Una bella intervista di Roberta Scorranese a Ferdinando Scianna, amico di Leonardo Sciascia e Stefano Vilardo.(fv)
Corriere della Sera, 6 febbraio 2021
Ferdinando Scianna: «Sono a Milano grazie a Sciascia da oltre mezzo secolo, ma parlo e sogno ancora in siciliano. Le sere con Kundera»
di Roberta Scorranese
Come sta?
«Come un vecchio. E per piacere non mi venga a parlare della “bellezza della vecchiaia”».
C’è chi la celebra, no?
«Ho letto il libro di uno psicanalista che elogiava la terza età dicendo che “è bellissimo fare ogni giorno le scale come se fosse un’avventura”. Ma vaffanculo».
Milano, zona Chinatown. Lo studio è al pianterreno di un condominio in un complesso di case di ringhiera. Dietro a una montagna di carte, fotografie, colori e pennini, Ferdinando Scianna sbuffa fumo e parole con l’asciutta impazienza di chi è arrivato a settantasette anni con un fisico smilzo e la memoria affilata.
E con un milione di fotografie all’attivo.
«La fotografia si fa con i piedi, come mi insegnò Paolo Monti quando arrivai a Milano, più di cinquant’anni fa. È il fotografo che deve andare a cercare gli istanti, non sono gli istanti che appaiono a lui, come molti pensano».
I suoi piedi come stanno?
«Male. Il mio corpo ha deciso che il lavoro che ho fatto per tanto tempo non posso farlo più. Allora scrivo. Rifletto sulla fotografia, elaboro concetti che un tempo, quando giravo il mondo, non potevo fermarmi a formulare».
Come nel suo libro uscito per Utet, «Il viaggio di Veronica», una storia del ritratto?
«Sì. Ritrarre vuol dire cogliere lo spirito di chi ti sta di fronte. Si sbaglia spesso, anzi, si sbaglia quasi sempre. Il 95 per cento delle mie fotografie è frutto di un errore».
Dei suoi tanti ritratti viene in mente quello di Jorge Luis Borges nel 1984: a Palermo, già cieco, lo scrittore argentino «vede» le statue del museo Archeologico, toccandole.
«Le vedeva con le mani. Ognuno vede a modo proprio. Leonardo Sciascia, per esempio, vedeva con la memoria. Non solo. Per lungo tempo nella casa di Racalmuto dove Leonardo andava a scrivere non c’è stata luce né acqua corrente. Ecco da dove viene il rigore che traspare dai suoi libri. Specie quelli in cui scandaglia la cronaca: libri puliti, forti».
In bianco e nero.
«Proprio così. Noi siciliani non vediamo il Meridione con lo stesso occhio dei settentrionali, che vi ravvisano elementi apollinei. Non vediamo i colori sgargianti, gli odori inebrianti, i tramonti infuocati. Noi il Sud lo vediamo in bianco e nero perché conosciamo la sua forza e, a volte, la sua violenza. La mia ossessione per il bianco e nero nasce da un ricordo preciso: nella piazza di Bagheria, quando ero bambino, ogni mattina si radunavano decine di uomini. Arrivava poi un tizio che chiamava e ne selezionava sì e no una metà: quelli erano i fortunati che quel giorno potevano lavorare e quindi mangiare. Gli altri, niente».
«La luce e il lutto», recita il titolo di un libro di Gesualdo Bufalino, un altro dei suoi amici scrittori.
«Era di Comiso. Conosceva bene i pomeriggi incendiati in cui si cercava l’ombra come una salvezza. Noi siciliani viviamo inseguendo l’ombra. E le ombre. Dalla Sicilia non si va via, si scappa. E il destino di tutti noi, dopo, è che stai bene dappertutto e male dappertutto».
Il suo bianco e nero non è però nostalgia, sembra piuttosto aderenza ad una verità dolorosa e profonda.
«La nostalgia è il sentimento che meno sopporto. Implica il desiderio di un passato in cui si stava bene o, almeno, meglio di oggi. No, i miei ritratti in bianco e nero, le mie donne in processione, persino i miei scatti di moda parlano d’altro. Sono lo sguardo su una terra in cui la bellezza nasce anche dal dolore».
E il suo andare via dalla Sicilia che cosa è stato?
«Una fuga, ma non salvifica. È stata una fuga per restare su un crinale fatto di risentimento e, al tempo stesso, di attaccamento a quella terra. Una vita in bilico. Ma lo sente? Vivo a Milano da oltre mezzo secolo ormai e parlo ancora in siciliano stretto. Eppure so che quello che mi tiene avvinto alla Sicilia non è nostalgia, bensì rancore. Ci sono legami forti fatti di rancore, ci ha mai pensato?».
Quando si è innamorato per la prima volta?
«Da ragazzo. Lei aveva il nome di un personaggio cavalleresco ma non glielo dico, sennò poi lei lo scrive. Io la rispettavo, non volevo violarla: mi ero messo in testa che al matrimonio ci saremmo arrivati in purezza. Ancora quell’assurdo senso del rigore. E lo sa che fece quella ragazza dal nome romantico? Mi lasciò. Scoprii poi che in fondo mi aveva lasciato perché non l’avevo desiderata abbastanza. Non sono mai riuscito a riprendermi da questo».
Scianna, Guttuso, Tornatore. Tre maestri che in comune hanno le origini a Bagheria, città con meno di sessantamila abitanti.
