20 giugno 2012

QUESTIONI DI CLASSE...Gallino, Zanotelli e altri


       Finalmente anche L’Unità si accorge del libro di Luciano Gallino su cui ci siamo soffermati lo scorso otto maggio. La cosa più sorprendente è  che l'invito al conflitto sociale compaia oggi sul giornale - immemore del suo fondatore - che,  negli ultimi anni, ha rappresentato soprattutto gli interessi dei ceti dominanti.
       Comunque, anche a costo di ripeterci, riproduciamo l’articolo di Bruno Gravagnuolo, convinti come siamo del fatto che i conflitti di classe sono fisiologici in ogni società divisa in classi. Il problema è la coscienza che i protagonisti del conflitto hanno dei loro interessi. Oggi questa coscienza sembra essere patrimonio esclusivo delle classi dominanti, mentre i lavoratori dipendenti, sempre più divisi e frammentati,  paiono aver perso la consapevolezza della propria condizione e del proprio valore.

Bruno Gravagnuolo: Lotta di classe, forti contro deboli. In un libro-intervista Luciano Gallino spiega perché il basso si è disgregato

Dagli anni 80 la lotta che era stata condotta dal basso per migliorare il proprio destino ha ceduto il posto a una lotta condotta dall'alto per recuperare i privilegi, i profitti e soprattutto il potere che erano stati in qualche misura erosi nel trentennio precedente. Questo è il mondo del lavoro nel XXI secolo.

Contrordine: la lotta di classe esiste ancora, anzi esiste più di prima. Solo che a farla sono i più forti contro i più deboli, mentre questi ultimi non sono neanche in grado di contarsi e di autoriconoscersi e perciò la subiscono. Non si tratta di slogan «vetero-marxisti», ma di una notizia vera e propria, corredata da un’analisi che mette capo a una tesi di sociologia globale. E a darci la notizia con l’analisi, è uno degli studiosi di relazioni industriali più autorevoli in Italia, Luciano Gallino, conoscitore delle tecnologie moderne, e alieno dalle chiacchiere, specie da quelle a lungo propinateci su «post-industriale», «fine del lavoro» e «fine delle classi». Chi voglia andare dentro la notizia deve leggere l’ultimo libro-intervista di Gallino, a cura di Paola Borgna, sociologa a Torino: La lotta di classe. Dopo la lotta di classe (pagine 213, euro, 12,00, Laterza). Che prende le mosse dal luogo comune, egemone dagli anni 80 anche su una parte della sinistra: dal «fatto» che le classi sarebbero scomparse. Quel fatto è falso, è un «fattoide» illusorio. Perché i numeri globali di Gallino parlano chiaro. In Europa e in America gli operai come produttori di merci e capitale costituiscono almeno un terzo della forza lavoro occupata (in Italia sono circa 7milioni e mezzo di unità, su 19 milioni di lavoratori dipendenti con 5 milioni di salariati dell’industria).

Nel mondo poi c’è un proletariato industriale che sgobba e vive nelle fabbriche pari a circa un miliardo e trecento milioni di persone. Senza omettere, allargando lo sguardo, che due miliardi di persone nel mondo vivono con meno di due dollari al giorno. Contestualmente però, secondo una ricerca del Credit Suisse, nel 2010 lo 0,5% della popolazione mondiale adulta (24 milioni di persone) deteneva il 35% della ricchezza totale, pari a 69 trilioni di dollari. Mentre il 68% possedeva solo il 4,2% del totale della ricchezza mondiale, poco più di 8 trilioni di dollari. E laddove negli Usa nel 2008 l’1% della popolazione percepiva il 23% del reddito nazionale, in Italia in parallelo il reddito percepito dal «decimo» più benestante equivaleva in quell’anno a 10-11 volte la quota percepita dal decimo di famiglie col reddito più basso.

