26 febbraio 2021

COME PARLANO I POLITICI

 


Con il titolo La dolce vita della retorica. Vizi e virtù del linguaggio politico, Il Foglio ha pubblicato lo scorso 12 febbraio un breve saggio del poeta e scrittore Matteo Marchesini su come parlano (e parlavano) i nostri politici. Sottotitolo: “Piccolo catalogo di tic oratorii e stili linguistici della classe dirigente. Dai discorsi pirandelliani di Cossiga agli epigrammi wildiani di Andreotti, dalle acrobazie verbali di Pannella all’idioma rurale di Di Pietro”. Sono considerazioni illuminanti, accurate fino all’infinitesimo e anche decisamente divertenti (che non guasta mai). 

Appartengo a quella fitta schiera d’italiani che tiene spesso la radio accesa e sintonizzata sul casto, a-musico e perenne “parlato” delle frequenze radicali. Siamo gente che non lo fa solo perché RR è davvero una straordinaria “università popolare”, ma anche per orrore del silenzio, per incapacità di mettere in moto i neuroni con cui ci guadagniamo il pane senza un elemento di “disturbo” in sottofondo – oppure, a una cert’ora, per tamponare l’insonnia. Io, ad esempio, in questa mia stagione da quasi single, finisco sempre per tenere l’antenna sul cuscino accanto, e per scivolare a poco a poco nel notturno regno delle Madri accompagnato dall’italianuccio querulo di qualche peone della politica o dalla neolingua di qualche spin-doctor a convegno, dall’incomparabile oratoria analogica di Pannella (talvolta giovanilmente nasale talvolta invece cupamente catarrosa) o magari dai colpi secchi registrati nel vuoto di un’aula giudiziaria e decifrati poi dal commento sempre acuto, enciclopedico, calibratissimo di Massimo Bordin. Come ho fatto notare al neodirettore Paolo Martini – che mi ha risposto con rara onestà intellettuale – tra i materiali d’archivio trasmessi nelle ore piccole si avverte ancora una sinistra stonatura “per assenza”. Manca cioè la voce insieme apodittica e puntigliosa dell’ex segretario di Radicali Italiani Daniele Capezzone, voce che andrebbe invece riascoltata di continuo: in modo che sia lui sia il partito si sentano costretti a non rimuovere, ma anzi a rianalizzare a lungo una parte notevole quanto discutibile della loro storia recente. Tuttavia, Martini mi ha appunto assicurato che l’apparente damnatio memoriae notturna (a quanto pare corrisposta dai no comment diurni di Capezzone) finirà molto presto. Comunque, non è di questo che volevo parlare. Volevo dire, invece, che chi appartiene alla fitta schiera di cui sopra, a forza di ascoltare sedute di Camera e Senato, dibattiti o congressi, accumula quasi involontariamente un’enorme quantità d’informazioni anche sui tic oratorii della nostra classe dirigente. E questi tic, in alcuni ascoltatori biecamente letterati, mettono poi in moto i clic della vecchia critica stilistica. Non so se i sintomi che cogliamo via radio o a volte via web – via tv sempre meno – possano essere elevati a sineddoche di ampi fenomeni sociali. Del resto, in un certo senso il rapporto è così chiaro da divenire perfino sospetto: e o lo si descrive in modo articolato o si riesce inevitabilmente generici. Perciò, qui vorrei limitarmi a offrire un piccolo catalogo di questi tic e di questi stili, già di per sé fin troppo rivelatori, facendo coincidere il più possibile l’esegesi con la descrizione antologica.


