26 febbraio 2021

LA CONDIZIONE UMANA DI ANDRE' MALRAUX

 



“LA CONDIZIONE UMANA”, LA RIVOLTA LETTERARIA DI ANDRÉ MALRAUX

Dietro la folla mortale c’era in primo luogo la solitudine, l’inesorabile solitudine, come la grande notte primitiva era dietro quella notte densa e bassa sotto la quale la città deserta stava in agguato, traboccante di speranza e di odio. (…) L’abbraccio attraverso il quale l’amore tiene gli esseri uniti l’uno all’altro contro la solitudine non era di aiuto all’uomo; era di aiuto al folle, al mostro incomparabile, prediletto, che ogni individuo è per sé stesso, e che ognuno vezzeggia nel proprio cuore.

«Un mondo da cui gli uomini erano scomparsi, un mondo eterno» fa da sfondo a una delle opere indissolubili del Novecento: La condizione umana di André Malraux. Pubblicato da Gallimard nella prestigiosa Bibliothèque de la Pléiade e definito dal grande André Gide «di incomprensibile complessità», il libro concluse la trilogia asiatica dello scrittore francese nel 1933, dopo I conquistatori e La via dei re, vincendo il Prix Goncourt e procurando al suo autore la gloria riservata a chiunque scriva un capolavoro.

Mai parola potrebbe essere più esatta, in effetti, per descrivere un romanzo dal sapore eterno, ispirato ai numerosi viaggi di Malraux in Indocina, profondamente legato alla Storia, e pervaso, al contempo, da un’intensa atemporalità: come tutti i libri destinati a riscrivere in perpetuo l’epopea degli uomini sulla terra, La condizione umana è un formidabile trattato sulla vita e sulla morte che a quasi un secolo di distanza rinnova il suo messaggio esistenzialista, un compendio magico e mistico, un’indagine filosofica e un’imponente rappresentazione del mondo e di chi lo abita, a dispetto dell’epoca in cui venne scritto e a prescindere dall’epoca di cui parla.

«Sotto gli atteggiamenti di ogni uomo esiste un fondo che può essere toccato, e pensare alla sofferenza di quell’uomo ne lascia presagire la natura»: è nel segno di questo esoterico «fondo» che Malraux racconta la fulminea odissea di un manipolo di rivoluzionari nella Shangai del 1927, all’alba dell’invasione delle forze nazionaliste guidate da Chiang Kai-Shek, e all’eroica resistenza di quegli uomini al fianco degli operai comunisti.

L’ideologia politica si intreccia al contesto storico tanto che, negli anni a seguire, l’opera sarebbe diventata «il libretto rosso dell’Occidente che [avrebbe] convertito al comunismo migliaia di militanti, l’incendiario manuale dei giovani contestatori degli anni Sessanta», come scrive Simone Barillari nella magnifica postfazione che arricchisce la nuova edizione Bompiani dell’anno scorso, ritradotta da Stefania Ricciardi; e nonostante tutto, nel racconto degli ultimi giorni di lotta dei protagonisti, la dottrina marxista apre la strada a una riflessione ben più complessa: la disperante solitudine dell’uomo contemporaneo, dell’individuo a confronto e in conflitto con un universo in cui Dio è morto; il tramonto delle ideologie (o la loro sconfitta nella lotta simbolica, oltre che fisica) come deriva dell’eroismo che stava attraversando l’Europa all’indomani della prima guerra mondiale, e con essa la consapevolezza della crisi della cultura europea, che avrebbe dato l’avvio a una sorta di “coscienza del suicidio”.

Non è un caso che il suicidio come scelta rappresenti uno dei temi fondamentali del romanzo, poiché «vivere è imparare a morire», e se «morire è passività, uccidersi è agire»; e con il suicidio la morte, nel suo senso più assoluto e multiforme, come unica risposta possibile alla condizione che dà il titolo al libro. Malraux descrive queste diverse prese di posizione calandosi fin nei più profondi abissi dei suoi personaggi: nell’attrazione per l’annientamento di sé che prova Chen o nel serafico sacrificio di Kyo; nella fertile rivolta interiore di fronte allo sterminio dei propri familiari di Hemmerlich, o nell’assurdo attaccamento alla vita del barone Clappique; fino al martirio quasi cristiano di Katow, che al termine del romanzo cederà il suo cianuro ai due prigionieri che, insieme a lui, andranno incontro a una tragica fine.

