STEFANO VILARDO, IL POETA DEGLI EMIGRATI
«La Sicilia dicono
è una conca d’oro
l’isola d’oro
ma per le tasche di quelli che governano
ladri senza vergogna
e noi non siamo che dei poveri disgraziati
senza cielo e senza terra
mandati allo sbaraglio in altri mondi
pieni di vento di neve di freddo»
(Stefano Vilardo, Tutti dicono Germania Germania, Sellerio, 2007, pp.90-91)
Un mese fa si è spento Stefano Vilardo (1922 - 2021), l'ultima grande voce della letteratura siciliana del 900 che non ha mai avuto paura di scagliarsi contro tutte le forme di potere e prepotenza. Vilardo non somigliava per nulla ai tanti letterati del nostro tempo, sempre più ruffiani e cortigiani.
Maestro di scuola elementare, come Leonardo Sciascia, suo compagno di banco all'Istituto Magistrale di Caltanissetta negli anni trenta del secolo scorso, poeta e autore di tanti racconti, ha raggiunto fama mondiale nel 1975 con Tutti dicono Germania Germania. Poesie dell'emigrazione.
Per me non è facile scrivere sull'autore di un capolavoro assoluto della poesia e della storia contemporanea, di cui mi sono occupato per due lustri, grazie anche alla scoperta delle originali bobine in cui Vilardo aveva raccolto le testimonianze dei suoi compaesani di Delia (CL) emigrati clandestinamente in Germania tra il 1959 e il 1965. Proprio da queste registrazioni Vilardo aveva preso spunto per scrivere il suo capolavoro. Sulla storia di questo libro, che oltre al suo valore poetico rimane uno dei più rari e preziosi documenti della storia dell'emigrazione siciliana nel mondo, ho già scritto e pubblicato un saggio a cui rimando. (Poesia e storia in “Tutti dicono Germania Germania, in AA.VV. Raccontare la vita, raccontare le migrazioni, Palermo 2011). Qui
Oggi voglio ricordarlo come uomo e come amico. Ci siamo incontrati la prima volta circa vent'anni fa, spinto dal mio interesse per la storia dell'emigrazione e dal mio amore per l'opera di Leonardo Sciascia.
Era stato lo scrittore di Racalmuto a farmi scoprire Vilardo; infatti, in una sua pagina avevo trovato una confessione che mi aveva particolarmente colpito:
“Di com'ero e di come sono faccio verifica con un mio vecchio compagno di scuola: insieme dal 1935, a Caltanissetta, a Palermo, ogni tanto ci avviene di constatare, […], che noi due non siamo in nulla cambiati. Lui cattolico e democristiano (ma in questi ultimi anni non più democristiano), io cristiano senza Chiesa e socialista senza partito, per 45 anni siamo vissuti senza uno screzio anche minimo, riconoscendoci e ritrovandoci nella più rischiosa buona fede, nell'onestà, nel coraggio.”
(Leonardo Sciascia-Davide Lajolo, Conversazione in una stanza chiusa,Milano 1981, pp.39-40)
Sono state queste parole di Sciascia a spingermi a cercare chi fosse Stefano Vilardo. Mi attivai immediatamente per scoprire cosa avesse scritto e dove vivesse questo intimo amico di uno dei miei scrittori preferiti di cui non avevo sentito parlare prima. Il nostro primo incontro si svolse nella sua casa palermitana circa vent'anni fa. In quel periodo non si parlava tanto del maestro e del poeta di Delia (CL). Peraltro il suo capolavoro, pubblicato nel 1975 da Garzanti, risultava esaurito e irreperibile. Me ne fornì una fotocopia che conservo ancor più gelosamente della ristampa che ne fece Sellerio nel 2007.
Ho un ricordo ancora vivo della prima pubblica iniziativa che organizzai, nel 2006, con la sua attiva ed entusiastica partecipazione, ad Alpe Cucco, nel cuore del Bosco di Ficuzza (PA). A partire da questo momento ci si vedeva almeno una volta al mese. E, nella sua casa di campagna, nei pressi di Cefalù, ho avuto anche modo di apprezzare il suo amore per i piatti dell'antica cucina popolare siciliana che condivideva con Sciascia ( il macco con i finocchietti di montagna, la 'Mpanata (sorta di focaccia ripiena di verdura, tuma e salsiccia), lo spezzatino di musetto di vitello, i fegatini di pollo, le uova cotte sotto la cenere, la marmellata di cotogne, ecc.). Un giorno, a tavola, mi raccontò del suo regalo di nozze (un coniglio e una colomba!) al compare Nanà (così chiamava Leonardo Sciascia che ricambiava col suo Steste!).
Il suo libro più importante rimane Tutti dicono Germania Germania. Poesie dell’emigrazione (Garzanti 1975, Sellerio 2007). Un libro straordinario che non ha finito di dire tutto quello che, ancora, ha da dire. Prima di questo libro Vilardo aveva già scritto e pubblicato due piccoli volumi di poesie I primi fuochi (1954) e Il frutto più vero (1960). La poesia ha svolto un ruolo terapeutico nella vita di Vilardo. Un giorno mi ha confessato che, da giovane, avendo un temperamento malinconico, spesso si bloccava; per sbloccarsi ha cominciato a leggere e a scrivere poesie : “ Per me poesia significava sciogliere nodi. Quando la vita ha stretto i suoi nodi attorno a me, ho provato a scioglierli leggendo e scrivendo poesie”. Eppure, malgrado i primi apprezzamenti e riconoscimenti ricevuti, Vilardo non era soddisfatto dei risultati raggiunti.
In un aureo libretto in cui, conversando con Antonio Motta, racconta della sua fraterna amicizia con Sciascia - A scuola con Leonardo Sciascia, Sellerio editore Palermo, 2012) – il maestro di Delia spiega, meglio che in altri luoghi, le ragioni della sua insoddisfazione:
« Io stavo e sto coi poeti impegnati, con Paco Ibanez che scriveva: 'Maledico la poesia concepita / come un lusso culturale per i neutrali'. Nanà stava, e credo avesse ragione, con la poesia pura. Ma mi confortava il giudizio di Antonio Machado, che da poco avevamo letto: 'La poesia pura di cui sento parlare critici e poeti, potrà esistere, ma io non la conosco' ».
Ecco perchè ha deciso di dedicare alla povera gente del suo paese natale il suo capolavoro.
Francesco Virga
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