Riprendo da https://comune-info.net/tutta-unaltra-storia/ questo interessante documento:
Tutta un’altra storia
aa.vv.Siamo un gruppo di scienziate/i sociali, appartenenti a diverse discipline, indipendenti o variamente inquadrati nelle università italiane o estere. Ciascuno di noi è quindi professionalmente abituato ai tempi lunghi della ricerca, alla verifica dei dati e delle fonti, alla responsabilità autoriale, al rigore argomentativo e al confronto con i colleghi. Siamo abituati anche a riconoscere i limiti, gli errori, le storture e la piattezza di narrazioni basate sull’uso opportunistico dei dati, sulla riduzione della complessità e su contrapposizioni manichee – che si tratti della versione mainstream o di narrazioni complottiste.
Proprio per la valenza critica e anti-egemonica delle nostre discipline, riteniamo che oggi chi le pratichi non possa eludere quantomeno una discussione aperta e franca sulle politiche autoritarie, discriminatorie e arbitrarie con cui il governo italiano, e non solo, sta affrontando la diffusione del Covid-19. Siamo coscienti del fatto che gran parte dei nostri colleghi e colleghe, implicitamente o esplicitamente, non abbiano considerato un problema il fatto che il governo abbia puntato esclusivamente sulla campagna vaccinale come via di uscita dalla pandemia. I vaccini anti-Covid sono utili per diminuire l’incidenza di morte e forme gravi di malattia per le persone anziane e/o con maggiori rischi; ma gran parte delle scelte politiche adottate in questi due anni hanno ignorato gli effetti sociali, politici e culturali delle misure prese in nome della salute pubblica.
L’intreccio fra pandemia e gestione della pandemia sta erodendo in profondità il mondo intorno a noi, irrigidendo la struttura delle soggettività che lo abitano e lacerando la trama relazionale fra umani, così come fra umani e non-umani, nonché i rapporti di fiducia e riconoscimento reciproco che chiamiamo “società”. Questa disgregazione avviene proprio quando l’enormità del collasso climatico richiederebbe all’umanità intera di mettere da parte divergenze, conflitti e interessi specifici, nel tentativo di evitare insieme una catastrofe ecologica. Non esprimerci a riguardo significherebbe colludere con la distruzione in corso.
Il discorso mediatico e la pianificazione degli interventi di contenimento della pandemia si sono basati esclusivamente sulle raccomandazioni di un gruppo esiguo e selezionato di specialisti in scienze mediche e biologiche, nonostante sia ovvio che tali disposizioni avrebbero dovuto essere adottate solo dopo un’attenta analisi della loro ricaduta sul tessuto sociale. Il peso soverchiante dato alle scienze biologiche, rappresentate sempre come detentrici di “verità” indiscutibili, ha ridotto il dibattito sulle decisioni politiche a un conflitto immaginario tra settori “pro-scienza” e “anti-scienza”. Un’intera branca della nostra disciplina, l’antropologia medica, sin dagli anni Sessanta studia la costruzione sociale della scienza medica, le definizioni di malattia e salute, gli effetti patogenici e patoplastici delle culture, mostrando con etnografie dettagliate quanto la medicina sia un campo di dibattito e scontro tra visioni culturali e politiche divergenti, spesso sottoposte a forti pressioni commerciali e abituate a legittimare le proprie contrapposte razionalità attraverso l’uso dei dati.
