CON SGUARDO ANTICO. SULLE TRACCE DI HILLMAN A RAVENNA
Narra Borges che un soldato longobardo rimase talmente colpito alla vista di Ravenna, da abbandonare il suo esercito, che la stava assediando, e morire difendendo la città che prima aveva attaccato. Narra Borges che Benedetto Croce riferisce che lo storico altomedioevale Paolo Diacono riportava in un suo testo latino l’epitaffio di questo “barbaro”, di nome Droctulft, terribile allo sguardo, terribilis visu facies, ma di carattere benignus – e a partire da questo epitaffio, Borges fantastica. Borges fantastica che a Ravenna Droctulft ha visto qualcosa che non aveva mai visto, o che non aveva mai visto pienamente – una “molteplicità senza disordine”, un “organismo fatto di statue, di templi, di giardini”. E Droctulft secondo Borges non deve essere rimasto impressionato innanzitutto dalla bellezza della città, no – Droctulft è rimasto stupefatto alla vista di Ravenna come noi stessi davanti a “un meccanismo complesso, il cui fine ignoriamo, ma nel cui disegno si intuisce un’intelligenza immortale”.
Traditore o convertito che sia, la storia di Droctulft ripercorre in modo esemplare le sensazioni che ciascun visitatore prova, avvicinandosi alla città emiliana e poi scrutando i suoi millenari mosaici: la sensazione di un sentimento del tempo e della sua sacralità, unita e acuita, adesso, dalla consapevolezza del vero e proprio mito che – complici e carnefici le sue vicissitudini storiche – si è venuto a creare attorno alla città.
Ravenna è una città che, negli anni, ha attirato un numero incredibilmente alto di viaggiatori di prestigio, che hanno poi indicato nel loro viaggio a Ravenna un momento di svolta nella loro vita, o nella loro arte. Nell’Ottocento, due nomi spiccano su tutti: Oscar Wilde, e Gustav Klimt, riguardo al quale è indubbia l’influenza che i mosaici ravennati hanno avuto su alcune delle opere più note, non ultima Il bacio.
Oltre un secolo dopo il passaggio di Klimt in città, negli stessi giorni in cui, oltreoceano, scoppiava la seconda più grande crisi economica del mondo capitalista, compì a Ravenna uno dei suoi ultimi viaggi lo psicoanalista statunitense James Hillman, accompagnato dalla bizantinista nostrana Silvia Ronchey. Fra le menti più fini dell’intero Novecento, l’ottantanduenne Hillman era stato uno dei più importanti innovatori della psicoanalisi. La sua appartenenza alla scuola junghiana, e il suo rapporto personale stretto con Jung stesso negli anni cinquanta, non gli impedirono di tentare, e secondo alcuni di riuscire, una vera e propria re-visione della psicologia, come fu il titolo di uno dei suoi libri più noti, che desse maggior peso allo studio degli archetipi e delle idee collettive, e subordinasse a ciò l’esperienza terapeutica.
Schegge. Frammenti. Tasselli. Mosaici. Hillman non è venuto a Ravenna in vacanza, o per un semplice diletto culturale. Nei dialoghi tra lui e la Ronchey, raccolti da questa nel preziosissimo L’ultima immagine recentemente edito da Rizzoli, si respira la consapevolezza di un viaggio epocale, quasi di un’iniziazione. Hillman sa di essere vicino al termine della sua vita: e se la seconda parte del dialogo con la Ronchey si svolgerà letteralmente sul suo letto di morte a Thompson, California, fino a pochi giorni prima del decesso del grande psicoanalista, davanti ai mosaici di Ravenna Hillman non subisce nessuna conversione come il barbaro Droctulft, ma porta la riflessione sugli archetipi alla soglia della massima consapevolezza.
