I miti dell’antica
Grecia rivivono ogni anno nella
splendida cornice del teatro greco di Siracusa. In questi giorni tornano in scena Le baccanti di Euripide e il Prometeo
di Eschilo. E il pubblico accorre sempre numeroso ad ogni spettacolo
Per riflettere
insieme sulle ragioni che rendono ancora attuali testi scritti più di 2500 anni fa riproponiamo un articolo di Eva Cantarella pubblicato sul Corriere della
sera domenica scorsa.
Oreste, Ulisse, Antigone: quei modelli che orientano ancora il nostro
presente
Parlare dell'eredità che i greci ci hanno lasciato è il minimo che si possa
fare, in giorni come questi. Quali che siano le condizioni, gli errori e le
responsabilità di ciascuno di noi, sarebbe non solo ingiusto ma profondamente
sbagliato dimenticare che senza quello che i greci ci hanno insegnato noi non
saremmo quello che siamo. Il che non significa, sia ben chiaro, tornare a
mitizzarli, come per troppo tempo si è fatto parlando dei loro presunti valori
universali e della altrettanto presunta eternità di questi. Quel che dobbiamo fare,
insomma, non è tornare a parlare della Grecia a proposito della quale, per
intendersi, i libri di scuola parlano ancora, talvolta, di «miracolo greco». Di
quella Grecia mitizzata la storiografia da alcuni decenni ha dimostrato
l'irrealtà. È a un'altra Grecia che ci lega il nostro debito, quella vera,
finalmente sottratta al mito, lontana e diversa da noi; ma nella quale
affondano, tuttavia, alcune tra le più importanti conquiste del nostro
pensiero, e le origini delle nostre istituzioni politiche e giuridiche. Come
stanno a dimostrarci — tra l'altro — i loro miti. A cominciare da quello messo
in scena da Eschilo, nel 458 a. C.: il mito di Oreste.
Agamennone, racconta Eschilo nell'Orestea, torna vittorioso dalla guerra di
Troia. Sua moglie Clitennestra, diventata nel frattempo l'amante del cognato
Egisto, con la complicità di questo lo uccide. A indurla a farlo, oltre alla
smania di potere, sta il fatto che Agamennone ha ucciso la figlia Ifigenia,
sacrificandola agli dei per ottenere un vento favorevole alla navigazione verso
Troia, e tornando dalla guerra ha portato con sé una concubina, che
Clitennestra uccide insieme a lui. Ma vendetta chiama vendetta, e Oreste,
figlio di Clitennestra e di Agamennone, vendica il padre uccidendo la madre. Ed
ecco le Erinni, le antiche dee della vendetta, esigere altro sangue in cambio
del sangue di Clitennestra. Gli implacabili mostri, che stillano sangue dagli
occhi, perseguitano Oreste, ovunque egli vada. Sino al momento in cui
interviene Atena: a risolvere la questione, dice la dea, istituirò un
tribunale, nel quale siederanno come giudici i migliori cittadini, estranei ai
fatti e imparziali, che giudicheranno dopo aver accertato i fatti, valutando
colpe e responsabilità. Il mondo della vendetta è finito. La narrazione mitica
celebra l'avvenimento che ha segnato una tappa fondamentale della storia non
solo di Atene, ma della nostra civiltà giuridica: non esiste responsabilità
senza colpa regolarmente accertata da un organo giudicante.
Ma dal mito non vengono solo insegnamenti fondamentali come questo. In esso
troviamo anche degli archetipi che ci accompagnano ancora, nei quali
riconosciamo le motivazioni dei nostri comportamenti e le caratteristiche della
nostra personalità.
Prendiamo ad esempio il mito di Ulisse. Itaca, come ben noto, è stata
spesso intesa come una metafora: «Se cerchi la tua strada verso Itaca — scrive
Kavafis, in una bellissima poesia — spera in un viaggio lungo,/avventuroso e
pieno di scoperte./ I Lestrigoni e i Ciclopi non temerli/non temere l'ira di
Poseidone./…Non hai bisogno di affrettare il corso/fa che il tuo viaggio duri
anni, bellissimi,/e che tu arrivi all'isola ormai vecchio,/ricco di
insegnamenti appresi in via…». Non è volontà di un dio (come fu, per Ulisse,
l'ira di Poseidone), a determinare il tuo viaggio: sei tu l'artefice della tua
sorte — dice Kavafis — sei tu il padrone della tua vita. Quanti sono, oggi, gli
Ulisse che affrontano pericoli apparentemente insuperabili, come fece Ulisse
affrontando i Lestrigoni e i Ciclopi? Quanti sono coloro che si avventurano
verso incontri con un inconoscibile che invece si può conoscere? Come Ulisse
entrò nell'Ade, il mondo dei morti, noi, oggi, ci confrontiamo con le conquiste
e i misteri delle scienze e della tecnologia. Ulisse è tra noi, Ulisse siamo
noi, possiamo incontrarlo. Esattamente come incontriamo Antigone o Creonte, i
protagonisti della tragedia più bella di Sofocle e, forse, di tutte le tragedie
greche.