È proprio la consapevolezza dell’origine e destinazione umana dei fatti culturali, come la chiamò Ernesto de Martino, ad imporre che ogni scoperta e avanzamento scientifico, quale lo sviluppo in tempi rapidissimi dei vaccini per il Covid-19, sia sottoposto al vaglio della collettività attraverso la promozione di un dibattito sociale allargato al di là della ristretta cerchia dei tecnici. La politica e il dibattito pubblico sono determinanti strutturali della salute; le politiche sanitarie e la gestione della salute pubblica devono essere costantemente sottoposte ad una critica sociale che reclami il diritto all’interazione tra medici e pazienti, il diritto ad autodeterminare corpi, salute e terapie – come ci ha insegnato la critica culturale femminista – nonché il diritto ad attribuire ai decisori politici la responsabilità delle loro scelte
Tutta un’altra storia
Noi, sottoscrittori di questo testo, abbiamo scelto di praticare le scienze sociali anche e soprattutto per la loro capacità di produrre sapere critico e di mettere a nudo le conseguenze nefaste delle strategie egemoniche. Ciò che abbiamo lungamente studiato, tutto il sapere prodotto dalle nostre discipline nell’ultimo secolo e mezzo, ci ha costruiti nelle menti e nei corpi. Oggi sentiamo una contraddizione lacerante tra la potenzialità delle scienze sociali di decostruire la narrativa emergenziale, e la loro mancata applicazione a quella che viviamo come una svolta repressiva di proporzioni storiche.
Ci sembra evidente ormai che la gestione pandemica sia stata improntata fin da subito al primato del profitto e all’uso sistematico della violenza materiale e simbolica – soprattutto mediatica e istituzionale, ma anche militare – nei confronti della popolazione. La governamentalità pandemica si è dispiegata attraverso l’uso politico dei sentimenti di paura e angoscia, con l’abbandono al contempo dei malati e della sanità territoriale, l’incertezza esistenziale dovuta al continuo mutamento del panorama normativo, la spettacolarizzazione della morte, la militarizzazione del territorio, l’ampliamento della violenza strutturale e della diseguaglianza economica, l’ulteriore concentrazione del potere militare e finanziario, e la diffusione di forme odiose e perniciose di controllo e discriminazione.
A fronte delle trasformazioni radicali indotte da queste politiche nelle relazioni sociali e nella vita quotidiana degli individui, la macchina amministrativa e burocratica della governance neoliberista non ha mai rallentato, anzi, si è fatta ancor più schiacciante. Una valanga di regolamenti, circolari, adempimenti, richieste, form, moduli, si è riversata su ogni ambito della vita pubblica, compresa l’università, facendo aumentare ulteriormente la quota di lavoro descritta da David Graber come bullshit jobs. In Italia questa gestione autoritaria ha raggiunto il suo apice con l’introduzione del green pass e la progressiva diffusione dell’obbligo vaccinale, a fronte dei dubbi che milioni di cittadini avevano e hanno di fronte a questi vaccini. Le critica e il dissenso sono sparite di fronte a una insistente retorica morale in cui il politicamente corretto e l’appello emergenziale all’unità nazionale si sono sostituiti alla ragione e alla dialettica.
Tuttavia, con l’inizio di una nuova ondata di restrizioni a febbraio del 2022, sarebbe importante riconoscere pubblicamente che le politiche portate avanti finora (lockdown selettivi, controlli armati, zone a colori, tracciamento, green pass, obbligo vaccinale) non hanno avuto l’effetto annunciato sul contenimento del contagio – i dati ufficiali pongono l’Italia tra le nazioni con la più alta percentuale di morti attribuiti al Covid-19 da inizio pandemia – ma hanno avuto invece conseguenze devastanti sul tessuto sociale e politico del Paese. Il presupposto di una gestione pandemica che non ha precedenti nella storia umana, ovvero l’idea che l’umanità iper-tecnologica del terzo millennio abbia gli strumenti per tracciare e debellare un virus contagioso, si è rivelato una fallace illusione di superba onnipotenza.