Oggi le cose vanno molto peggio. E sono solo assaggi di statistiche. Ma quel che indicano è chiaro: l’approfondimento delle differenza di classe. Dove l’impoverimento relativo che include qualche incremento verso l’alto coincide con l’impoverimento assoluto, tanto grande è la forbice tra i poli. E senza dire che quella forbice regala una vita e un «lavoro» infernale ai poveri. Altro fattore segnalato da Gallino: l’immenso trasferimento di risorse dal basso verso l’alto negli ultimi decenni, con spoliazione dei salari a vantaggio di rendite e profitti e impoverimento del ceto medio nel fuoco delle turbolenze finanziarie. E qui, ulteriore batteria di dati e una domanda: che succede nel periodo 1976-2006, secondo l’Ocse? Succede che, nei 15 paesi più ricchi di quell’area, l’incidenza dei redditi da lavoro sul Pil (compreso il reddito degli autonomi calcolato come se gli autonomi ricevessero la stessa paga dei salariati) è calata di dieci punti percentuali, dal 68% al 58%. E in Italia il calo ha toccato i 15 punti, precipitando al 53%. E se si va a vedere certe «curve», scopriremo che in Italia alla fine degli anni 80 le entrate fiscali Irpef da lavoro dipendente erano il 40% del totale, e quelle del lavoro autonomo erano pari al 38%. Al presente invece quel 40% è diventato 60%, mentre l’apporto Irpef del lavoro autonomo è sceso al 10%! Il restante delle tasse lo pagano i pensionati, che per quattro quinti sono ex lavoratori dipendenti.

Quel che è accaduta allora è stata una gigantesca lotta di classe, dall’alto, che ha impoverito e disgregato il basso, privandolo di ogni capacità di resistenza. Come? Premiando le rendite e l’evasione. Privatizzando e riducendo le prestazioni di Welfare. Nutrendo le banche, alle quali tra il 2007 e oggi sono state erogati dagli stati europei tre trilioni di euro, a premio dei titoli tossici smerciati. E poi: distruggendo le conquiste del lavoro fino a ridurlo a merce precaria e malpagata. Il tutto in buona coscienza e all’insegna di un Mantra. Questo: il mercato globale alloca ottimamente risorse e investimenti, elevando per tutti le opportunità. Al contrario ci siamo ritrovati con milioni di disoccupati, debiti sovrani accresciuti ed esportazioni di capitali e lavoro fuori dall’area euro. Con merci poi importate e create a sottocosto, i due terzi delle quali, nota Gallino, prodotte da corporation europee e americane. È il Capitale occidentale che fa concorrenza a se stesso. Altro che il pungolo della concorrenza delle tigri più giovani! Del resto la metà delle merci importate in Europa è euro-americano e non cinese. Ne deriva un capitalismo che per un verso abbassa i salari e aumenta la «metrica del lavoro», schiacciando il corpo e la mente dei precari alla catena molto più che al tempo fordista. E per l’altro entra in crisi di realizzo e investe in finanza. Per ristrutturarsi o spuntare alti rendimenti muovendo enormi masse di denaro. Masse di «fondi» con dentro i risparmi dei lavoratori, trascinati a investire contro se stessi: contro i loro posti di lavoro. E contro i debiti sovrani dei loro paesi, oggetti di speculazione e gonfiati da evasione aiuti a banche e a industrie che delocalizzano. Come invertire la rotta? Con la lotta di classe, visto che le classi esistono anche se precariato e «flessibilità» le ha rese «invisibili».

Insomma per Gallino, occorrono sinistra, partiti, corpi intermedi. Per dare forma non distruttiva al capitalismo e farlo funzionare, con redistribuzioni e politiche industriali. Dunque: scoraggiare le delocalizzazioni, spingere in alto i salari in Europa e fuori, tassare le rendite. E colpire magari l’arbitrio privatistico del «rating». Quello che prima incoraggia le speculazioni e poi spinge verso alti tassi di interessi, col ricatto del default. Ma tutto questo per Gallino, va fatto prima che populismo e protesta si alleino con finanza e tecnici, spingendo i poveri ancora più in basso. E prima che una crisi distruttiva del capitalismo ci sospinga verso forme autoritarie. Già, la lotta di classe può salvare il mondo e le anime. Purché stavolta dal basso contro l’alto.

(Da: L'Unità del 19 giugno 2012)

P.S. :
Raccolgo l’invito di Grazia a leggere l’articolo di Luciano Gallino, pubblicato ieri su La Repubblica, che auspica un new deal. Ma mi pare utile riflettere anche sugli interventi di Alex Zanotelli  e di Franco Arminio che  sollecitano un cambiamento ancora più radicale.


