CONTRO I LUOGHI COMUNI DELLA PEDAGOGIA PIACEVOLE, FRESCA, EMOZIONALE. I NOSTRI RAGAZZI MERITANO LUCIDITÀ E CONOSCENZA.
Prefazione all’edizione argentina di Pedagogia. Luoghi comuni e concetti chiave. Si ringrazia l’autore e il traduttore Enrico Bottero.
di Philippe Meirieu
Questo libro è nato inizialmente a causa di un’irritazione, poi trasformatasi in vera e propria collera. L’irritazione è nata a causa della pubblicazione di certi testi di volgarizzazione della pedagogia, come quello di Peter Gumpel, autore britannico residente in Francia, che nel 2010 ha pubblicato Si stroncano gli allievi, un pamphlet in cui l’autore riprende tesi note da molti anni sugli effetti negativi di una forte concorrenza tra gli allievi, sul carattere inutilmente stressante delle continue valutazioni, sulla fatica generata da un eccesso di esercizi ripetitivi e di compiti a casa, sull’inefficacia di programmi stupidamente enciclopedici, ecc.
Questo libro è stato accolto da tutti i grandi media francesi come un grande evento. Il quotidiano Le Monde ha osservato che l’autore vi sosteneva con calore e utilmente la necessità di maggiore empatia nei confronti degli allievi. Il Nouvel Observateur, importante settimanale della sinistra, ha definito la pubblicazione dell’opera “un evento che ha portato un vento di freschezza nella letteratura pedagogica”. Intendiamoci. Io sono in gran parte d’accordo con alcune affermazioni di Peter Gumpel. A rigore, avrei anche potuto riprenderne alcune in una conversazione tra amici e non necessariamente per provocare.
Tuttavia, non le avrei mai espresse per iscritto in modo così caricaturale, senza alcuna precauzione e, soprattutto, senza riprendere gli argomenti dei miei avversari, non foss’altro che per una ragione: in campo educativo, più che in altri, credo si debba applicare il principio di tolleranza enunciato da Paul Ricoeur: “La tolleranza non è una concessione che si fa all’altro. È il riconoscimento del principio secondo cui una parte di verità mi sfugge”. Per questa ragione, non ho capito perché sia stato accolto in modo così entusiastico un discorso così radicale, poco argomentato storicamente e filosoficamente, scritto in un approssimativo stile giornalistico, che presenta come novità straordinarie banalità che circolano da più di un secolo nella letteratura pedagogica. Se si volesse fare veramente polemica, bisognerebbe piuttosto riferirsi ad alcuni testi degli inizi dell’Educazione nuova, ad esempio questo famoso epigramma di Adolphe Ferrière, scritto in occasione del Congresso fondativo della Lega Internazionale dell’Educazione Nuova (Calais, 1921):
La scuola è stata creata su indicazione del diavolo.
Il bambino ama la natura: è stato parcheggiato in stanze chiuse.
Il bambino vuol vedere che la sua attività sia servita a qualcosa: si è fatto in modo che non avesse alcuno scopo.
Ama muoversi: è stato obbligato a restare immobile.
Ama servirsi delle mani: è stato messo in azione solo il suo cervello.
Ama parlare: è stato costretto al silenzio.
Vorrebbe ragionare: gli è stato chiesto di mandare a memoria.
Vorrebbe cercare la scienza: gli è stata presentata già pronta.
Vorrebbe entusiasmarsi: sono state inventate le punizioni.
Peter Gumpel non dice cose diverse, ma con molto meno talento di Ferrière e in modo più contorto. Tutto ciò non ha impedito che i commentatori, ignorando del tutto la storia della pedagogia, trovassero il suo testo “piacevole per la sua freschezza”, “stimolante”, “utile ed efficace”, “decisivo per il futuro dell’educazione e della scuola”!