Oggi che i contagi sono totalmente fuori controllo, mantenere le misure adottate negli ultimi due anni, anzi sperimentare forme di segregazione sociale inedite per i non vaccinati, come si sta facendo in questi ultimi mesi, è ingiustificato e pericoloso, frutto di un perverso accanimento senza alcuna motivazione sanitaria. Il fallimento degli obiettivi annunciati viene nascosto con la riproposizione della logica del capro espiatorio: prima erano i runner, i bambini, gli asintomatici, i cinesi, i migranti, i no-mask, i “negazionisti”; oggi sono, per tutti, i no-vax, categoria stereotipata e generica, in cui si include addirittura chi non ha aggiornato le vaccinazioni nei tempi previsti, sempre variabili, e contro la quale sono state scatenate vere e proprie campagne d’odio mediatico promosso istituzionalmente, che stanno producendo profonde scissioni e infinito dolore nel corpo sociale.
Sembra essere in azione una vera e propria stregoneria epistemologica, capace da un lato di deformare parole, numeri, analisi per continuare a difendere ciecamente un’impostazione coercitiva spinta al punto da non poter ammettere alcun ripensamento, dall’altro di trasformare ogni critica – per quanto autorevole e disciplinarmente fondata – in complottismo, ignoranza, “analfabetismo funzionale”, addirittura fascismo. L’accusa di essere fascisti è stata costruita per dipingere in modo disprezzante e fuori dal registro morale della nazione chiunque si opponga o anche solo ponga interrogativi. Riteniamo invece che i diritti difesi dalla Costituzione antifascista siano stati e siano messi a rischio da quelle stesse persone che hanno abdicato al dubbio e hanno urlato all’allerta antifascista. Il regime autoritario non è certo rappresentato da piazze composite e popolate, bensì da un governo di unità nazionale direttamente designato dalle élite finanziarie mondiali che gradualmente ma violentemente sta spezzando ogni libertà civile per poi insinuarsi nel corpo sociale con il virus del controllo reciproco, della diffidenza, del sospetto, del pensiero unico e della delazione. Tutta un’altra storia, insomma.
I rappresentanti politici hanno evocato la strage in continuazione, fomentando intenzionalmente la paura come strumento per la costruzione del consenso. Questa necro-narrazione è stata utilizzata dallo stesso presidente Draghi, che il 22 luglio 2021 sostenne la campagna vaccinale affermando che l’appello a non vaccinarsi è un appello a morire; non ti vaccini, contagi, muori, o fai contagiare e fai morire. È sorprendente che tra i numerosi colleghi che hanno lavorato per decenni su biopolitica e necropolitica, pochi li abbiano associati ai dispositivi terrorifici e di grande presa sull’inconscio collettivo quale il “codice nero”, il limite di occupazione delle terapie intensive dopo il quale i medici sarebbero costretti a decidere chi curare e chi lasciar morire. La sua applicazione è stata ventilata a dicembre 2021, quando l’occupazione delle terapie intensive era ben sotto le soglie di emergenza.
Ci sembra evidente che il dibattito pubblico sia stato sistematicamente e intenzionalmente bloccato attraverso la continua riattualizzazione del trauma collettivo vissuto a marzo 2020, la cui icona sono i camion della Protezione Civile nel bergamasco carichi di cadaveri. Se l’obiettivo delle politiche fosse stato il benessere della popolazione, il dolore e la paura collettiva prodotta allora avrebbero dovuto essere integrati, stemperati e compensati con un’attenta comunicazione pubblica. Invece la violenza verbale dei rappresentanti delle istituzioni è stata tesa a mascherare decenni di politiche neoliberiste che hanno amplificato la crisi dei fondamenti sociali del mondo odierno.
Malattia nella società o società malata?
L’antropologia medica insegna che qualunque processo di gestione della malattia, sin dalla sua definizione, ha un implicito ideologico, radicato nel sistema cosmologico e negli assunti culturali di riferimento. La gestione del Covid-19 non è stata da meno. A prescindere dalla sua realtà fenomenica e quantitativa, essa si è dimostrata l’occasione per un’epocale ristrutturazione dei rapporti di produzione e una riplasmazione delle relazioni sociali mediante un’accelerazione delle torsioni autoritarie con cui è avanzato il capitalismo negli ultimi quattro decenni. Questo aspetto si nota sia nelle modalità con le quali sono state gestite le restrizioni al movimento, sia per come è stata portata avanti la campagna vaccinale, con l’obiettivo primo e ultimo di far riprendere produzione e consumi.