L’ultima immagine è così al tempo stesso un taccuino di viaggio ed una mappa. Attraverso una città, e attraverso interi secoli di storia occidentale, e di storia delle idee. Scegliere Ravenna è un colpo basso, ermeneuticamente parlando: sulla soglia dell’Adriatico, nell’ultima capitale dell’Impero Romano d’Occidente prima dell’avvento, appunto, dei “barbari” di Teodorico – sulla soglia dell’Adriatico già si respira aria di oriente, di Bisanzio. La civiltà romana, la civiltà bizantina e la civiltà longobarda dialogano nel tessuto urbano e nei monumenti ravennati, ed è con un certo gusto junghiano per le sincronie che Hillman rimarca, nelle prime battute del dialogo, di trovarsi nella città che ha assistito al crollo dell’Impero Romano d’Occidente negli stessi giorni del crollo della borsa di WallStreet. A livello archetipico, Hillman non ha dubbi: “l’immagine primaria, nel momento del crollo, è verde”, come è verde lo sfondo del mosaico di Sant’Apollinare in Classe che in quel momento lui e la Ronchey stavano contemplando. Usare L’ultima immagine come atipica road mapdi Ravenna permette di compiere un’esperienza nuova: quella di psicoanalizzare con Hillman un’intera città. Psicoanalizzando i luoghi, Hillman arrivare a psicoanalizzare, su quel piano collettivo e sovrindividuale che gli era tanto affine, due dei momenti topici della storia occidentale – il V secolo che sancì il crollo dell’Impero e l’inizio dell’Alto Medioevo, e il XXI secolo in cui incautamente ci troviamo a vivere.
Girare per Ravenna con L’ultima immagine sotto il braccio permette anche di soppesare le differenze, di rilievo, tra il pensiero di Jung e di Hillman. Nonostante la loro conoscenza relativamente tardiva – Hillman conobbe Jung nel 1953, otto anni prima della morte del maestro – Hillman fu senza dubbio uno dei discepoli per eccellenza di Jung, e in un certo senso anche un suo successore, all’interno delle complesse dinamiche del C. G. Jung Institute di Ginevra. Hillman però non fece parte della schiera dei meri “ripetitori” delle teorie junghiane, più che un maestro amava definirlo un “nonno”, un “antenato”, e non ebbe remore a proporre revisioni della psicologia e del concetto stesso di archetipo che, implicitamente od esplicitamente, si presentavano come critiche all’impianto junghiano. Andare a Ravenna a parlare di archetipi era per Hillman anche un modo per chiudere una volta per tutta i conti con Jung, a quasi cinquant’anni di distanza dalla sua morte.
A spingere Hillman ad andare fino a Ravenna per iniziare quella che sarebbe diventata la sua ultima opera, c’era stata infatti anche la suggestione di un precedente viaggio di Jung, altrettanto importante per il maestro quanto la visita a Ravenna nel 2008 lo fu per il discepolo. Si tratta di uno degli episodi più indefinibili e più “mistici” della vita dello psicoanalista svizzero. Jung, che era stato a Ravenna già nel 1914, vi tornò nel corso degli anni trenta, sorprendendosi a trovare nel Battistero degli Ortodossi quattro mosaici di argomento biblico di cui non ricordava l’esistenza. Assieme alla sua assistente, si soffermò ad osservare un mosaico che doveva raffigurare Cristo che tendeva la mano a Pietro per salvarlo dall’annegamento, sulle acque del lago di Tiberiade. “Quando fui di nuovo in patria”, scrisse Jung ricordando l’episodio, “chiesi a un mio conoscente che andava a Ravenna di procurarmi le riproduzioni. Naturalmente non riuscì a trovarle, perché poté constatare che i mosaici che io aveva descritto non esistevano!”.
Ravenna fa questi scherzi: polistratificata com’è, innegabilmente mistica grazie all’aurea trasmessa e riflessa dai mosaici e dalla loro luminosità soffusa, come ha indotto un longobardo a mutare vertiginosamente schieramento ha suscitato al fondatore della psicologia analitica un’esperienza che altre scuole di psicoanalisi, ben più severe, avrebbero diagnosticato ai margini della psicosi. Più serenamente Jung, affascinatissimo da quanto accaduto, spiegò l’esperienza riconducendola alla fascinazione che provava nei confronti del personaggio di Gallia Placidia, “questa donna coltissima” costretta a trascorrere tutta la vita “a fianco di un principe barbaro”; e dalla visione di Ravenna trasse lo spunto per parlare, una volta ancora, del carattere “eminentemente storico” e stratificata dell’anima dell’uomo, “impregnata di storia e preistoria”, che in ogni individuo racchiude “tutta la vita del passato che è ancora viva in lui”. Giunti al Battistero degli Ortodossi, Hillman e Ronchey rievocano l’esperienza vissuta da Jung nello stesso luogo sette decenni prima, ma l’americano non può trattenersi dal formulare un’implicita critica, o quantomeno relativizzazione, della visione vissuta dal maestro: “Jung porto con sé a Ravenna la sua psiche transalpina. Non vide cos’altro c’era lì”.