In questo modo, i commentatori lodano un pensiero che, da molto tempo, ormai, è stato discusso, in parte modificato, oggetto di molte interpretazioni diverse. Su questo pensiero gli educatori si pongono con ostinazione molte domande decisive: “Che cosa ama il bambino nella natura e a quali condizioni può imparare qualcosa da essa?” … “Che cosa vuol dire che l’attività del bambino deve servire a qualche cosa? Si tratta di un uso materiale immediato, di un uso professionale futuro o di un uso personale e culturale?”…“È possibile contrapporre così facilmente le mani e il cervello? Non c’è forse una relazione permanente e necessaria tra i due?”…“Il silenzio e la memoria sono sempre inutili?”… “Può un allievo ‘cercare la scienza’ senza essere guidato nella sua ricerca? Non è forse possibile che, a volte, il ragazzo comprenda il mondo attraverso modelli scientifici presentati da un adulto con una lezione e, ciononostante, che gli siano utili a raggiungere il piacere di comprendere?”.
Com’è possibile, circa un secolo dopo Ferrière, ignorare tutte queste domande? Com’è possibile ritenere stimolanti e rivelative certe affermazioni approssimative, certo comprensibili quando dominava il modello scolastico del XIX secolo e stavano appena emergendo le “pedagogie nuove” ma che oggi appaiono un po’ logore? Certo, ammetto che la nostra scuola non è cambiata molto, ma da allora gli educatori hanno riflettuto, e molto! Alcuni sono riusciti a realizzare cose molto positive: sono riusciti a coniugare, con ragazzi “veri”, la benevolenza con un atteggiamento esigente, lo sforzo con il piacere, la trasmissione con l’emancipazione. I sostenitori ufficiali dell’antipedagogia, grandi intellettuali molto noti o piccoli polemisti dei social network, si scatenano non appena, con molta moderazione, vengono avanzate tesi sulla necessità di differenziare la pedagogia, di lavorare sulla mediazione per permettere a tutti di accedere alla cultura, di formare gli insegnanti al lavoro di gruppo o di utilizzare la valutazione per far progredire gli allievi invece di classificarli. Com’è possibile che questi stessi intellettuali restino stranamente silenziosi quando escono pamphletsche si fanno pochi scrupoli nell’enunciare le loro tesi e hanno molto più impatto sull’opinione pubblica dei testi pedagogici che loro condannano? Come spiegarsi che i sostenitori della “trasmissione rigorosa dei saperi e dell’autorità dell’insegnante” (come se gli educatori non lo fossero. Non ci sono insegnanti che rifiutino di avere autorità. La domanda è piuttosto come averla), questi grandi pensatori della Scuola con la S maiuscola secondo cui basta insegnare perché gli allievi apprendano, non abbiano mai replicato a quelli che trasmettono i “luoghi comuni” più “tradizionali” dell’Educazione nuova, né li abbiano mai condannati come “impostori” o “affossatori della cultura” (cosa che hanno fatto con me)? Tutto ciò è particolarmente irritante. L’irritazione si trasforma in collera quando si assiste al successo di vedettes internazionali dello show business della pedagogia che, senza ricevere la minima critica, si lanciano in luoghi comuni che raccolgono ampio consenso.
Provate ad ascoltare, per esempio, il più celebre dei conferenzieri di TED (Technology Entertainement Design), Ken Robinson, che sta per raggiungere i trentasettemilioni di telespettatori su internet (è uno dei conferenzieri più pagati al mondo). Con molta abilità e senso dell’umorismo, Robinson non fa che riprendere vecchie formule. Ci spiega che ogni ragazzo è spontaneamente creativo e che il sistema scolastico, sottomettendolo a esercizi assurdi e standardizzati, uccide in lui la creatività. Robinson invita a “rispettare l’infanzia”, a “coltivare con cura la sua immaginazione”, ci esorta a inventare un’educazione che sia “sempre alla ricerca della capacità creativa di ciascuno”. Chi potrebbe contraddire queste intenzioni così generali e generose?