Ormai l’oratoria classicista o quella crociomarxista, che ci vengono incontro dai racconti parlamentari sull’Italia regia o sulla Prima Repubblica postbellica, emergono soltanto in occasioni straordinarie. Somigliano a un’eco fievole ed esotica, che fa subito sussultare il pubblico letterato: sono come la sbriciolata madeleine o il coccio greco d’un defunto, irricomponibile Vas d’Elezioni. Certi incrinati, vibranti, avvocateschi accenti meridionali, che ancora poco tempo fa risuonavano dai banchi moderati (gli accenti di Filippo Mancuso o di Gerardo Bianco) sono andati spegnendosi goccia a goccia. Nel frattempo è scomparso Francesco Cossiga, un Enrico IV pirandelliano per cui il paradosso storico-letterario era una specie di riflesso di Pavlov: ossia lo strumento coatto attraverso il quale, fingendo l’eccentricità, tentava d’esorcizzare il peso di una memoria troppo greve. Intanto, altre strade hanno imboccato l’eloquio pacatamente azionista di Ciampi, quello parodicamente ciceroniano di Scalfaro, e i sempre più rari epigrammi wildiani di Andreotti. Insomma, per dirla in breve: oggi è ben difficile sentir denunciare con antiquato sdegno le “contumelie” scagliate dagli avversari, o udir giustificare una défaillance della maggioranza in commissione con un liceale e sornionissimo “quandoque bonus dormitat Homerus”. Probabilmente nel 2011 nessuno riderebbe – come capita invece in un romanzo di Federico De Roberto, ambientato nel 1883 – se un deputato fraintendesse un verso di Dante e sostenesse, in un’arringa appassionata, che dobbiamo avere il coraggio di fare come il poeta, il quale “si volge a l’acqua perigliosa e guada” (anziché “guata”).

Quel che resta, di simili lacerti umanistici, è invece la periodica citazione a sproposito: di recente, ad esempio, sono rabbrividito ascoltando un deputato che durante un dibattito sulla cronica disumanità delle nostre carceri ha lasciato cadere con enfasi il “Libertà va cercando, ch’è sì cara…”. Indecenza per indecenza, allora è meglio ascoltare certi egemoni accenti lombardi, a tal punto sedotti dal nuovo mito scolastico delle tre I da pronunciare “sine die” come “sàin déi”. Quanto al resto, ormai per arrivare a Omero si passa ovviamente da Baricco, e da Benigni per scalare Dante. Oppure, nel mesto tentativo di rafforzare il discorso, si scomodano mostri sacri e divi culturali per far dir loro appena “buongiorno” o “pane al pane”: “… vedete colleghi, un grande uomo ha affermato una volta che il nostro futuro sarà composto con la stoffa della nostra memoria…” (Goethe, Primo Levi, Luther King, Madre Teresa – o più plausibilmente, su questo tono e in questo contesto, Enzo Biagi?). Niente di grave, s’intende. Le culture cambiano, e nessuna può giudicarne un’altra dall’alto: l’importante, però, sarebbe non confonderle.

Ma torniamo ai tic. Forse qualche bonario riferimento alla polverosa eredità scolastica – riferimento fatalmente semplificato, come semplificati sono oramai i programmi ex-liceali – si può cogliere ancora in certe zone democristiane. Prendete Pierferdinando Casini. La sua parola preferita è “serietà”: “bisogna essere seri”, “siamo persone equilibrate e serie”, “per il bene del Paese occorre che ci confrontiamo seriamente”. Ma è un termine che lui pronuncia sempre con l’aria dell’ex compagno di banco o di sagrestia che piace tanto alle mamme: cioè col sorriso trattenuto del tipo belloccio e ragionevolmente furbetto. La sua, insomma, suona come una parola doppia: biforcuto è il messaggio, rivolto a pubblici diversi e diversamente scafati. In ogni caso, a volte il “lato serio della serietà” va sostenuto con qualche figura retorica. Ed ecco allora che l’austero invito di Casini si condisce di un filo d’olio manzoniano: del Manzoni brescianescamente purgato, s’intende – di quello buono per le scuole medie umbertine. “Mentre il Paese va a rotoli, non possiamo mica star qui a beccarci come i capponi di Renzo” scandisce il leader Udc in questi mesi di caos calmo, mentre la balena bianca lascia riaffiorare la sua gran coda alla buvette. E lo ripete più volte, marcando bene il timbro del buonsenso emiliano, corrucciato ma sotto sotto euforico, non appena provano a strappargli qualche stoccata velenosa o qualche affettuoso endorsement di troppo (intanto, due passi indietro, Gianfranco Fini legge Il piccolo principe).

Ma in realtà, l’unico politico ancora capace di declinare al presente, e di vivificare in modi inauditi, le complesse stratificazioni della nostra cultura otto-novecentesca, è senza dubbio Marco Pannella. Con un’acrobazia, anzi con una “spaccata semiotica” sempre più arrischiata e ardua man mano che il tempo passa, Pannella tiene funambolicamente assieme nel suo eloquio, e perfino plasticamente nel suo corpo di “bestione abruzzese”, Ernesto Rossi e Facebook, don Benedetto Croce e Cicciolina, Gianni Letta ed Emmanuel Mounier. Procedendo per lampi metaforici e metonimiche zampate, la sua immaginazione aforistica sa lasciar filtrare un’annosa e nobile storia moderna, fatta di vertiginosi incroci teorici e di opulente frasi subordinate, per la cruna dell’ago dei mass media: cioè di strumenti fisiologicamente vocati a orizzontalizzare tutto in rigidi elenchi di frasette coordinate o slogan.