LUCIANO GALLINO:
 
Di fronte a un’emergenza che si riassume in quattro milioni di disoccupati e altrettanti di precari, con una marcata tendenza al peggioramento, qualsiasi intervento in tema di occupazione dovrebbe presentare una serie di caratteristiche quali: creare in breve tempo il maggior numero di posti di lavoro; dare priorità alle fasce sociali più colpite, poiché un indicatore negativo che segna il 10 per cento per alcuni può toccare il doppio o il triplo per altri; privilegiare attività ad alta intensità di lavoro; indirizzare i nuovi occupati verso settori di pubblica utilità ed alta priorità, tipo, visto quel che succede, la messa in sicurezza antisismica degli edifici.
Gli interventi finora previsti in questo campo dal governo non presentano nessuna di tali caratteristiche. Dal lato della spesa si pensa ancora una volta a grandi opere, che richiedono anni prima di vedere assunto un solo lavoratore, e in ogni caso ne occupano assai pochi in rapporto al capitale fisso impiegato. Dal lato degli incentivi fiscali, tipo i 10.000 euro di sgravi promessi alle imprese per ogni giovane che assumono, si tratta di vetusti incentivi a pioggia: invece di piantare un albero qui e ora, si irrora un campo sterminato sperando che in futuro spunti non si sa dove qualcosa di simile a un albero.
Inoltre il governo ha peggiorato la situazione dell’occupazione, sia nel settore pubblico che nel privato, con i tagli ai bilanci che ha eseguito o sta predisponendo. Sembra predominare in esso, per non parlare dei commentatori che ogni giorno lo spronano in questo senso, l’idea che ogni forma di spesa pubblica sia un costo da contenere il più possibile. È un’idea iper-liberale, che i conservatori americani riassumono nella battuta “bisogna far morire di fame la bestia”, cioè lo Stato. Fermo restando che ogni genere di spreco nella PA va combattuto, bisognerebbe recuperare la ovvia verità che gli stipendi pagati dallo stato, nonché gli acquisti di beni e servizi che effettua, sono tutti soldi che entrano nel circuito dell’economia al pari di ogni altra spesa, trasformandosi in domanda e occupazione. Per cui i tagli alla spesa pubblica sono in ultimo efficaci contributi alla crescita non del Pil, bensì della disoccupazione.
A fronte del predominio di questa idea nel governo e nei partiti che lo sostengono, ripetere che lo stato dovrebbe finalmente decidersi a operare come datore di lavoro di ultima istanza – come chi scrive prova a dire da tempo muovendo proprio dalle realizzazioni del New Deal rooseveltiano – sembra davvero una causa persa. Con un piccolo segno in controtendenza. Il ministro dell’Istruzione Profumo ha annunciato che il suo ministero intende avviare entro il 2012 le procedure per l’assunzione di 25.000 insegnanti, metà per concorso e il resto attingendo dalle graduatorie dei precari della scuola. Non è esattamente il New Deal, quando con il programma Federal Emergency Relief Act fu ridato un lavoro a 100.000 insegnanti disoccupati e al tempo stesso furono aiutati nel proseguire gli studi 2 milioni di studenti delle scuole superiori e dell’università. Ma è quanto meno un segno che in un settore vitale come l’istruzione, dove la spesa pubblica è assolutamente insostituibile, pena l’esclusione da esso di milioni di giovani, l’idea di tagliarla ancora perché i costi della macchina statale vanno sempre e comunque ridotti, è stata riposta nel cassetto. Dove si può sperare sia raggiunta presto da altre idee controproduttive intorno allo stesso tema.
  
Tratto da La Repubblica del 21 giugno 2012

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Alex Zanotelli da Rio de Janeiro :

