La scena di Conte che lascia Palazzo Chigi accompagnato dagli applausi di impiegati commessi e collaboratori affacciati alle finestre non è affatto banale e va analizzata con una certa serietà, al di là delle reazioni emotive che può avere o non avere suscitato. Per tre ragioni:
1. E' una prima volta, per durata e intensità, imparagonabile ai precedenti che pure ci sono stati.
2. E' una spontanea smentita dell'inchino viscido al fascino discreto del nuovo potere che pervade tutti i mezzi d'informazione, segno che fra i sentimenti e i pensieri delle persone comuni e quelli veicolati da tv e giornali c'è - per fortuna - un abisso. Ma soprattutto,
3. Quell'applauso pareva una citazione inconscia dal primo lockdown, quando ci affacciavamo tutti alle finestre, e un ricordo dell'alleanza stretta in quel momento fra governanti e governati in nome non del potere o della competenza, ma della percezione di una comune impotenza, che ci ha consentito di affrontare quell'esperienza difficile senza dilaniarci. Quello che secondo me molti analisti abituati a decifrare solo i segni del potere non colgono della popolarità di Conte sta proprio nel suo essere stato percepito dal sentimento popolare non come un segno del potere ma come il segno di una relativa e sostenibile impotenza che consente di governare in alleanza con i governati. Attenzione a sottovalutare questo sentimento, perché come tutto quello che fa parte del vissuto della pandemia tornerà a galla, contro la glacialità della competenza che oggi si insedia a Palazzo Chigi per seppellirlo nella rimozione.
Ida Dominijanni
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