Chen, Kyo e Katow, i rivoluzionari, sono uniti nella lotta, complementari eppure speculari. Attraverso di loro Malraux declina la narrazione di un’unica figura: l’eroe che nella rivoluzione e grazie ad essa trova un’ideale forma di sublimazione della vita, spingendosi all’estremo opposto, e cioè all’annullamento fisico, alla cessazione di ogni pensiero, a un trapasso metafisico. Con quest’ultimo il romanzo intrattiene un rapporto strettissimo e dialogico, anche nei suoi frequenti slanci di vitalità: nella ludopatia del barone Clappique e nell’orgoglio ottuso che lo abita, nella ribellione sessuale di Valérie (sua amante) che tramite il sesso che si affranca da lui; o nell’amore devoto seppur imperfetto di May, che ama Kyo tanto da desiderare di unirsi a lui nella terribile battaglia finale.

Aveva sentito dire che a volte veniva agli uomini quel desiderio nell’imminenza della morte. Ma non osava alzarsi per prima: le sarebbe sembrato di accelerarne il suicidio. (…) Sebbene avesse bevuto a malapena, era ebbro di quella menzogna, di quel calore, dell’universo fittizio che si era creato. Quando diceva che si sarebbe ucciso, non ci credeva; ma dato che ci credeva lei, Clappique entrava in un mondo in cui la verità non esisteva più. Non contava né il vero né il falso, ma il vissuto. E dal momento che non esistevano né il passato che aveva inventato, né il gesto elementare e presupposto così imminente sul quale si fondava il suo rapporto con quella donna, non esisteva nulla. Il mondo aveva smesso di pesare su di lui. Sgravato da un fardello, ora viveva solo nell’universo romanzesco che si era creato, forte del legame che ogni pietà umana instaurava davanti alla morte.

Gli eroi sconfitti di Malraux rievocano all’infinito il concetto di destino, e nella purezza del loro ideale, anche e soprattutto malgrado la loro condizione frammentata, sono martiri e santi; e dal momento che «nel marxismo c’è il senso di un destino e l’esaltazione di una libertà», quei personaggi non avrebbero potuto essere nient’altro che rivoluzionari, votati a una causa che appare fallimentare sin dalle prime pagine del romanzo, finanche romantica nei suoi presupposti già condannati alla disfatta.

Lo sfondo storico e politico – in cui il dettaglio si espande tanto da diventare ossessivo e da generare una sorta di naturalismo pessimista e decadente –  è quindi soltanto uno degli elementi del romanzo; Gisors, l’anziano padre di Kyo, è una voce fuori campo e al tempo stesso un cantore terribilmente calato nella narrazione: fino alla morte del figlio, che lo riconsegnerà a una violenta ricaduta nella realtà, sembra impersonare il narratore stesso, dando voce alle sue riflessioni filosofiche sul mondo e sulla natura degli umani, in quello che appare come un autentico viaggio iniziatico.

La rivoluzione, dunque, genera la cornice del romanzo ma non ne rappresenta l’essenza, che è appunto quella crisi dei valori per cui «dopo che Dio è morto il narratore deve raccontare un mondo di uomini sempre più soli e numerosi attraverso il coro incrinato delle loro voci, il compromesso provvisorio delle loro visioni – tentando di riprodurre ogni voce come quell’uomo la sente “con la gola”, di ricostruire ogni visione del mondo come quell’uomo la considera: una visione dal basso, limitata – ma sua; una visione parziale – ma parte del tutto» [Barillari]. Ecco perché, ben lungi dal voler ricostruire pedissequamente un trattato storico), Malraux preferisce invece attingere all’immaginario della rivoluzione, ai suoi elementi più puri e ideologici, per costruire un’opera che, come metafora di una circostanza, di una sorte sempre più ineluttabile, avrebbe finito per superare i confini del tempo.