L’obiettivo perseguito è stato quello di non fermare la macchina, di non danneggiare il profitto privato su grande scala: nel pieno dell’emergenza, quando i runner erano perseguitati con i droni in diretta televisiva e i piccoli negozianti costretti a chiudere, non hanno mai chiuso i cancelli delle grandi fabbriche del nord legate a Confindustria, già principale responsabile della mancata chiusura delle fabbriche della Val Seriana, uno dei focolai iniziali del Covid-19. Ma che il green pass avesse un ruolo immediato nella regolamentazione del rapporto tra le classi era chiaro sin da quando un rappresentante della principale organizzazione imprenditoriale italiana ha dichiarato che i non vaccinati erano i disertori di una guerra che solo la tenuta democratica consentiva di non fucilare al muro. Sul piano materiale, il green pass ha consentito di evitare cause per infortuni sul lavoro nel caso di contagio. Sul piano più generale e politico, ha prodotto un dispositivo distopico che aumenta il controllo sulla vita di lavoratori e lavoratrici, offrendo un ulteriore strumento di minaccia nelle mani dei datori di lavoro. Chi e quando deciderà che la fase di “emergenza” sarà passata? Le politiche emergenziali, in particolare il green pass, saranno ritirate o funzioneranno come un dispositivo di controllo e di governo che verrà riattivato periodicamente?
Molte organizzazioni e movimenti di sinistra si sono impegnate a elaborare manifesti, programmi, proposte, affinché la diffusione del Covid-19, con i lutti e le sofferenze che ha portato, servisse da insegnamento: la pericolosità della malattia, infatti, è legata non solo alle caratteristiche del virus, ma anche allo stato di salute delle nostre società occidentali, e avrebbe permesso di ripensare in chiave collettiva l’intera gestione della salute pubblica. Anzitutto, è stato chiaro da subito che il Covid-19 ha effetti molto più gravi in persone affette da malattie non trasmissibili come ipertensione, obesità, diabete, malattie croniche cardiovascolari, respiratorie e tumorali, diffuse soprattutto nei paesi del Nord del mondo. In secondo luogo, l’azione del virus è potenziata dall’inquinamento e in particolare dall’esposizione al particolato ultrafine presente nell’atmosfera. In terzo luogo, il colossale spostamento di risorse dalla sanità pubblica a quella privata, accelerato proprio dalla pandemia, ha reso molto più difficile l’accesso e la protezione della salute soprattutto delle categorie più fragili della popolazione.
L’illusione era che le classi dirigenti – politiche, imprenditoriali, mass media – finalmente rimediassero ai danni prodotti da decenni di inquinamento legale e di tagli alla spesa pubblica, così come dall’affidamento ai privati di crescenti fette di welfare, ad esempio rendendo le scuole capaci di operare nel nuovo contesto, aumentando le dotazioni di trasporto pubblico, riducendo l’inquinamento atmosferico. Due anni dopo questa illusione si è rivelata fallace. Le politiche sono andate in una direzione completamente differente; la spesa pubblica italiana in sanità è ancora molto al di sotto della media europea, il PNRR prevede che scenderà ancora dopo l’aumento del 2021, mentre il processo di privatizzazione sta diventando sempre più strutturale.