19 giugno 2012, Rio de Janeiro- “Benvenuti a Rio+20”. Con questa scritta a caratteri cubitali siamo stati accolti all’aeroporto di Rio per il vertice sul pianeta Terra convocato dall’Onu (20-22 giugno). Come missionari comboniani abbiamo deciso di ritrovarci insieme nel contesto del Vertice per riflettere sul tema pianeta Terra, che ci tocca direttamente. La Terra infatti non sopporta più l’homo sapiens, il cosiddetto sviluppo e questo sistema economico finanziario che vive depredando il pianeta e rendendo i poveri sempre più poveri.
Sono arrivato la notte del 18 giugno nella Baixada fluminense, uno dei quartieri più violenti di Rio, dove vive e opera una comunità comboniana. Così ho avuto subito il sentore di che cos’è “l’altra Rio”. Una sensazione diventata ancora più netta il mattino seguente, attraversando in autobus la città. Mi sono parse chiare due città, spesso una di fronte all’altra: la Rio degli impoveriti e la Rio dell’opulenza. Va notato che il vertice Onu dei capi di stato si tiene a Barra de Tigiuca, la parte bene di Rio. Io invece mi sono recato subito a Aterro de Flamengo per partecipare alla Cupola dos Povos che ha trovato spazio nel lungomare Bahia da Gloria.
Due vertici. La Cupola dos Povos fatta di indigeni, di poveri, di cittadini, di associazioni. Mentre la “Cupola dos Ricos” è collocata nel cuore della ricchezza di Rio. Una vera e propria apartheid.
“Loro sono al centro, a Tigiuca”, ha detto il prof. Bonaventura de Souza. “Il circo del’Onu”, li ha definiti il prof. Martinez-Alier, che non decide mai nulla!”. Infatti l’impressione che abbiamo ora è che il Vertice della Terra rischia di essere un altro fallimento. Fra l’altro non hanno partecipato né Obama né la Merkel.
Ma la speranza non viene da lì, viene invece dai poveri, dagli indigeni, dalla cittadinanza attiva. E’ stato incredibile per me trovare Aterro de Flamengo così tanta vivacità, dibattiti, reti, campagne… Un’immensa fiera dell’inventiva umana, di culture, di associazioni…
E’ la stessa impressione che ho avuto quella stessa mattina partecipando ad un dibattito, promosso da Rigas (Rete italiana per la giustizia sociale e ambientale), sui nuovi paradigmi necessari per rispondere alle sfide della giustizia non solo distributiva ma anche ambientale. Vi hanno partecipato il teologo brasiliano Leonardo Boff, lo spagnolo prof. J. Martinez-Alier, l’economista portoghese Bonaventura de Souza, il coordinatore di Rigas Giuseppe de Marzo. Lavori presieduti da Marica de Pierri, dell’associazione “A Sud”,  nella sala strapiena del Musero di arte moderna.
“Il Pil non può più essere l’indicatore per l’economia, ha detto il noto economista Martinez, dobbiamo andare verso la prosperità senza crescita, secondo quanto teorizzato dall’economista Usa Tim Jakson”. Martinez ha avuto parole di elogio e di sostegno per le due esperienza latinoamericane diEcuador e Bolivia.
Boff è partito citando Einstien: “Non si può pensare che chi ha creato la crisi trovi anche la soluzione”. Né si può accertate come principio etico quello del nostro vivere bene occidentale perché “questo ha significato vivere male per miliardi di persosne”. Per uscire dall’attuale crisi, Boff ha elencato 4 principi fondamentali: a) ogni essere ha un valore intrinseco che deve essere rispettato; b) il dovere di prendersi cura di ciò che ci circonda; c) una responsabilità planetaria; d) cooperazione e solidarietà universali. Ha sottolineato che non si può produrre per accumulare ma solo per condividere.
Giuseppe de Marzo ha ribadito che l’attuale crisi nasce dal non aver riconosciuto la natura e i diritti della Madre Terra. Ha urlato: “Noi siamo la terra. Basta con la crescita”.
Personalmente ho portato a conoscenza dell’assemblea le lotte popolari italiane sull’acqua con il referendum e sui rifiuti con la resistenza alle megadiscariche e agli inceneritori, per muoverci invece verso il riciclaggio totale.
Infine il prof. De Souza ha definito la green economy “il cavallo di Troia del capitalismo mondiale” e ha messo tutti in guardia tutti che “bisogna cambiare il potere prima di prenderlo”.
Questa di Rio è stata una tavola rotonda molto valida che prelude a tanti incontri. Provocazioni queste importanti anche per noi comboniani, a Rio siamo una trentina, che dobbiamo riuscire ad includere pienamente queste tematiche nel nostro fare missione.

Tratto da   http://www.democraziakmzero.org

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FRANCO  ARMINIO: LA POLITICA CHE NON C'E'