«Non dimentichi Ignazio Buttitta, virtuoso della lingua siciliana. Sì, è curioso che in questo posto, tutto sommato piccolo, si sia sentita così forte l’esigenza di raccontare. E di andare via per continuare a parlare della Sicilia».
È forse la (lungimirante) necessità di allontanarsi per poter mettere a fuoco le cose?
«Sicuramente. Ma la differenza tra me e Guttuso o Peppuccio è che io ho bisogno di partire dalla realtà. Tornatore ha ricostruito Bagheria in un paese della Tunisia. Un giorno, sul set del suo film (Baarìa, ndr), ci siamo seduti al Bar Aurora, un posto che non esisteva più da anni. Sembrava di essere in un sogno. Continuo a sognare in siciliano, sa?».
Ed è vero che lei sogna in bianco e nero?
«Vero. Nei sogni, come nelle fotografie, sono un torero dell’azzardo. Mi butto. Ci provo. Mi ricordo bene quando da Bagheria, negli anni Cinquanta, ogni mese partivano uomini per andare nelle miniere, in Belgio. Noi ragazzi prendevamo dimestichezza con quelle che vedevamo come grandi scommesse: andrà bene? Andrà male? Senza saperlo ci allenavamo agli addii, alle rotture».
Che famiglia è stata la sua?
«Umile. Mio padre era pervaso da un nichilismo senza salvezza del quale solo di recente ho compreso le ragioni. Se io dicevo che Dante ha scritto la Commedia, lui commentava con frasi tipo: “e vabbé, pure lui in fondo è morto”. Oggi però mio padre l’ho capito. In fondo mi sono rappacificato con lui in una sorta di riconciliazione postuma. La mia è stata una storia familiare di abissi e resurrezioni, stelle e miserie».
Racconti, la prego.
«Metà Ottocento. Il mio bisnonno Giacinto, ultimo figlio di una casa poverissima, ma ragazzo intelligente. Il notabile di Bagheria lo prende sotto la sua protezione, lo affida a un signorotto locale che lo manda a Palermo. Studia da medico e da avvocato, arriva a esercitare entrambe le professioni. Ma era bene incardinato nell’ambiente borbonico. Così quando arriva Garibaldi è costretto a scappare. E torna a... Bagheria! Non sembra un romanzo?».
Un romanzo senza felicità.
«Ma io non possiedo il codice per decifrare la felicità. Ho già detto cosa voleva dire nascere a Bagheria dopo la guerra. La fotografia? Ho iniziato per caso. Mio padre disapprovava, chissà come vedeva il mio avvenire. Di certo non come quello di uno che per campare fa le foto. Solo alla sua morte mi sono reso conto di aver costruito una carriera da fotografo più per dimostrargli che sbagliava che per vocazione».
Mi parli dello Scianna politico.
«Anche se non sono mai stato iscritto al Pci, ero di sinistra. C’è stata una stagione in cui io e molti altri abbiamo creduto nella possibilità di essere felici. Abbiamo sposato un’ideologia che prometteva di estirpare tutti i mali, “comprese le emorroidi”, come diceva Rossana Rossanda. Naturalmente era un’illusione. Ci è rimasto solo il rigore, il bianco e nero».
Sciascia la spinse a diventare quello che è.
«Sì, mi incoraggiò dopo aver visto una mia mostra a Bagheria. Con quel biglietto da visita arrivai, poco più che ventenne, a Milano. Poi andai a Parigi, come corrispondente dell’Europeo. Conobbi Cartier-Bresson e Milan Kundera. Con Milan passavamo assieme le serate, lui mi parlava del suo lungo esilio e io pensavo che, in fondo, anche io ero un esiliato».
Lei è stato influenzato più dagli scrittori che dai pittori. Sbaglio?
«È vero. Ma la grande fotografia scaturisce anche dalla letteratura. Pensi solo a Elliot Erwitt: la sua ironia surreale che cos’è se non il retaggio degli scrittori russi? In ogni fotografo c’è una musica sottile che lega le sue opere».
Qual è quella di Scianna?
«La musica umile di chi ha conosciuto la miseria».
Lei si è cimentato anche con il colore.
«Con il tempo ci ho fatto pace, ma non del tutto. È un fatto culturale: la fotografia nasce in bianco e nero e per quel rigore di cui parlavamo prima mi sono sempre sentito legato a quella lingua. Però ho sperimentato. Ho anche fatto un libro a colori sulla Sicilia: è andato benissimo ma ne parlavo piano, con imbarazzo».
Lo Scianna più conosciuto è quello degli sguardi duri, taglienti, magari velati, come nelle donne pie.
«La mia generazione ha vissuto due mondi: quello in cui gli animali servivano per campare e quello in cui, dopo, sono diventati esornativi, da compagnia. La fame e il benessere. Conosciamo il lato oscuro della vita, questo frena ogni tentativo di felicità».
Nemmeno oggi riesce a comporre una musica che assomigli alla gioia?
«Oggi sono vecchio. Badi bene, però: la vecchiaia non ha niente a che fare con la morte, anzi. La morte è una consapevolezza che ci portiamo dentro dal momento della nascita. La vecchiaia è un inesorabile cammino che ogni giorno porta a nuove impotenze. Io voglio giocare fino alla fine: solo quando l’arbitro fischierà mi fermerò. Ma non sono così sicuro di voler fare i supplementari.
Nessun commento:
Posta un commento