Quello che qui ci interessa notare è una contraddizione ulteriore: se il sistema sanitario nazionale era nato – in particolare nelle sue esperienze più avanzate e consapevoli – con l’idea che un elemento imprescindibile della salute fosse costituito dalla democrazia e dalla partecipazione delle comunità, oltre che (e più che) dall’utilizzo massiccio di farmaci, l’approccio governativo al contenimento della crisi sanitaria ha avuto caratteristiche opposte. Non si è puntato sul “coinvolgimento” partecipativo dei territori, non si è posta attenzione alle disuguaglianze sociali. Al contrario, con l’introduzione del green pass la promozione della “salute” è stata perseguita esclusivamente attraverso misure che avrebbero dovuto limitare la circolazione del virus attraverso la compressione del diritto alla mobilità e al lavoro per milioni di persone: esattamente l’opposto dell’idea di salute come partecipazione democratica e lotta alle disuguaglianze sociali. Tra il definanziamento del sistema sanitario pubblico e utilizzo di strumenti di controllo sociale come il green pass vi sono nessi sia teorici sia concreti: da un lato, le difficoltà del sistema sanitario pubblico – dovute anche ad anni di tagli – sono la giustificazione per l’utilizzo di strumenti di controllo (“è necessario evitare di intasare le terapie intensive”); dall’altro lato, il green pass scarica sui cittadini la responsabilità della diffusione del contagio piuttosto che chiamare in causa le scelte terapeutiche nazionali e l’efficacia degli ospedali.
Le misure di gestione del Covid-19 riescono a mantenere una loro legittimità perché non vengono mai contrapposte a un’analisi esaustiva della loro iatrogenesi, ovvero dei loro effetti collaterali nocivi: medici (ritardi cronici nelle analisi diagnostiche, negli interventi chirurgici, complicazioni dovute alla paura a recarsi in ospedale, effetti collaterali dei vaccini, ecc.); psicologici (aumento vertiginoso dei casi di depressione e ansia, soprattutto nelle fasce di età più giovani, diffusione della percezione di chi ci sta accanto come una potenziale fonte di contagio, ecc.); sociali (produzione di disoccupazione e povertà, strozzamento delle piccole attività produttive e commerciali, odio sociale e discriminazione), politici (continue sospensioni arbitrarie di diritti costituzionali, introduzione di inediti sistemi di controllo digitali di massa, stigmatizzazione del dissenso.); epistemologici (fidelizzazione obbligatoria di ricercatori e accademici, derisione pubblica di ogni posizione critica, ecc.).
L’uso intenzionale della violenza frantuma la resistenza psico-fisica dei soggetti e produce adesione alla cosmovisione del torturatore. Come società, siamo stati violentati al punto che adesso sembra impossibile immaginare un diverso modello di gestione della crisi sanitaria da Covid-19. Eppure, risposte intelligenti e praticabili alla crisi pandemica sono state avanzate da molte realtà (di ricerca, di azione sociale, di attivismo politico) fin dalla tarda primavera 2020. Una diversa gestione della crisi – una gestione non violenta – era possibile fin dall’inizio e avrebbe avuto tutt’altri risultati.
Per un modello non-violento di salute pubblica
Come etnografi, in questi due anni abbiamo dovuto restare lontani dalle popolazioni che molti di noi hanno frequentato a lungo, ai quattro angoli del mondo. Che ne è stato di loro, in questa situazione? In 70 paesi del mondo 370 milioni di persone appartenenti alle popolazioni cosiddette “indigene” sono stati investiti dello stesso modello che è stato imposto a noi maggioranze occidentali: l’onda d’urto della narrazione pandemica è stata globale. Le misure di isolamento e distanziamento presso popolazioni che praticano la socialità di gruppo hanno prodotto un aumento della fragilità e della dipendenza; la violenza della gestione pandemica ha accelerato lo sconvolgimento dei sistemi alimentari e il travolgimento delle medicine locali; ha causato l’interruzione del lavoro (che spesso consiste in servizi informali e alla persona) e la difficoltà di ricevere e aggiornare informazioni culturalmente adeguate e nelle lingue locali; ha indotto isolamento e alienazione. In questo modo, si sono ulteriormente aggravate le disparità di salute legate a razza, status economico e impatto della colonizzazione, mentre la “cattiva sorveglianza” veniva esacerbata con pestaggi, multe eccessive e carcere. Con l’attenzione dei governi concentrata solo sulla pandemia, diversi attori ne hanno approfittato per realizzare attività minacciose per molte popolazioni fra cui la dis-istituzionalizzazione delle riserve, l’occupazione di terre indigene, l’intensificazione delle attività estrattive, il maltrattamento dei migranti, l’aumento delle appropriazioni di terre (land grabbing).
