17 febbraio 2022

RENZO E LUCIA RACCONTATI DA MARIO PINTACUDA

 




QUELLO CHE NON SAPPIAMO DI RENZO E LUCIA

Mario Pintacuda

Un autore, nella creazione dei suoi personaggi, è libero di inventarli come meglio crede e di immaginarseli come preferisce. Tuttavia, quando questi personaggi diventano universalmente noti e appaiono quasi “reali”, grazie all’efficacia straordinaria con cui ci sono stati presentati, diventano in qualche modo “parte di noi”, stimolano la nostra curiosità, ci inducono a indagare su di loro e a scoprirne i lati meno noti. Ne deriva una sorta di “appropriazione indebita”, per cui “facciamo nostri” i personaggi creati da un altro, rendendoli così “autonomi” dal loro autore e arricchendoli di sfumature che magari da lui non erano state neanche immaginate.

Un esempio evidente di ciò si ricava dai “Promessi Sposi” di Manzoni: alla prima impressione di “sapere tutto” su Renzo e Lucia si contrappone, riflettendo più attentamente, la constatazione di molte zone d’ombra che circondano i due protagonisti.

Anzitutto, Lucia non ha più il padre; e di questo padre non viene mai fatta menzione, nemmeno per inciso. Non sappiamo come si chiamasse di nome questo signor Mondella, che cosa avesse fatto nella sua vita, come mai lui e sua moglie Agnese avessero avuto (in un’epoca oltremodo prolifica) quella sola figlia.

Di Lucia non viene specificata l’età (mentre di Renzo è sottolineata “la lieta furia d’un uomo di vent’anni”): probabilmente non ha nemmeno vent’anni e la perdita del padre deve risalire a diversi anni prima. Ma di questo marito la “buona Agnese” (presentata rapidamente alla fine del cap. II con la precisazione “così si chiamava la madre di Lucia”) non parla assolutamente mai.

Non meno sibilline sono le notizie sui genitori di Renzo: sappiamo solo che “era, fin dall’adolescenza, rimasto privo dei parenti” (cioè dei genitori) e (con l’aiuto di non si sa chi) si era avviato alla professione di “filatore di seta”, una professione “ereditaria, per dir così, nella sua famiglia”.

Ne ricaviamo solo che il signor Tramaglino-padre (anche lui privo di nome proprio) era stato filatore; e possiamo solo immaginare che qualche collega caritatevole del defunto si fosse preso cura del giovanissimo orfano, anche lui figlio unico.

Ora, possiamo divertirci a immaginare Alessandro Manzoni, nel 1821, nella quiete della sua villa di Brusuglio, intento a concepire il suo futuro romanzo, dopo aver letto l’“Ivanhoe” di Scott, con il titolo di “Fermo e Lucia” e con un innumerevole numero di carte e appunti frutto della sua scrupolosa documentazione storica.

Ebbene, probabilmente, quando immaginò i suoi protagonisti (e già fece un atto di straordinario coraggio innovativo scegliendoli poveri ed umili), ci fu un attimo in cui si dovette chiedere come organizzarne la storia familiare; e inevitabilmente, credo, quando un autore immagina un personaggio, c’è qualcosa di sé che entra in quella sua creazione.

Del resto, chi era il padre di Manzoni? Il nobile Pietro Manzoni? O l’amante di sua madre Giulia Beccaria, cioè Giovanni Verri? E che cosa aveva spinto lo scrittore, nel 1805, a rivolgere un carme a Carlo Imbonati, altra figura paterna mancata, nobile ricco e colto con cui sua madre aveva intrapreso una nuova relazione e da cui immagina di ricevere alti consigli morali? («Sentir – riprese – e meditar: di poco / esser contento: da la mèta mai / non torcer gli occhi, conservar la mano / pura e la mente: de le umane cose / tanto sperimentar, quanto ti basti / per non curarle: non ti far mai servo: / non far tregua coi vili: il santo Vero / mai non tradir: né proferir mai verbo, / che plauda al vizio, o la virtù derida»). Le parole che si vorrebbero sentire da un padre, attribuite da Manzoni a chi suo padre non era e non era mai stato.

Sarà per questo che, nei “Promessi Sposi”, i padri sono o inesistenti (come quelli di Renzo e Lucia) o pieni di difetti (come il perfido principe padre di Gertrude, o il padre di Lodovico/Fra Cristoforo che si vergogna delle sue origini mercantili, o il sarto che zittisce costantemente i suoi figlioletti)?

