15 giugno 2012

STEFANO VILARDO A MARINEO





Nell’invitare tutti a partecipare alla presentazione dell’ultimo libro di Stefano Vilardo, che si terrà nell’ala del Castello Beccadelli di Marineo recentemente restaurato, riproponiamo la recensione che ne ha fatto Salvatore Silvano Nigro  sul 24 ORE di domenica scorsa.

Il mio amico Leonardo
Sono tre ragazzotti acerbi, appena adolescenti. Frequentano l'Istituto Magistrale Inferiore di Caltanissetta. Fra i banchi di scuola intrecciano un'amicizia complice. Si chiamano Lilly, Nanà, Stestè. Studiano poco, ma leggono molto. Rincorrono la narrativa americana sui libri usati, ottenuti in prestito. Vedono tutti i film che possono, si imbucano nei teatri. Ognuno di loro ha un sogno. Lilly vuole fare lo scrittore. Nanà aspira a fare il regista. Stestè si vede già attore. Non hanno soldi, neppure pochi. Tengono i libri di scuola in condominio, per risparmiare. Con gli spiccioli che avanzano comprano settimanalmente l'«Omnibus» diretto da Longanesi. Sono attratti dalle fotografie, dai nitidi caratteri Bodoni; e soprattutto seguono, ammirati, la rubrica «Lettere al direttore» di Vitaliano Brancati.
Quello scrittore, Brancati, loro lo conoscono. Lo incontrano qualche volta. Lo spiano da lontano. È un professore «lupucuvio», schivo e triste, «immusonito e annoiato». Insegna a Caltanissetta, all'Istituto Magistrale Superiore: «a più di un chilometro di distanza» dalla scuola frequentata dal trio cameratesco. I ragazzi vorrebbero accorciarla di molto, quella distanza. Ma l'ignaro professore, casualmente finito nella «cittadina di pietra gialla, sospesa su una squallida pianura», là dove dai paesetti agricoli e dalle «parrocchie» dello zolfo confluiscono gli studenti costipati in un trenino a vaporiera, non li degna di uno sguardo; neppure «d'un misero sorrisetto per presa visione».
Nanà è «mutigno». Parla con il sì e con il no, intercalati da lunghi silenzi. Si infratta con gli altri negli angoli di una cartolibreria. Il proprietario è compiacente. Lascia che i ragazzi si godano gratis le vignette e gli scritti satirici del «Marc'Aurelio», del «Bertoldo», e del più impegnato «Becco Giallo»; e leggano con calma gli elzeviri di Panzini, Cecchi e Pancrazi. Nonostante il mutismo, Nanà è di compagnia. È sottilmente ironico. Beffardo, quando vuole. Si prende gioco delle turbe ormonali dei suoi compagni di classe e fa delle loro fregole un coro manzoniano, mettendo in parodia i versi della tragedia Il Conte di Carmagnola: «S'ode a destra un legger mormorio, / a sinistra un sospiro risponde, / d'ambo i lati ecco s'alza un brusio / ... / Già ha lasciato un buon paio di scarpe / a inseguire una dolce fanciulla». Architetta esilaranti «coglionate». Si improvvisa falsario, in allegre imposture (quasi degne di un abate Vella in calzoni corti): ora spacciandosi, in lettere fittizie, per uno scrittore americano trapiantato in Sicilia; ora infilandosi nei panni di un editore che si dichiara disponibile a pubblicare la «minchiatella» teatrale, in salsa rosa, di un poveraccio di professore che in classe è diventato «una camola insopportabile».
Nanà ha una memoria letteraria portentosa. Regge la pagina scritta come nessun altro. Non fa correzioni, quando scrive. Non cancella nulla. Non sbaglia una virgola. È uno scrittore in erba, senza varianti. Ha però una malinconia segreta. Il fratello muore suicida. I rapporti con il padre sono senza confidenza. La madre è «dolcissima, molto bella e infelice». In compenso zii e zie lo aiutano molto. Gli zii gli trasmettono la passione per la caccia. La zia Angela, la più anziana, e la più di buon senso, gli dà implicite lezioni di politica: chiama «fungia di puorco» Mussolini, e tiene nel canestro di lavoro, a portata di mano e a futura memoria, tra spille, forbicine, aghi e rocchetti, il ritratto di Matteotti.
Siamo negli anni Trenta, in una delle più povere ed estreme province di un'Italietta che, «a passo di parata» e in camicia nera, si avvia «verso il baratro». I tre ragazzi usciranno dalla scuola, amici e coetanei di Emanuele Macaluso, nella Caltanissetta del comandante partigiano Pompeo Colajanni (celebrato da Vittorini). Lilly diventerà lo scrittore Lilly Bennardo. Nanà non farà il regista, ma sarà Leonardo Sciascia, lo scrittore che nel Consiglio d'Egitto racconterà l'«allegra impostura» del «romanziere» abate Vella, e non lascerà varianti da studiare (tranne una, non affidata alla carta: intitolerà L'interruttore il suo ultimo romanzo, alla Dürrenmatt; si correggerà, in punto di morte, sollecitato da Elvira Sellerio, e sostituirà l'intestazione con Una storia semplice). Stestè si affermerà come poeta. Sarà Stefano Vilardo. Esce adesso da Sellerio un delizioso libretto di Vilardo. È la trascrizione di una conversazione con Antonio Motta. Il novantenne poeta entra in pantofole dentro la storia di un'adolescenza a Caltanissetta, come dentro la ferialità di un racconto di Cechov. Il libro si legge d'un fiato. E si conclude a sorpresa con un indice dei nomi, che è un seminario di possibili storie in sintesi cinematografica. Si tratta di un «Elenco degli alunni, dei professori, e titoli dei film con i quali Nanà, con raffinato e sicuro giudizio, caratterizzò ognuno di loro». L'ultimo dei Mohicani è il film appioppato a Lilly. Sono stato io quello destinato a Stestè. Nanà si rispecchia nella commedia gialla C'è sotto una donna, con un investigatore, un omicidio, un colpo di scena. Nanà, pur giocando, sta imparando a essere Sciascia.

Salvatore Silvano Nigro, da IL SOLE 24 ORE del 10 giugno 2012

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