03 giugno 2012

CLASSICI RISCOPERTI




Riprendo dal Corriere della Sera odierno un interessante articolo di Federico Occone che conferma alcune nostre ipotesi di lavoro.

 
Cresce l’interesse per lo storicismo e per l’«autonomia del politico»

di Corrado Ocone

Sin dalle prime pagine di Orientalismo, l’opera di Edward Said (1935-2003) che ha rivoluzionato gli studi sul colonialismo, il nome che più ricorre è quello di Antonio Gramsci. In particolare, lo scrittore di origine palestinese mostra come, per capire il rapporto instaurato in età moderna fra Occidente e Oriente, più della categoria di dominio sia utile quella gramsciana di egemonia. Più che sulla forza delle armi, l’Occidente ha fondato il suo potere sulla cultura: ha avvalorato un’immagine di sé e del mondo che ha fatto breccia negli stessi popoli colonizzati, i quali hanno cominciato a vedersi e interpretarsi secondo i valori dei conquistatori.
Said si è mosso, in verità, lungo un solco che era stato già tracciato, sin dai primi anni Sessanta del secolo scorso, da Stuart Hall, il fondatore e direttore della «New Left Review», iniziatore di quell’importante filone dei Cultural Studies che va sotto il nome di «Sub Alternative Studies» o «studi post-coloniali». L’analisi delle tradizioni popolari del Sud Italia compiuta da Gramsci può servire da canovaccio teorico, secondo questi autori, per studiare persino le culture dell’Africa subsahariana. Che Gramsci sia un «pensatore globale», che si sia conquistato un posto di primo piano fra i classici del pensiero, è ormai assodato. E non è solamente una questione politica, di destra o sinistra: lo studio del taylorismo e del fordismo, il concetto di «americanismo», la fine analisi dei rapporti fra potere e cultura, sono considerati oggi strumenti di analisi imprescindibili per chiunque si occupi di filosofia e scienze sociali. D’altronde, era stato Eric Hobsbawm ad introdurre nel mondo anglosassone, sin dagli anni Cinquanta, l’opera del pensatore sardo, da lui considerato il massimo interprete del marxismo occidentale.
Sarebbe tuttavia un errore credere che Gramsci sia l’unico pensatore italiano che goda stima e considerazione in campo internazionale. Il discorso è oggi più generale e al nome dell’autore dei Quaderni vanno affiancati quanto meno quelli di Benedetto Croce, Niccolò Machiavelli e Giambattista Vico. È lungo una direttrice che accomuna questi quattro grandi autori che si può infatti tracciare un percorso di rinascita d’interesse nel mondo intero per il nostro pensiero.
Conclusasi la vicenda della filosofia della conoscenza, che ha impegnato il pensiero moderno da Cartesio fino a Kant; esauritasi la filosofia del linguaggio, che (fra filosofia analitica ed ermeneutica) è stata la cifra predominante del Novecento, oggi si fa strada l’esigenza di un pensiero più «impuro», meno astratto e più legato alle forze della vita che ci determinano e attraversano: la storia (Vico e Croce) e la politica (Machiavelli e Gramsci). Da questo punto di vista, come dice Roberto Esposito, fiero paladino dell’Italian Theory, la «differenza italiana» consiste nel fatto che «la nostra riflessione si presenta rovesciata, e come estroflessa, nel mondo del reale».
La rinascita di interesse per Croce è un ritorno, in qualche modo, ai primi decenni del Novecento, quando il pensatore napoletano era un protagonista del dibattito mondiale e dialogava con i massimi esponenti della filosofia a lui coeva (da Bergson a Ortega, per intenderci). Uno dei più attivi diffusori del suo pensiero (e traduttore delle sue opere) era allora il filosofo di Oxford Robin George Collingwood, autore a sua volta di un «sistema filosofico neoidealistico». La figura di Collingwood, lui morto, era passata in secondo piano, sopraffatta dal successo di altri oxoniensi: gli analitici alla Austin. Esauritasi quella esperienza, oggi Collingwood gode di nuova e straordinaria attenzione nel mondo anglosassone: un interesse che non può non portarsi dietro quello per il suo Maestro italiano. È soprattutto la sua «logica della domanda e risposta», improntata su quella crociana, che viene oggi considerata una valida alternativa al pensiero astratto dei neopositivisti (già Gadamer, d’altronde, richiamandosi esplicitamente a Croce e Collingwood, l’aveva posta a base della sua ermeneutica ontologica). Di fortuna mai dismessa gode anche l’Estetica di Croce, mentre cresce molto negli ultimi tempi l’attenzione per la sua particolare teoria liberale. Fra l’altro, un’opera come la Storia del liberalismo europeo (1924) di Guido De Ruggiero, allievo di Croce e da lui ispirata, tradotta in inglese da Collingwood nel 1925 per la Cambridge University Press, pur essendo quasi dimenticata in Italia, figura ancora nelle principali bibliografie sul tema nel mondo anglosassone.
Una logica di tipo storicistico è anche quella di Quentin Skinner, che parla di contestualismo: il suo autore di riferimento è però Niccolò Machiavelli, il cui pensiero è al centro di importanti interessi storici e teorici. Non solo per la sua teorizzazione dell’«autonomia del politico», ma anche perché è alla base di quella rielaborazione del pensiero repubblicano che costituisce una sorta di paradigma egemonico nella filosofia politica contemporanea (oltre a quello di Skinner, vanno fatti i nomi di almeno altri due illustri studiosi: Pocock e Pettit).
Quanto infine agli studi vichiani, il massimo centro propulsore è l’Institute for Vico Studies di Atlanta, fondato da Giorgio Tagliacozzo. Mentre da un punto di vista teorico, è stato sicuramente Isaiah Berlin colui che con grande maestria ha costruito una concezione liberale che nella pluralità e relatività delle culture di vichiana memoria trova il suo baricentro ideale. Berlin ha anche insistito sulla modernità dell’idea vichiana che verum et factum convertuntur: solo perché la storia umana è opera degli uomini, altri uomini possono, con la ragione e con il cuore, «penetrarla» e comprenderla. Ed è questa la verità cui possiamo concretamente aspirare. Quanta distanza dalle idee di verità e realtà che emergono nella disputa fra Neo Realisti e Postmodernisti!

Corrado  Ocone, Corriere della Sera, 3 giugno 2012 



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