La tradizione liberale manca di qualunque analisi “francofortese” sulla società mediatica e sull’omologazione: ragion per cui i congressi di certi residui brandelli del Pli somigliano a musei delle cere. L’eccezionalità di Pannella sta invece nel fatto che ha superato d’un balzo questa carenza ideologica: ha fiutato Marx, l’ha infilato tra Pannunzio e D’Annunzio, e con sicuro istinto ha saputo ritorcere socraticamente contro gli avversari le loro stesse armi, strappando alla “partitocrazia” importanti conquiste civili, e continuando imperterrito a infilarsi tra le intercapedini della costituzione materiale per restaurare quella scritta ma inoperante. Tuttavia simili raid non possono riuscire a lungo, perché quello che i radicali chiamano il “caso Italia” è in realtà soltanto un’appendice dell’universale “caso mass media”: caso di cui un paese passato dal pre al postmoderno senza farsi modernamente le ossa dà giocoforza una versione estremizzata. Detto altrimenti: in tutte le società occidentali la cruna dell’ago si stringe ogni giorno, e il filo della tradizione politica si perde per forza in mitologie bidimensionali. Proprio per questo, oggi è più evidente che mai il prezzo pagato da Pannella: prezzo che coincide col ruolo ambiguo e difficilmente formalizzabile assunto dal “carisma” all’interno del suo partito. Qui la dialettica che s’instaura tra democrazia assembleare e autorevolezza del leader resta equivoca: e malgrado il livello straordinario del gruppo dirigente, i suoi membri si rivelano spesso troppo inibiti quando si tratta di mettere ecologicamente in discussione, fino alle radici, certe analisi del Marco senior. La sua lingua, e il modo in cui è “tradotta” dai più giovani eredi, evidenzia insomma anche le inevitabili aporie cui va incontro un organismo per metà pedagogico e per metà politico: cioè uno spazio dove rischia sempre di prevalere, seppure a livelli di alta elaborazione pratica e teorica, il meccanismo del credo ut intelligam. Ma si tratta, appunto, di difetti connaturati a una vicenda davanti ai cui pregi e alla cui statura si può solo dir chapeau.

Comunque l’acrobazia individuale di Pannella è difficilmente ereditabile. Guardacaso l’altra figura di riferimento del partito, e a lui complementare, vi ha rinunciato in partenza. La popolarità di Emma Bonino le viene anche da una notevole consonanza coi media odierni, cioè dalla capacità di capitalizzare al massimo la propria immagine attraverso un linguaggio che non sta più all’incrocio tra avanguardia politica e culturale, ma che si limita a spendere le parole della buona amministrazione. La Bonino appare limpida, appena acre e sabauda, volitiva ma anche fragile: e dietro a quella sua sobrietà ormai “automatica” si sospetta una dose di aggressività efficacemente repressa in pubblico. I suoi discorsi vengono spesso puntellati da qualche frase proverbiale attribuita alla madre o alla famiglia di Bra: e col tempo queste frasi sono a tal punto cresciute, da lasciar immaginare che nelle campagne di Cuneo circolasse una versione naturaliter radicale, o radicale ante-litteram, di quegli almanacchi popolari diffusi già nel tardo Medioevo. Comunque, per chiudere il capitolo su Torre Argentina, non c’è dubbio che alcune locuzioni e alcuni giochi etimologici pannelliani siano ormai divenuti da decenni moneta corrente, o se si vuole riflessi linguistici di quasi tutto il partito: qui in casa radicale, dove la deriva ormai centenaria del regime italiano non appare chiara ma “patente”, i progetti “si incardinano”, alle battaglie “si dà corpo”, e “la durata è la forma delle cose”; né si tenta di vincere ma di “con-vincere”, altrimenti si rischia di diventare “privi perché privati”.