Che cos’altro non sappiamo di Renzo e Lucia?

Ad esempio, non sappiamo quando e come si siano conosciuti. Probabilmente non era così difficile, in un piccolo paese come il loro, che un giovane come Renzo potesse mettere “gli occhi addosso” a una ragazza. Ma si può fare un’ulteriore ipotesi: dal cap. III apprendiamo che Lucia lavorava alla filanda: proprio al ritorno dal lavoro, un giorno, era stata fermata da don Rodrigo e dal conte Attilio, “con chiacchiere… non punto belle”.

Chissà dunque che Renzo, filatore di seta, non avesse conosciuto Lucia proprio alla filanda?

Certo però Lucia non era Milva, che al fascino del padrone della filanda non era insensibile (“Cos'è, cos'è / che fa andare la filanda? / È chiara la faccenda: / son quelle come me. / E c'è, e c'è / che ci lascio sul telaio / le lacrime del guaio / di aver amato te. / Perché, perché / eri il figlio del padrone, / facevi tentazione / e venni insieme a te. / Così, così / tra un sospiro ed uno sbaglio / son qui che aspetto un figlio / e a chiedermi perché”).

C’è ancora dell’altro.

Manzoni, famoso per la precisione e l’accuratezza delle sue descrizioni, non ci dice il colore degli occhi di Renzo e Lucia.

Di Lucia sappiamo che aveva le sopracciglia e i capelli neri: ci viene detto alla sua prima apparizione, in abito da sposa: «lei s’andava schermendo, […] aggrottando i lunghi e neri sopraccigli, mentre però la bocca s’apriva al sorriso. I neri e giovanili capelli, spartiti sopra la fronte, con una bianca e sottile dirizzatura, si ravvolgevan, dietro il capo, in cerchi moltiplici di trecce, trapassate da lunghi spilli d’argento, che si dividevano all’intorno, quasi a guisa de’ raggi d’un’aureola, come ancora usano le contadine nel Milanese». Del colore degli occhi non si dice niente: ma quell’aureola che la circonda basta già a farne una santa.

Anche della Monaca di Monza saranno descritti i “sopraccigli neri”: ma di lei saranno citati esplicitamente i “due occhi, neri neri anch’essi”, occhi che “si fissavano talora in viso alle persone, con un’investigazione superba”. All’aureola di Lucia si contrappone il fosco colore della notte che avvolge quella donna “infelice”.

Di Renzo, invece, biondo o bruno che fosse, con occhi azzurri o neri, Manzoni non fa alcun ritratto fisico: poco importava, del resto, all’autore. Anzi, per Renzo vale forse la stessa osservazione che Manzoni riferisce al cugino Bortolo: «Forse voi vorreste un Bortolo più ideale: non so che dire: fabbricatevelo. Quello era così».

Un’ultima considerazione.

Renzo e Lucia, quando finalmente diventano marito e moglie, si rivelano molto prolifici (a differenza dei loro genitori).

Lucia resta incinta subito dopo le nozze e, dopo la primogenita Maria, mette al mondo “non si sa quanti altri” figli: «Prima che finisse l’anno del matrimonio, venne alla luce una bella creatura; e, come se fosse fatto apposta per dar subito opportunità a Renzo d’adempire quella sua magnanima promessa, fu una bambina; e potete credere che le fu messo nome Maria. Ne vennero poi col tempo non so quant’altri, dell’uno e dell’altro sesso».

Ovviamente, Agnese continua a vivere accanto ai “non più promessi” sposi, nella nuova veste di nonna e babysitter: “e Agnese affaccendata a portarli in qua e in là, l’uno dopo l’altro, chiamandoli cattivacci, e stampando loro in viso de’ bacioni, che ci lasciavano il bianco per qualche tempo».

Se vogliamo spingere lo sguardo più oltre, riusciamo a scoprire che i figli di Renzo e Lucia «furon tutti ben inclinati; e Renzo volle che imparassero tutti a leggere e scrivere, dicendo che, giacché la c’era questa birberia, dovevano almeno profittarne anche loro».

E qua ci possiamo fermare, se no ruberemmo il mestiere a Bruno Civardi, docente nato a Stradella nel 1950 e autore del romanzo “Maria Tramaglino” (2011), sequel dei manzoniani “Promessi Sposi”. Invito dunque a rivolgersi a lui per ulteriori curiosità inedite su Renzo e Lucia.

MARIO PINTACUDA



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