Cos’è questo Altro cui allude Hillman? Questo grande Altro è l’essenza stessa di Ravenna, la contaminazione culturale alla base della sua storia e della sua fortuna artistica, che la rende tuttora una città così dannatamente liminare. Passeggiando tra il Mausoleo di Gallia Placidia e il Battistero degli Ortodossi, Jung semplicemente “non si è accorto” – e su questo Freud avrebbe potuto fatalmente mettere il coltello nella piaga – di trovarsi di fronte ad immagini di chiaro soggetto cristiano, sotto il quale però era riconoscibilissimo, sin negli attributi e nelle sagome dei personaggi, il sottotesto classico, “pagano”. “La profondità storica che Jung portò nella sua visione era nordica, era cristiana, era data dalla sua famiglia, era fatta di immagini bibliche”, conclude Hillman, senza neanche riuscire a fargliene una colpa. “Indubitabilmente dionisiaco”, si trova invece lui ad esclamare di fronte alla raffigurazione di Gesù conservata al Battistero degli Ariani: “questo Cristo battezzato è identico ad un antico dio pagano”. Nello splendido Mausoleo di Gallia Placidia, Hillman e la Ronchey si vedono costretti dopo un po’ a fermare il dialogo: “basta, siamo drogati di immagini”.
Fra i caffè e i ristoranti della Ravenna del 2008, Hillman ripete le sue antiche tesi e inizia ad elaborarne di nuove: “la psicologia è un punto di partenza. Si comincia a realizzare che nella nostra casa esistono molti spazi oltre alla stanza in cui ci troviamo, e che vi abitano altre persone”.È su quest’alterità che Hillman più volte ritorna, fino a renderla una sorta di fil rouge nascosto di tutto il dialogo su L’ultima immagine: anche se tutte le architetture che visitano sono cristiane, tutt’al più di un cristianesimo eretico come quello ariano, il ritorno nascosto del paganesimo sulla superficie a scaglie dei mosaici ravennati è per Hillman fuori discussione. Lamentandosi della soppressione, nel mondo cristiano, dell’immaginazione in generale e dei sogni in particolare, tanto che i padri del deserto si sforzavano di non dormire, Hillman e la Ronchey arrivano alla conclusione che “i sogni appartengono al sottomondo. Un sottomondo infero in cui si riversa e riemerge l’intero mondo pagano”. Ecco perché il Cristo del Battistero degli Ariani può essere “indubitabilmente dionisiaco”. Una sovrapposizione di culture che avrebbe fatto tremare lo stesso Nietzsche, e che avrebbe certo messo a disagio Jung, tanto da fargli rimuovere in partenza, anche nelle esperienze allucinatorie, ogni consapevolezza di questa contaminazione – ma come dimostra lo stesso Libro Rosso, della sua ascendenza e del suo sostrato religioso Jung, figlio di un pastore protestante, non si era mai liberato del tutto, non fino al punto di poterla problematizzare sinceramente.
Quello che invece Hillman può ancora oggi sussurrarci, dalle pagine postume de L’ultima immagine, è proprio una visione nuova del concetto di paganesimo, una visione che scomoda contemporaneamente la logica, l’epistemologia, la storia delle religioni e le nostre attualità psichiche.Una simile visione nella cultura italiana può trovare curiose corrispondenze tanto con l’opera di Roberto Calasso all’Adelphi, alle implicazioni che porta con sé la sua nozione di “innominabile attuale”, quanto con l’immaginario musicale scomodato da certe canzoni dei Baustelle. Del resto Figure del mito, uno dei testi più folgoranti di Hillman, una raccolta di saggi scritti tra gli anni settanta e duemila, è stato pubblicato in Italia proprio dall’Adelphi di Calasso. Lì Hillman si soffermava, di capitolo in capitolo, su un singolo dio della mitologia classica, con qualche détour rivolto anche a Mosè e ad Edipo, rileggendolo con gli strumenti archetipici della psicologia analitica. Il verdetto finale sulla mitologia classica pronunciato durante i giorni di Ravenna fu chiaro, e spiegava retrospettivamente l’importanza assunta dalle “figure del mito” nelle precedenti opere hillmaniane: “questo è il paganesimo: la pluralità contro l’esclusività”, quella cattiva esclusività logica e metafisica portata con sé dal cristianesimo monoteista. E quando sul letto di morte la Ronchey concluse “ti sei sempre sentito un pagano”, Hillman rispose “profondamente, sì”.
