L’impresa può tutto
Paolo CacciariLa pandemia mostra in molti modi come il dominio del denaro sulla vita non sia un’astrazione. Le vicende della politica istituzionale degli ultimi giorni, del resto, confermano come ogni attività umana dovrebbe trasformarsi in un’impresa, la coesione sociale sia ormai immaginata solo per i possessori di interessi sul mercato e la trasformazione ecologica un’opzione possibile soltanto con l’apporto delle imprese e del libero mercato, cioè le cause dei guasti ambientali e sociali in cui siamo precipitati. “Quando vedo il capo della lobbying dell’alta finanza sommare la carica di capo di governo – scrive Paolo Cacciari – allora capisco che davvero le imprese possono tutto…”
Quando sento dire – e lo sento dire sempre più spesso -: “L’impresa non può guardare solo all’indice dei profitti, ma deve essere corporate responsability e avere a cuore non solo gli interessi degli azionisti e dei manager, ma di tutti i suoi stakeholders (dipendenti, fornitori, clienti, abitanti del territorio circostante presenti e futuri), al fine di generare valore sociale, servizi, saperi, cultura…”; insomma, l’impresa deve essere friendly, capace di prendersi cura direttamente del benessere delle persone, – lo confesso – mi inquieto un poco. Cosa significa? Che le imprese (aziende, società di capitali e altre forme giuridiche delle attività economiche che hanno lo scopo di produrre o scambiare beni e servizi – secondo il Codice Civile), sole o associate, sono in grado di dare risposte a tutto ciò di cui necessita la collettività? Ovvero, che ogni attività umana deve trasformarsi in impresa? Cosa, del resto, già ampiamente successa in molti settori: ad esempio gli ospedali sono diventati “aziende ospedaliere” e le Università hanno un Consiglio di amministrazione dove siedono gli “investitori” privati. Tant’è che è in uso dire: “Azienda Italia” per indicare l’intero Paese.
La conclamata “coesione sociale” – il nuovo brand che sembra abbia scelto Draghi per il suo governo -, più che tra cittadine e cittadini portatori/rici di diritti e doveri di solidarietà, è immaginata tra possessori di particolari interessi “posti in gioco” sul mercato (stake), per l’appunto. Se non sei di una impresa, o se non ti sei “fatto impresa” non fai parte dello sforzo produttivo nazionale, non sei utile e quindi meritevole di pubblica considerazione. Nessuna emersione del lavoro riproduttivo e di cura domestico, nessuna compartecipazione alla redditività sociale, nessun reddito di esistenza, nessuno spazio per forme di autogestione e autogoverno economico delle comunità locali, ma – se va bene – avviamento al lavoro nelle imprese ben capitalizzate.
La retorica del “nuovo tipo di capitalismo” resettato (Reset Capitalism), o reinventato (Reinventing), lanciata al World Economic Forum di Davos dal suo guru, Klaus Schwab: “Mai più profitti senza etica”, è molto accattivante: immagina un capitalismo ecologico, inclusivo, pesino democratico. Ci fa intendere che potremmo fare a meno dei pesanti e opprimenti apparati pubblici e dei costosi servizi collettivi, tanto ci pensano le imprese ad assicurare (è la parola giusta che evoca previdenza e welfare privati, aziendali – appunto!) a tutti e a tutte una esistenza migliore. L’impresa e il suo ambiente vitale, il mercato, sono le istituzioni portanti dell’economia e di conseguenza delle relazioni sociali. Le altre istituzioni, pubbliche e comunitarie, se proprio vogliono esistere, seguano l’intendenza a supporto.
Come ha scritto Mario Draghi recentemente, lo stato è legittimato ad intervenire in campo economico solo in presenza di conclamati «fallimenti del mercato» (Rapporto sulle politiche post-COVID redatto dal think tank G30 fondato dalla Rockefeller Foundation). Ma c’è qualche cosa che non torna. Quando leggo che la Grande Trasformazione green e resiliente del sistema economico non può fare a meno dell’apporto attivo delle imprese (e per questo le cancellerie e le banche centrali di tutto il pianeta le agevolano con lauti finanziamenti e generose defiscalizzazioni) mi sembra una cosa ovvia, ma fuorviante, perché nasconde il fatto che è stato proprio il sistema delle imprese nel libero (deregolato) mercato globalizzato a provocare i guasti ambientali e sociali in cui siamo precipitati. La crisi climatica è solo una delle catastrofi in corso. Un’altra è quella dell’immenso debito creato dalle banche che strozza gli stati, le imprese e le famiglie (vedi, di Paolo Perulli, Il debito sovrano. La fase estrema del capitalismo, La nave di Teseo, 2020). Così quando vedo i nuovi miliardari delle Big Data fare a gara, con le loro fondazioni filantropiche, per “restituire alla società ciò che la società ha dato” loro (vedi di Nicoletta Dentico, Ricchi e buoni? Le trame oscure del filantrocapitalismo, EMI, 2020), mi viene in mente un santo ritenuto tra i precursori dell’etica capitalista, Sant’Agostino: “Dona quello che hai per meritare di ricevere quello che ti manca”.
Infine, quando vedo il capo della lobbying dell’alta finanza sommare la carica di capo di governo (senza nemmeno avere bisogno del conferimento onorifico di un seggio senatoriale) allora capisco che davvero le imprese possono tutto.
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