19 giugno 2012

MITI SEMPRE VIVI



I miti dell’antica Grecia rivivono ogni anno  nella splendida cornice del teatro greco di Siracusa. In questi giorni  tornano in scena Le baccanti di Euripide e il Prometeo di Eschilo. E il pubblico accorre sempre numeroso ad ogni spettacolo
Per riflettere insieme sulle ragioni che rendono ancora attuali testi scritti  più di 2500 anni  fa riproponiamo un articolo di  Eva Cantarella pubblicato sul Corriere della sera domenica scorsa.

Oreste, Ulisse, Antigone: quei modelli che orientano ancora il nostro presente


Parlare dell'eredità che i greci ci hanno lasciato è il minimo che si possa fare, in giorni come questi. Quali che siano le condizioni, gli errori e le responsabilità di ciascuno di noi, sarebbe non solo ingiusto ma profondamente sbagliato dimenticare che senza quello che i greci ci hanno insegnato noi non saremmo quello che siamo. Il che non significa, sia ben chiaro, tornare a mitizzarli, come per troppo tempo si è fatto parlando dei loro presunti valori universali e della altrettanto presunta eternità di questi. Quel che dobbiamo fare, insomma, non è tornare a parlare della Grecia a proposito della quale, per intendersi, i libri di scuola parlano ancora, talvolta, di «miracolo greco». Di quella Grecia mitizzata la storiografia da alcuni decenni ha dimostrato l'irrealtà. È a un'altra Grecia che ci lega il nostro debito, quella vera, finalmente sottratta al mito, lontana e diversa da noi; ma nella quale affondano, tuttavia, alcune tra le più importanti conquiste del nostro pensiero, e le origini delle nostre istituzioni politiche e giuridiche. Come stanno a dimostrarci — tra l'altro — i loro miti. A cominciare da quello messo in scena da Eschilo, nel 458 a. C.: il mito di Oreste.

Agamennone, racconta Eschilo nell'Orestea, torna vittorioso dalla guerra di Troia. Sua moglie Clitennestra, diventata nel frattempo l'amante del cognato Egisto, con la complicità di questo lo uccide. A indurla a farlo, oltre alla smania di potere, sta il fatto che Agamennone ha ucciso la figlia Ifigenia, sacrificandola agli dei per ottenere un vento favorevole alla navigazione verso Troia, e tornando dalla guerra ha portato con sé una concubina, che Clitennestra uccide insieme a lui. Ma vendetta chiama vendetta, e Oreste, figlio di Clitennestra e di Agamennone, vendica il padre uccidendo la madre. Ed ecco le Erinni, le antiche dee della vendetta, esigere altro sangue in cambio del sangue di Clitennestra. Gli implacabili mostri, che stillano sangue dagli occhi, perseguitano Oreste, ovunque egli vada. Sino al momento in cui interviene Atena: a risolvere la questione, dice la dea, istituirò un tribunale, nel quale siederanno come giudici i migliori cittadini, estranei ai fatti e imparziali, che giudicheranno dopo aver accertato i fatti, valutando colpe e responsabilità. Il mondo della vendetta è finito. La narrazione mitica celebra l'avvenimento che ha segnato una tappa fondamentale della storia non solo di Atene, ma della nostra civiltà giuridica: non esiste responsabilità senza colpa regolarmente accertata da un organo giudicante.

Ma dal mito non vengono solo insegnamenti fondamentali come questo. In esso troviamo anche degli archetipi che ci accompagnano ancora, nei quali riconosciamo le motivazioni dei nostri comportamenti e le caratteristiche della nostra personalità.