Tuttavia, in molti luoghi le popolazioni si sono autorganizzate e hanno trovato soluzioni autonome alla crisi: dall’autoproduzione dei dispositivi di protezione all’uso di rimedi medicinali locali per rafforzare l’immunità delle persone e della comunità. In Chiapas, la risposta alla pandemia ha comportato una dichiarazione di allarme rosso di alcune comunità sotto il comando dell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale, in cui nessuno poteva più entrare o uscire, e chi rientrava nella propria comunità da zone turistiche era obbligato a osservare un periodo di quarantena prima di raggiungere la propria famiglia. Questo, però, non si è tradotto in una gestione individualizzante della malattia: nessun malato è stato isolato in casa, ma medici e promotori della salute andavano casa per casa dove ci fossero segnali di Covid-19. Le popolazioni si sono spesso opposte anche a un semplice trasferimento negli ospedali “del governo”. Si sono costruiti dei protocolli semplici e si è proceduto a fare diagnosi su base clinica, cioè a partire dallo studio dei sintomi (i tamponi sono disponibili a prezzi esorbitanti solo in centri urbani lontani). Le popolazioni si sono curate utilizzando farmaci di facile reperibilità e di costo accessibile, senza negare la validità delle tradizioni locali di cura legate ai saperi tradizionali, all’uso di piante e ritualità specifiche.
Non è possibile comprendere l’attuale diffidenza nei confronti delle campagne vaccinali attuali senza considerare i gravissimi crimini di cui le case farmaceutiche si sono già rese responsabili ai danni delle popolazioni indigene. Proprio Pfizer nel 1996 sperimentò un farmaco anti-meningite non approvato sulla popolazione Hausa nigeriana, uccidendo e rendendo invalidi decine di bambini e bambine locali. La reazione di indignazione collettiva a questa infamia neoliberale, documentata anche dagli etnografi (soprattutto locali) portò al rafforzamento dei protocolli di consenso informato che sono ora parte dei requisiti etici scientifici fondamentali. Non fu la casa farmaceutica, ma il dibattito pubblico sulle sue azioni, che fece avanzare la scienza. Le battaglie per l’accesso universale alla salute devono considerare anche questa diffidenza giustificata verso la biomedicina nei contesti colonizzati: all’inquestionabile rivendicazione di liberalizzare i brevetti dei vaccini per garantire la possibilità di scelta universale, dobbiamo accompagnare l’assoluto rifiuto verso i progetti di vaccinazione obbligatoria di massa di cui l’Italia sembra essere capofila, per non trasformare una giusta rivendicazione di uguaglianza in una retorica che legittima le stesse pratiche economiche neocoloniali promosse dai think-tank finanziati dalle case farmaceutiche.
Applicato alle nostre latitudini, un modello non-violento di gestione pandemica avrebbe comportato, come minimo, una comunicazione mediatica improntata a ragionevolezza, pacatezza e informazione; il potenziamento della sanità territoriale e, attraverso di essa, la sperimentazione di protocolli di cure primarie contro il Covid-19 ben al di là della “vigile attesa” ancor oggi raccomandata; la libertà di scelta terapeutica; la valutazione di tutte le alternative terapeutiche in base alla loro efficacia non solo in vitro, la promozione delle risorse di salute di singoli e collettivi (miglioramento della dieta, promozione dell’attività fisica, massima diffusione di competenze auto-terapeutiche di base, attivazione di reti di sostegno e mutuo aiuto); nonché, naturalmente, interventi strutturali a favore dell’edilizia scolastica, del trasporto pubblico, dei pensionamenti anticipati, del risanamento ambientale.