All’estremo opposto del linguaggio pannelliano sta quello di Antonio Di Pietro. E anche qui, in verità, non si tratta solo di sistema verbale ma pure gestuale: infatti, quando non trova le parole, l’ex pm unisce le mani, le porta alla bocca, e sembra sul punto di andare a pescarsele in gola. Spesso i suoi innumerevoli paragoni rurali rimangono sospesi a metà strada, come pezzi d’arco pencolanti nel vuoto: e quando il secondo termine resta troppo a lungo latitante, l’oratore tende a passare alle vie di fatto. Indimenticabile, in questo senso, un forum dell’anno scorso a Repubblica tv: forum dove Di Pietro, assediato dall’afasia, s’accostò di colpo all’efebico conduttore Edoardo Buffoni, alzò una mano e disse: “insomma, mettiamo che io adesso ti do ‘no ssschiaffone…”. Buffoni ebbe appena la forza di paragonare a sua volta quella manona molisana a un badile, e lo pregò di abbassarla con una voce quasi bianca: per un momento, immobili in quelle pose d’attacco e di difesa, mi sembrarono l’uno una sagoma a grosse pennellate di Carlo Levi e l’altro un etereo, tremante ritratto preraffaellita.

Ma a volte la similitudine esce fuori tutta intera dal pacifico Logos, sebbene sempre un po’ sbilenca: e i paragoni compulsivamente tentati dal patron dell’Idv sono ormai così tanti che se si cercano su Google le più diverse espressioni idiomatiche, e anche parecchi riferimenti della cultura “alta” passati poi lungo i secoli in proverbio, tra i primi link compare quasi ovunque il profilo dipietresco. Per esempio, se state ritoccando una tesina sulla filosofia scolastica e volete controllare via web i dati biografici di “Buridano”, ecco che nella prima schermata vi trovate subito davanti una dichiarazione con cui l’ex pm intima al Pd di non far come quell’asino al quale il logico medievale viene ingiustamente associato.

Ma già, il Pd; eccoci inevitabilmente al Pd. Che da anni si definisce “una grande forza tranquilla”: e qui, far dell’umorismo sull’esile confine che divide la tranquillità dalla catatonia sarebbe davvero troppo facile. Meglio citare qualche variante interna. Infatti siamo di fronte a un tipico caso in cui la struttura, anziché potenziarle, danneggia alcune notevoli intelligenze singole. Ormai tutti sfottono le metafore casalinghe del povero Bersani, che di fronte al caso Marchionne come al caso Ruby finisce comunque per dire che “bisogna ribaltare la pignatta”. In realtà basta ascoltare un suo discorso articolato, o leggere una sua lettera, per capire che un’acuta capacità d’analisi e di sintesi filosofico-politica la possiede davvero: e addirittura una lingua briosa, non poi troppo bolsa né greve. Solo che si tratta di analisi o sintesi impotenti: e allora, per consolarsi, ogni tanto si rassegna a recuperare i suoi studi di gioventù per confrontare durante un comizio un’ipotesi di “Pd platonico” con un’ipotesi di “Pd aristotelico”.

Esattamente speculare il caso di Veltroni: che dopo averci narrato per anni di sfide interrotte o sogni spezzati, e dopo aver incarnato la figura del leader sempre trombato e sempre revenant, continua a rimescolare le figurine del suo pantheon ecumenico e a romanzare ogni minima esperienza, nonostante dietro questa pomposa impalcatura culturalista dell’ipse dixit sembri spesso nascondersi una semplice pignatta – o se si vuole un orizzonte limitato a una Torpignattara ribaltata dal restyling. Invece D’Alema, come si sa, s’impegna da decenni a dimostrare la battuta di Brancati secondo cui è proprio al capezzale dei perdenti che si trova sempre una buona edizione di Machiavelli. Stilisticamente, un tipico tic con cui impone la sua aspra, tetragona fermezza, resta il voluto sarcastico sprezzo del congiuntivo nell’espressione “vede, io credo che è”: incipit scandito in infinite occasioni con la medesima esasperante lentezza clericale.

Scivolando ancora verso la post-sinistra, resterebbe poi da dire del pasolinismo post-cyber di Nichi Vendola, che del poeta-critico dell’omologazione ha raccolto l’eredità subito omologabile (l’eredità “in odore di pubblicità”, la chiamava Flaiano): lui infatti, ricordiamocelo bene, non tiene semplici comizi ma “comizi d’amore”, non ha lobby o comitati di sostegno ma “fabbriche”. Del resto, in fondo il termine è giusto: lì, infatti, si forgia artigianalmente il nuovo mito dell’amministratore delegato del patrimonio bertinottiano. E siccome stiamo parlando di stile, ribalteremo anche noi la pignatta, aggiungendo che le sue poesie denunciano su un altro piano lo stesso irrimediabile crollo delle utopie novecentesche: l’otium che regalava a Pietro Ingrao dignitosi versi semiermetici offre a Vendola soltanto impagabili monumenti kitsch.