 Si parla della crisi senza il coraggio di dire cos’è in crisi. I partiti vogliono uscire dalla crisi con la crescita. Sembra una cosa ovvia e invece è una scelta molto complicata. Bisogna crescere per mantenere un certo tenore di vita. I governi ragionano come se fossero individui. La politica si sta riducendo sempre più alla manutenzione dell’egoismo. Ho molti amici di sinistra a cui parlare della necessità di inumare il capitalismo pare una follia.
Quello che una volta era il conflitto di classe adesso è diventata la guerra delle vanità contrapposte: si preferisce contestare il vicino di casa, si preferisce parlare male delle persone che abbiamo intorno, piuttosto che organizzare la lotta ai padroni del mondo. Questi padroni a volte vanno in disgrazia, vedi Berlusconi, e la sinistra non sa approfittarne per provare a costruire una democrazia senza padroni.
Il capitalismo è intimamente morto, ma prima di morire ha stordito anche la sinistra. E allora ci troviamo in una stagione con gli occhi chiusi. E l’occidente sta diventando una macchina della decomposizione. Una macchina che mostrando ogni giorno i suo effetti ha il potere di far pensare che non c’è spazio per nient’altro. E invece bisogna dire ogni giorno che la felicità e il capitalismo sono forze antitetiche. I mercati finanziari non contano più dei mercati rionali; un ragazzo che si iscrive all’università dovrebbe prima frequentare una bottega per imparare a fare qualcosa con le mani; ci vorrebbe un reddito di cittadinanza garantito per tutti, ma più alto per chi vive nei paesi poveri; i giovani che ne fanno richiesta dovrebbero poter disporre di un pezzo di terra. Alle prossime elezioni ci vorrebbe un partito che facesse proposte di questo tipo. Un partito che candidi non chi sa parlare, ma chi sa guardare. Un partito che consideri le elezioni e il governo solo un aspetto della sua azione. Un partito che lavori sui concetti, sulle proposte, sulle tecnologie del buon governo, ma che lavori anche per stimolare un pensiero poetico collettivo. È il sogno che si sposa alla ragione. Dove sta scritto che la politica deve essere unicamente estenuante mediazione per comporre interessi diversi? Questo è sicuramente un ferro del mestiere, un ferro insufficiente senza un lavoro radicale proteso a costruire uomini che siano fuori dalla logica sviluppista, dalla visione del mondo come una cava da sfruttare. C’è sempre il rischio di agitare vaghezze e misticismi e narrazioni inconcludenti, ma una politica che non sa correre rischi è completamente inutile e non a caso è tutta sottomessa ai poteri economici.
È ora di rivedere questa storia che il potere corrompe e che uno scrittore dovrebbe stare lontano da ogni forma di potere. Nell’Italia dell’autismo corale non è la passione civile il cuore della faccenda, ma le passioni incivili. Alcuni stanno molte ore al giorno davanti al computer e al telefonino e non si sognerebbero mai di entrare in una sezione di partito: la politica viene fatta con qualche mi piace su facebook, c’è un interesse molto superficiale alla vita pubblica. Sicuramente nei prossimi mesi ci sarà più partecipazione, ma senza impeti rivoluzionari non succede niente, non solo nella vita politica, anche in quella personale. Ecco la novità della nostra epoca: l’estremismo e il rigore non sono una scelta tra le tante, sono l’unica scelta possibile.
La rivoluzione non è una cosa per conquistare un palazzo. Più semplicemente è il modo migliore di consumare il tempo che passa. Allora o si è rivoluzionari o non si è niente. Non ci sono vie di mezzo, non ci sono indugi tollerabili. Bisogna fare tutto e subito, bisogna cercare l’impossibile e quando lo abbiamo trovato cercarlo ancora. Alle prossime elezioni sarebbe bello se ci fosse un partito che avesse la rivoluzione nel suo nome. E se non c’è, nulla è perduto. Cercatevi qualche amico, qualche luogo dove la rivoluzione si lascia fare comunque. È assurdo davanti a una prospettiva come questa disquisire tra i partiti esistenti e quelli che stanno arrivando. Bisogna immaginare che possa esistere questo ed altro. La politica che c’è ha bisogno di una sola cosa: la politica che non c’è.
Da il manifesto del 21 giugno 2012

1 commento:

  1. Io vorrei segnalare l'intervento di Gallino sulla Repubblica di oggi, nelle pagine del Diario. Suggerisce misure diverse da quelle fino ad ora adottate in Italia per l'emergenza economico-sociale. I tagli vanno predisposti in modo oculato e non come raffiche di mitra. Combattere contro gli sprechi della PA è certo primario ed essenziale ma non va dimenticato che gli stipendi pagati dallo Stato si trasformano in acquisti di beni e servizi, stimolano l'economia fino a diventare domanda ed occupazione. Il lavoro(vero) pagato serve e si deve incentivare, è vano sperare che la scure riporti i conti in bilancio. Un nuovo New Deal dunque, potrebbe forse rappresentare una luce nel buio. Giusto per sapere dove andare, cosa difendere e tutelare, cosa buttare fuori dalla porta di casa (sperando che nessuno lo raccolga mai)

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