Sapeva di soffrire, ma un velo di indifferenza circondava il suo dolore, di quell’indifferenza che segue alle malattie e alle bastonate in testa. Nessun dolore lo avrebbe sorpreso: tutto sommato, questa volta la sorte aveva messo a segno contro di lui un colpo migliore degli altri. La morte non lo stupiva: non era peggiore della vita. Lo sconvolgeva solo l’idea che tutto quel sangue sparso testimoniasse la sofferenza patita dietro quella porta. Eppure, questa volta, la mossa del destino non si era rivelata vincente: strappandogli tutto ciò che ancora possedeva, lo liberava.

Romanzo profondamente atemporale, La condizione umana è un racconto dalle vite molteplici. Venne accolto con grande entusiasmo al momento della sua uscita, diventando un vademecum per quanti vollero leggerlo come un trattato sull’eroismo moderno e su una forma di resistenza (quella che il suo autore avrebbe fatto di lì a pochi anni) “nonostante tutto”. L’autore volle forse infondere il carattere senza tempo del suo romanzo nella scena in cui Chen si rifugia nel negozio di orologi, gli orologi che indicano ore diverse, «indifferenti nel bel mezzo della Rivoluzione».

Quanto fosse consapevole di quest’operazione è difficile intuirlo, ma il lettore che voglia aprire oggi il libro per la prima volta possiede ciò che Barillari definisce un «amaro privilegio»: la conoscenza esatta degli eventi e degli epiloghi, la conformazione di quel mondo su cui il romanzo si affacciava soltanto con un interrogativo, con una speranza vaga eppure indistruttibile nella sua profonda sfiducia, lasciando intravedere le dieci, cento, mille vite che il libro avrebbe avuto ben oltre la sua storia editoriale, rivendicando la sua storia umana.

Ancora, nella Condizione umana Malraux seppe demolire il linguaggio tradizionale e inventare la sua personale forma di rivolta letteraria, a partire anche dall’indagine e dalla riproduzione di una cultura (quella orientale) estremamente distante dalla sua. Operazione funambolesca, poiché anche quando concluse la sua trilogia, la conoscenza che aveva della Cina e di Shangai era assai limitata: Malraux mistificò sempre la sua biografia (benché spesso la realtà avesse già superato qualunque forma di invenzione) e nel tempo ammise di aver prodotto soltanto il resocontodi «un uomo di fretta che viaggia» e che filtra attraverso lo sguardo un mondo forse irrimediabilmente distante dal suo. Tuttavia, se i due mondi – la Francia, o ancor di più l’Europa degli anni Trenta, e la capitale cinese della rivoluzione di primavera – appaiono così distanti sul piano storico e probabilmente anche emotivo, la grandezza dello scrittore si rintraccia nella sua capacità di attingere a quelle due dimensioni opposte per dare vita a una genesi dell’assoluto che abbraccia la rappresentazione della natura umana azzerando le disparità tra gli uomini, allargando filosoficamente anche il discorso politico e riproponendone come essenziali i tratti principali, le intenzioni e gli orizzonti.

Quest’operazione rinnegò la cosiddetta letteratura d’esperienza, secondo cui la scrittura scaturiva necessariamente da una materia di cui si è testimoni o profondi conoscitori; Malraux dimostra che il vero scrittore è colui che vive in mondi che non gli appartengono, riuscendo a coglierne l’essenza pur osservandoli a distanza o non conoscendoli affatto. E seppe farlo da uomo «perennemente in guerra», da «combattente notturno e solitario» quale era.

Scrive ancora Barillari: «Viene da pensare che Malraux abbia scritto una sorta di opera mondo sentendo però che il mondo non poteva più stare in un’opera». È questo legame reciso, questa crisi individuale che trascende la condizione spezzata dell’uomo per ascendere a una dimensione altra – sognata o temuta – a rendere il romanzo immortale. L’epopea degli eroi sconfitti di André Malraux è il gigantesco affresco di un epilogo in cui la solitudine si fa ineluttabile, un viaggio senza ritorno nei più profondi recessi del sé, ma anche una metafora della rinascita e una prova d’immortalità – per i personaggi del libro e per il grande romanzo che il suo autore ci ha offerto.

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