Nata dal matrimonio incestuoso tra Edipo e sua madre Giocasta, dopo la
tragica fine dei genitori Antigone vive a Tebe, governata dallo zio Creonte,
fratello di sua madre, ed è fidanzata con il figlio di questi, Emone. I suoi
due fratelli, Eteocle e Polinice, in lotta per il potere sulla città, si sono
affrontati in battaglia e sono morti: Eteocle difendendo una delle sette porte
della città, Polinice dandole l'assalto. E Creonte decreta: chi oserà dar
sepoltura al suo cadavere sarà lapidato. Ma Antigone viola il divieto, per lei
il dovere di dare sepoltura al fratello è più forte di ogni legge umana. E
quando viene scoperta difende le sue ragioni di fronte a Creonte, che sostiene
le proprie. Creonte afferma il dovere, anche per lui, di rispettare le «leggi
scritte», che gli impongono di metterla a morte. Ma a queste leggi, dettate dal
potere politico, Antigone oppone quelle «non scritte», vale a dire le regole
etiche da lei sentite come imprescindibili.
Sono due sistemi di regole diverse: qui sta il dilemma tragico. Nessuno dei
due contendenti ha ragione, nessuno dei due ha torto. O meglio: ambedue hanno
ragione, ambedue hanno torto. Creonte è un politico con un forte senso dello
Stato, Antigone non è non un'anarchica, ma rifiuta di rispettare una regola a
suo giudizio senza fondamento etico. La tragedia si conclude, inevitabilmente,
con la fine di ambedue i contendenti. Antigone, condannata a morire, si
impicca. Il suo fidanzato, Emone, si uccide sul cadavere di lei. Alla notizia
della morte del figlio si uccide anche Euridice, la moglie di Creonte: un uomo
finito, ormai, moralmente annientato. Una storia, greca, anch'essa presente fra
noi: la morte fisica di Antigone e quella morale di Creonte sono la fine
inevitabile del conflitto che si ripropone quando un individuo, un gruppo, un
popolo non riconoscono il fondamento etico di una regola di diritto, anche in
un sistema legittimo e «giusto». Anche per questo i greci sono presenti tra
noi, ecco perché senza di loro saremmo diversi.
Eva Cantarella, Il Corriere della sera 17 giugno
2012
L' analisi di Eva Cantarella, lucida come sempre e capace come pochi di trascinare il presente nel passato e poi di ritrascinarlo all'oggi con la traccia indelebile dell'antico, è una pagina di autentica saggezza storica. Perchè è vero che le guerre continuano ancora, è vero che lasciano sul campo morte e distruzione anche oggi, perchè forse è vero, parafrando un po' Hobbes e un po' Freud, che l'uomo è lupo per l'altro uomo e Thanathos è istinto di morte, naturale come l'Eros anche se ad esso contrapposto. Tuttavia, se nella lotta tra i due si consuma forse la nostra esistenza, è nella società che si gioca la partita più difficile: il rispetto per l'uomo che Antigone continua a gridare, inascoltata dai più, viene messo al servizio della "ragion di stato". Alla sordità si aggiunge il silenzio, colpevoli entrambi di avere smarrito l'uomo. E' dunque alla democrazia, che del rispetto dell'uomo ha fatto la sua bandiera, che deve tornare la parola "giusta", quella che sa farsi ascoltare oggi proprio come nella polis di ieri. "Non dalla ricchezza nasce la virtù, ma dalla virtù deriva, piuttosto, ogni ricchezza e ogni bene, per l'individuo come per gli stati" (Apologia di Socrate, Platone)
RispondiEliminaGrazie per questo bellissimo commento
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