Libertà di ricerca e ruolo sociale dell’Università
In Italia – unico paese al mondo – anche la libertà di ricerca e l’insegnamento universitario sono sottoposti al ricatto dell’obbligo vaccinale: in questo modo si disciplina il corpo docente eliminando dalle università il dissenso sulla gestione pandemica. L’alternativa tra assumere un farmaco o rinunciare al proprio lavoro come conseguenza dell’introduzione del lasciapassare vaccinale mette in gioco questioni fondamentali che riguardano il rapporto tra stato e società, tra sfera pubblica e sfera privata, tra corpi individuali e corpo sociale, tra legge e legittimità, tra produzione del sapere ed esercizio del potere. Sono tutti temi su cui l’antropologia lavora da decenni ed è proprio sulla base delle conoscenze accumulate dalla disciplina che oggi ci sentiamo legittimati, e quindi obbligati, a prendere una posizione.
In primo luogo, al di là delle nostre specifiche visioni e decisioni personali sulla questione dei vaccini, la nostra solidarietà va a chi, in questi ultimi mesi, ha subito pressioni intollerabili come conseguenza delle scelte relative alla propria salute, al punto da ritrovarsi in alcuni casi obbligato/a a lasciare il lavoro o l’attività di ricerca (la libera scelta terapeutica, ricordiamolo, è garantita dalla Costituzione italiana e sancita anche dal Parlamento Europeo). Per una comunità scientifica che si basa quasi interamente sulla condivisione e la comparazione dei risultati di ricerche individuali, la rinuncia di un collega rappresenta un danno irreparabile per tutte/i. Nessuna giustificazione ragionevole di tipo epidemiologico o emergenziale può compensare queste perdite e queste ingiustizie. Soprattutto, crediamo che l’Università debba ribadire la sua indipendenza, come istituzione, dalle scelte governative; per il benessere reale del tessuto democratico di un paese, non si può promuovere la lealizzazione forzata di tutta la sua classe intellettuale. Il pensiero critico, il dubbio, il confronto e la dialettica sono l’essenza della democrazia, e sono indispensabili al benessere di qualunque corpo sociale.
Per questa ragione, chiediamo a tutti i colleghi (dentro e fuori l’università, strutturati e precari) che abbiano voglia di discutere a partire dalle considerazioni qui espresse di battere un colpo, di sottrarsi alla criminalizzazione del dissenso che ci sta paralizzando e di provare ad applicare al nostro presente gli strumenti sui quali ci siamo lungamente allenati altrove.
In chiusura lanciamo una call per un seminario aperto che terremo in primavera, su queste tematiche. Chiediamo a chi fosse interessato a portare un contributo al dibattito, un’esperienza o un esempio specifico, di mandare per mail un abstract di 200 parole e una breve nota biografica a contatti@tuttaunaltrastoria.info. Sarà nostra premura rendere noto a breve luogo e data del seminario, che avverrà comunque nel mese di marzo o aprile 2022 e in Italia. Le tematiche che intendiamo affrontare riprendono tutti i punti affrontati in questo documento.
Varie parti d’Italia, 1 febbraio 2022
Prime firme:
Stefano Boni Nadia Breda Maddalena Gretel Cammelli Duccio Canestrini Stefania Consigliere Osvaldo Costantini Mimmo Perrotta Stefano Portelli Cecilia Vergnano Cristina Zavaroni….
http://tuttaunaltrastoria.info
Per adesioni, informazioni, contatti, scrivi a contatti@tuttaunaltrastoria.info
Per la lista aggiornata delle adesioni o per aderire a questo invito (non è necessario essere affiliati a un’università o centro di ricerca). Per discutere, rispondere o mandare un abstract scrivi a contatti@tuttaunaltrastoria.info.
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