Qui si gioca sui luoghi comuni più seduttivi: ogni genitore crede facilmente che suo figlio o sua figlia siano naturalmente dei geni e che, se viene a mancare il successo scolastico, la colpa sia della scuola. Gli insegnanti che osservano nei loro allievi un atteggiamento poco creativo denunciano volentieri le mancanze di un’istituzione che non solo ha castrato l’immaginazione dei loro allievi fin dall’inizio della carriera scolastica ma, con i programmi e l’organizzazione interna, impedisce loro di praticare la pedagogia che potrebbe liberare l’immaginario. Analogamente, gli educatori, gli animatori e gli altri specialisti della creatività infantile, di fronte alla passività o alla triste riproduzione di stereotipi sociali di molti ragazzi a cui viene rivolta l’esortazione “Esprimetevi!”, si accontentano di condannare “il sistema” e di invocare una “rivoluzione” senza prevedere il minimo concreto cambiamento nelle loro pratiche. La “natura creativa del ragazzo” non è un dato pienamente documentato né equamente ripartito nella società. Non è certo che ciò che noi pensiamo sia una regressione della capacità immaginativa nel corso della crescita non sia semplicemente la scoperta del principio di realtà. Questo principio restringe certamente il campo delle possibilità ma permette anche di acquisire i saperi che aiutano a interpretare il mondo: il pensiero scientifico è, effettivamente, sia apertura che rinuncia, sia ipotesi che messa alla prova delle stesse per identificare quelle che sono veri strumenti di comprensione del mondo e possono trasformarsi in saperi stabilizzati. Sono questi saperi che permettono agli uomini di acquisire conoscenze comuni, di parlarsi e di costruire un collettivo. L’esaltazione del ragazzo creativo di fronte al quale l’adulto dovrebbe solo esprimere meraviglia, l’utilizzazione costante della metafora orticola, che presenta il ragazzo come un seme che contiene già tutto in sé e sboccia naturalmente sotto il nostro sguardo incantato, ignora le terribili disuguaglianze sociali che appartengono, in particolare, all’educazione familiare. Non è vero che un bambino con cui si parla ogni giorno utilizzando onomatopee sviluppa le sue capacità intellettuali, logiche e immaginative, nello stesso modo di un bambino con cui si utilizza un linguaggio elaborato, strutturato e vario. Non è vero che un ragazzo lasciato a se stesso di fronte a uno schermo sarà creativo come il suo compagno a cui i genitori leggono ogni sera delle storie. Per questa ragione, non ci si può accontentare di predicare (anche se con molta abilità) la rinuncia a intervenire per “lasciare che la creatività si sviluppi liberamente”. Di più: non si può lasciar pensare alla creatività come fosse un dono che può esprimersi solo grazie al fatto che la scuola non introduca alcun obbligo. La creatività, infatti, è un obiettivo formativo. Esige una ricerca permanente da parte dell’insegnante per trovare situazioni stimolanti, offrire diverse risorse, cercare materiali adatti, mettere in atto dispositivi coinvolgenti, individuare vincoli utili, avere un atteggiamento positivo ed esigente nei confronti di ciascuno.
Certo, possiamo supporre che Ken Robinson sappia tutto questo. Eppure, tutto può lasciar pensare il contrario, che lasci il suo pubblico cullarsi nelle illusioni nello stesso momento in cui, con il suo beato ottimismo, lo anestetizza da ogni inventività pedagogica. Ecco dunque dove si origina la mia collera: dal fatto che circolino luoghi comuni pedagogici i quali, dietro un’unanimità di facciata, possono diffondere teorie e pratiche contraddittorie che perseguono scopi opposti. I nostri bambini e ragazzi meritano di meglio. Meritano un po’ di lucidità, uno sforzo per comprendere le sfide pedagogiche e politiche dell’educazione. Meritano adulti con la schiena dritta, che non rinnegano nulla ma che non si fanno neanche prendere in giro.
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