Invece il vero erede delle “narrazioni”, per usare un termine stucchevolmente caro al capo di Sel, è in realtà l’Umberto Bossi dei primi anni ’90: quello che si può risentire ogni tanto appunto nelle notti di RR, e che perfino durante i comizi tenuti nel più profondo varesotto non rinunciava mai a tracciare alcuni pittoreschi sunti di storia delle ideologie. Poi lo Spengler di Gemonio è divenuto un pontefice di poche gnomiche parole: e ora il suo linguaggio se lo spartiscono i luogotenenti, oscillando tra tecnicismi da geometri e goliardate un po’ sinistre. Ma fu forse a metà strada, tra secessionismo pagano e svolta tradizionalista, che il senatur riuscì a condensare i suoi schemi mitologici in aforismi rabelaisiani che parevano quasi il rovescio plebeo di certe crasi pannellesche. Ad esempio, mentre i radicali raccoglievano firme per incriminare il presidente serbo, e i leghisti (con Oliviero Diliberto) organizzavano invece amichevoli viaggi a Belgrado, proprio sul leader di Torre Argentina Bossi pronunciò una battuta che Pannella ripete spesso col compiacimento di chi lascia intravedere il luccichio d’una medaglia, e al tempo stesso con la gravità di chi cita una solenne fonte storico-accademica: “meglio Milosevic di Culosevic”.

Ciò detto, poche note sul Pdl. Ai vertici del Popolo prevalgono di solito tre registri linguistici. Da una parte c’è lo stile dei più realisti del Re, cioè quello di Stracquadanio. Poi c’è la prosa difensiva di Mariastella Gelmini o Michela Vittoria Brambilla, che con metallico accento lombardo, e col disagio di chi teme di non essere all’altezza, avviano quasi sempre il dibattito con un “guardi, tutti sanno come la pensa lei, che è prevenuto, che appartiene alla sinistra… legittimamente, per carità”. Infine, sullo sfondo, si disegnano gli arazzi dell’oratoria insieme contrita e secentesca dei neocontroriformisti, degli uomini dalle “speranze rientrate”: è la commossa e oleosa ars retorica di Maurizio Sacconi o Gaetano Quagliariello, e insomma lo stile Magna Carta.

Intorno al centrodestra si sono poi mossi alcuni famigerati organi d’informazione, che hanno senza dubbio contribuito a rompere le dighe del residuo paludamento stilistico da Prima Repubblica, sdoganando un kitsch piuttosto truculento. E per ricordarsi che hanno vinto, cioè che hanno davvero conquistato una certa egemonia bipartisan, basta riprendere in mano un recente titolo a tutta pagina dell’Unità. Letteralmente: “Tenete a casa le bambine”. E chi potrebbe dire, ormai, se l’ha concepito Concita De Gregorio o Vittorio Feltri?

Ma così, scendendo o salendo per li rami, siamo arrivati all’ultimo fatalissimo paragrafo. Però, ormai, come si fa a parlare del linguaggio o del teatro di Berlusconi senza scrivere un ponderoso trattato in grado di correggere e revisionare gl’innumerevoli topoi della facile, debordante letteratura pseudoantropologica che il Cavaliere ha alimentato per vent’anni? C’è veramente da dir troppo, o troppo poco. Allora limitiamoci a cogliere un suo vezzo in apparenza laterale, ma forse abbastanza indicativo di un certo modo di far coincidere disinvoltura e gaffe, doppiopetto istituzionale e goliardata, aspirazione aulico-galante e parodia più o meno volontaria. Molto spesso, e nelle situazioni più diverse, capita al Presidente di sublimare compiaciuto il suo italiano medio-studentesco (efficace nel pathos, ma un po’ macchinoso nell’esposizione programmatica) scegliendo la versione più patinata o arcaica di qualche termine comune: per esempio, al posto di “gioco” Berlusconi dice quasi sempre “giuoco”. E bisogna ammettere che il suo non è durato poco.

Matteo Marchesini

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