi nel 1940) e tanto più poi nel corso degli anni Quaranta i poeti spa­gnoli cominciarono a essere tradotti in misura consistente, Spagna e Italia potevano riconoscersi protagoniste di vicende molto vicine, ma come a parti inverti­te, trovandosi la prima nella situazione di una dittatura che era da poco cominciata, la seconda di una che si sarebbe di lì a poco conclusa.
Se si pensa ad esempio alla poesia dell’altra grande colonna del Novecento poetico spagnolo, ossia Antonio Machado, è vero allora che la visione delle campagne di Castiglia che fiorisce dalla lettura dei suoi versi — la natura, il paesaggio, gli uomini, i riti del lavoro, la bellezza e la durezza del vivere, la tenerezza, la malinconia — non poteva sottrarsi al contrasto con la storia presente, la percezione del passato dalla consapevolezza del destino che per tanti si sarebbe compiuto. «È la terra di Soria arida e fredda. / Nelle colline e nelle sierre calve, / nei verdi prati e poggi cenerini, / passa la primavera / e lascia in mezzo all’erbe profumate / le sue minute bianche margherite. / La ter­ra non rinasce, i campi sognano»… (la traduzione è di Oreste Macrì). Questa specie di asimmetria ha segnato nel profondo la ricezione della poesia spagnola in Italia, con effetti destinati a durare ben oltre le sue due prime grandi generazioni nove­centesche (quella del ’98 e quella del ’27). E forse è vero che al di là dei partiti presi ideologici e delle tante forzature indebite, il senso più pieno della poesia spagno­la contemporanea e delle screziature d’oro della sua lingua è possibile avvertir­lo tenendo sempre presente la zona d’om­bra della sua stessa storia, prima nella for­ma di un presentimento, quindi di un presente che sembrava interminabile, infine di un retaggio sempre da ripensare. Basta guardare, passando d’un balzo alle generazioni più giovani, alla cosiddetta «poesia dell’esperienza», che fa capo anzitutto a Luis Garcia Montero e che si fon­da appunto sul richiamo alla responsabi­lità storica e civile, riportata però dentro alla misura dell’uomo comune e della vi­ta di tutti giorni, lì dove la dimensione corale (il «noi») non è più quella di una cer­chia poetica chiusa ma dei semplici uo­mini in quanto tali.
Si riconosce giustamente che il merito forse più profondo di una riuscita tradu­zione poetica è quello di apportare una nuova linfa vitale alla lingua di approdo, se non altro risvegliandone alcune potenzialità latenti ma che giacevano come assopite. La prima grande ondata del­la poesia spagnola è arrivata in Italia per merito di traduttori e poeti in gran parte ascrivibili a quella sorta di surrealismo senza rivoluzione che è stato il nostro er­metismo. Mi chiedo allora se proprio la lingua di Lorca, di Machado e dei loro più o meno vicini compagni di strada non abbia avuto una certa importanza nel rendere più poroso, più carnale, più disponibile ai sensi, un linguaggio altri­menti indirizzato verso una specializzazione poetica altamente astrattiva; un linguaggio più vicino al cristallo piuttosto che al sangue e alla febbre della passio­ne. Torno allora di nuovo a Lorca, nella traduzione davvero notevole di Carlo Bo. Questi sono i versi iniziali della Sposa infedele: «E io che me la portai al fiume / credendo che fosse una ragazza, / invece aveva marito. / Fu la notte di San Giacomo / e quasi per obbligo. / Si spensero i fanali / e s’accesero i grilli. / Alle ultime svolte / toccai i suoi seni addormentati / e di colpo mi s’aprirono / come rami di giacinti. / L’amido della sua gonnellina / suonava alle mie orecchie / come un pezzo di seta / lacerato da dieci coltelli».. Sembra di trovarsi già nel più pieno e maturo secondo Novecento italiano, quello di una poesia capace di unire percezioni, corporeità e sensualità, intelligenza, narrazione, distanziamento e incanto. Se tut­to questo fosse vero, si tratterebbe di un motivo in più, un motivo intimo e sostan­ziale come solo le questioni di lingua possono esserlo, per rileggere una corolla di poeti che brilla comunque di luce propria, una luce calda e vera.

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