Il paganesimo secondo Hillman va inteso come un esercizio di inappartenenza: “tu non sei un sufi o un sacerdote di Dioniso o un buddista, ma puoi sentirti iniziato a ciascuno di questi misteri”, è la semplice spiegazione che ne dà Hillman. Di fronte a questa logica della pluralità il cristianesimo ortodosso trema e inquisisce, ma una città di confine come Ravenna non può che mescolare le carte. “Il paganesimo si definisce nel suo non avere assolutamente a che fare con la fede. Ci si iniziava al paganesimo per aprire gli occhi, per trasformare la propria coscienza, così che la presenza del mito, la vita mitica, inseguisse perennemente la vita materiale, e ne cambiasse il senso”. Ritrovare gli archetipi nel quotidiano, fare leva su di essi per condurre un’esistenza autentica ed, entro una certa misura critica, nietzschianamente vittoriosa.
Definendo il Cristo del Battistero degli Ariani “indubitabilmente dionisiaco” Hillman infatti non si limita ad andare “contro” Jung, ma problematizza e riformula la questione cruciale su cui l’ultimo Nietzsche andò a fare un testacoda. Se il filosofo dello Zarathustra, impazzendo, nei “biglietti della Follia” si ritrovò a firmarsi tanto come “Dioniso” quanto come “il Crocifisso” dopo aver passato la vita a contrapporre i due, le Lettere da Torino sollevano problematicamente la questione “dell’identità della persona in rapporto a un solo Dio, che è la verità, e l’esistenza di più divinità come esplicitazione dell’essere… e come espressione della pluralità all’interno di una stessa”. Di fronte a questo problema, riformulato da Pierre Klossowski con una limpidezza senza pari nel suo Nietzsche, il politeismo e la parodia, la scelta di campo di Hillman è chiara: il paganesimo, con il suo simbolismo problematico ma fecondo. In realtà, la risposta che Hillman avrebbe dato a un Nietzsche sarebbe stata più fine, e più semplice ancora: l’accettazione di questo sovrapporsi di archetipi, che i mosaici di Ravenna testimoniano in maniera lapalissiana.
È proprio qui il senso e il sentimento del paganesimo secondo Hillman: il cristianesimo esclude il paganesimo, e si ritrova quasi inconsapevolmente ad evocarne i fantasmi nei propri mosaici, ma il paganesimo – come forma mentis, più che come dato storico – di per sé non esclude proprio nessuno, a patto che quest’alterità voglia farsi includere. Nietzsche, Jung e Hillman rappresentano i tre pensatori del “Novecento” – ovvie le virgolette, in rispetto del primo, precursore – che, senza appartenere né alla mitografia né all’antropologia dei vari Eliade, Campbell, Girard, più a fondo hanno saputo portare la propria riflessione sul mito e sui suoi archetipi, fino a introdurla nel loro stesso vissuto. E se Nietzsche è campione in fatto di poesia e immaginazione, Hillman è impareggiabile in fatto di lucidità.
“La verità del mito non è mai singolare, mai semplice, mai generale… Il mito dice la verità perché è di questo mondo e per questo mondo, non importa quanto siano le fantasie che dispiega”, scriveva Hillman qualche anno prima di andare a Ravenna, nel saggio che conclude Figure del mito. “Per quanti orchi e draghi metta in scena nei suoi racconti, il mito mostra il mondo così come è e come è eternamente. Mai il mito potrebbe dire, come il Vangelo di Giovanni, il mio regno non è di questo mondo”. Inappartenenza e contemporanea adesione al mondo, questo è il mito secondo Hillman – e anche Ravenna a suo modo ha, o forse è, un mito. E se ancora adesso ci ricordiamo di Droctulft e del suo capovolgimento, se ancora adesso le ultime parole di Nietzsche hanno la loro inattuabile attualità e i libri di Carl Jung e di James Hillman continuano ad essere letti, commentati, venduti, diffusi in improbabili riassuntini da self-help in giro per la rete – se ancora adesso il mito ha il suo Senso, a prescindere dal suo significato, è proprio al mito che ci possiamo lucidamente rivolgere alla ricerca di una logica primigenia che, a monte di ogni aristotelismo e di ogni illuminismo, prima della ragione e quasi prima della parola, già muoveva gli archetipi da cui, in maniera irriflessa, sarebbero giunte a dipendere le nostre singole, contingenti vite. La psicologia a questo punto cesserebbe di risolvere traumi, compito nella quale sempre più la si è relegata nello scorrere dei decenni, e ricomincerebbe a scoprire il compito suo proprio: dischiudere mondi.
Nessun commento:
Posta un commento