Prendiamo ad esempio il mito di Ulisse. Itaca, come ben noto, è stata spesso intesa come una metafora: «Se cerchi la tua strada verso Itaca — scrive Kavafis, in una bellissima poesia — spera in un viaggio lungo,/avventuroso e pieno di scoperte./ I Lestrigoni e i Ciclopi non temerli/non temere l'ira di Poseidone./…Non hai bisogno di affrettare il corso/fa che il tuo viaggio duri anni, bellissimi,/e che tu arrivi all'isola ormai vecchio,/ricco di insegnamenti appresi in via…». Non è volontà di un dio (come fu, per Ulisse, l'ira di Poseidone), a determinare il tuo viaggio: sei tu l'artefice della tua sorte — dice Kavafis — sei tu il padrone della tua vita. Quanti sono, oggi, gli Ulisse che affrontano pericoli apparentemente insuperabili, come fece Ulisse affrontando i Lestrigoni e i Ciclopi? Quanti sono coloro che si avventurano verso incontri con un inconoscibile che invece si può conoscere? Come Ulisse entrò nell'Ade, il mondo dei morti, noi, oggi, ci confrontiamo con le conquiste e i misteri delle scienze e della tecnologia. Ulisse è tra noi, Ulisse siamo noi, possiamo incontrarlo. Esattamente come incontriamo Antigone o Creonte, i protagonisti della tragedia più bella di Sofocle e, forse, di tutte le tragedie greche.

Nata dal matrimonio incestuoso tra Edipo e sua madre Giocasta, dopo la tragica fine dei genitori Antigone vive a Tebe, governata dallo zio Creonte, fratello di sua madre, ed è fidanzata con il figlio di questi, Emone. I suoi due fratelli, Eteocle e Polinice, in lotta per il potere sulla città, si sono affrontati in battaglia e sono morti: Eteocle difendendo una delle sette porte della città, Polinice dandole l'assalto. E Creonte decreta: chi oserà dar sepoltura al suo cadavere sarà lapidato. Ma Antigone viola il divieto, per lei il dovere di dare sepoltura al fratello è più forte di ogni legge umana. E quando viene scoperta difende le sue ragioni di fronte a Creonte, che sostiene le proprie. Creonte afferma il dovere, anche per lui, di rispettare le «leggi scritte», che gli impongono di metterla a morte. Ma a queste leggi, dettate dal potere politico, Antigone oppone quelle «non scritte», vale a dire le regole etiche da lei sentite come imprescindibili.

Sono due sistemi di regole diverse: qui sta il dilemma tragico. Nessuno dei due contendenti ha ragione, nessuno dei due ha torto. O meglio: ambedue hanno ragione, ambedue hanno torto. Creonte è un politico con un forte senso dello Stato, Antigone non è non un'anarchica, ma rifiuta di rispettare una regola a suo giudizio senza fondamento etico. La tragedia si conclude, inevitabilmente, con la fine di ambedue i contendenti. Antigone, condannata a morire, si impicca. Il suo fidanzato, Emone, si uccide sul cadavere di lei. Alla notizia della morte del figlio si uccide anche Euridice, la moglie di Creonte: un uomo finito, ormai, moralmente annientato. Una storia, greca, anch'essa presente fra noi: la morte fisica di Antigone e quella morale di Creonte sono la fine inevitabile del conflitto che si ripropone quando un individuo, un gruppo, un popolo non riconoscono il fondamento etico di una regola di diritto, anche in un sistema legittimo e «giusto». Anche per questo i greci sono presenti tra noi, ecco perché senza di loro saremmo diversi. 

Eva Cantarella, Il Corriere della sera 17 giugno 2012


2 commenti:

  1. L' analisi di Eva Cantarella, lucida come sempre e capace come pochi di trascinare il presente nel passato e poi di ritrascinarlo all'oggi con la traccia indelebile dell'antico, è una pagina di autentica saggezza storica. Perchè è vero che le guerre continuano ancora, è vero che lasciano sul campo morte e distruzione anche oggi, perchè forse è vero, parafrando un po' Hobbes e un po' Freud, che l'uomo è lupo per l'altro uomo e Thanathos è istinto di morte, naturale come l'Eros anche se ad esso contrapposto. Tuttavia, se nella lotta tra i due si consuma forse la nostra esistenza, è nella società che si gioca la partita più difficile: il rispetto per l'uomo che Antigone continua a gridare, inascoltata dai più, viene messo al servizio della "ragion di stato". Alla sordità si aggiunge il silenzio, colpevoli entrambi di avere smarrito l'uomo. E' dunque alla democrazia, che del rispetto dell'uomo ha fatto la sua bandiera, che deve tornare la parola "giusta", quella che sa farsi ascoltare oggi proprio come nella polis di ieri. "Non dalla ricchezza nasce la virtù, ma dalla virtù deriva, piuttosto, ogni ricchezza e ogni bene, per l'individuo come per gli stati" (Apologia di Socrate, Platone)

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