OGGI COME IERI: DA TUCIDIDE ALL’UCRAINA
Mario Pintacuda
La storia dell’umanità gronda di esempi di bieco imperialismo, di crudele assoggettamento di Paesi indipendenti e liberi, di giustificazioni ipocrite delle più violente azioni di guerra. Ciò in questi giorni appare quanto mai evidente ed attuale, considerando la tragedia che si sta verificando in Ucraina.
Sarà il caso dunque di rileggere alcune pagine dello storico greco Tucidide, che a questo proposito sono sempre illuminanti.
Nel 416 a.C. Atene decise di assoggettare Melo, piccola isola delle Cicladi e colonia spartana, che non accettava di aderire alla lega delio-attica, costituendo un nefasto esempio per le altre città. Prima di cedere la parola alle armi, gli Ateniesi inviarono gli ambasciatori per imporre ai Meli la resa.
Nell’ampia sezione conclusiva del V libro (capitoli 85-111), Tucidide propone la discussione tra Ateniesi e Meli, che costituisce un vero e proprio esempio di analisi politica dell’imperialismo, ispirato a una visione cinica e pragmatica della realtà.
Rivolgendosi agli abitanti di Melo, gli ambasciatori ateniesi proclamano, a chiare lettere, la legge del più forte (in quegli anni sostenuta dal sofista Crizia): «Noi crediamo infatti che per legge di natura chi è più forte comanda: che questo lo faccia la divinità lo crediamo per convinzione, che lo facciano gli uomini lo crediamo perché è evidente. E ci serviamo di questa legge senza averla istituita noi per primi, ma perché l’abbiamo ricevuta già esistente e la lasceremo valida per tutta l’eternità, certi che voi e altri vi sareste comportati nello stesso modo se vi foste trovati padroni della stessa nostra potenza» (V 103; trad. F. Ferrari).
La “Machtpolitik”, la politica fondata sulla forza, sarà ugualmente presente nelle parole di Trasimaco nel I libro della Repubblica di Platone: “io affermo che la giustizia non è altro che l’interesse del più forte” (338 c, trad. Lozza).
Di fronte a questa provocazione, i Meli tentano di convincere i loro interlocutori appellandosi all’utile che potrebbe derivare loro da un atteggiamento conciliante (in caso di sconfitta finale, gli Ateniesi sconteranno a caro prezzo le loro scelte imperialistiche, V 90); citano inoltre il favore divino (“giacché noi, pii, ci opponiamo a persone ingiuste”, V 104) e la loro alleanza con Sparta (V 104).
[Decisamente non mancano analogie possibili con la situazione attuale in Ucraina: chiamate Russi gli ateniesi, Ucraini i Meli e Spartani gli USA e l’Europa e il gioco dell’attualizzazione (sia pure “mutatis mutandis”) è fatto.]
Alle obiezioni dei Meli, la replica degli ambasciatori ateniesi è categorica: la loro “polis” non ha alcun timore di perdere la sua egemonia (ἀρχή, V 91), ritiene inutile confidare negli dèi e considera vana la fiducia dei Meli in un intervento degli Spartani, giacché costoro “considerano onesto ciò che è piacevole e giusto ciò che è utile” (V 105).
Per di più, gli Ateniesi attaccano il “cosiddetto sentimento dell’onore” che, “aiutato dalla forza di un nome ingannevole” (V 111, 3), ha condotto molti alla rovina: il sentimento dell’onore è un miraggio, che deve essere fugato da un’osservazione disincantata della realtà.
Dionigi di Alicarnasso biasimava Tucidide per aver fatto pronunciare agli Ateniesi affermazioni sconvenienti, che neanche “un pirata o un brigante” avrebbero osato fare; dal canto loro i moderni, analizzando il dialogo, si sono chiesti quale fosse il reale pensiero dell’autore.
Secondo Werner Jaeger, nel brano Tucidide mostra “l’imperialismo di Atene nella sua logica estrema e all’apogeo della sua consapevolezza”, ma ritiene che lo storico si limiti a riferire i fatti senza prendere posizione (in questo seguendo la lezione dei sofisti, che in quegli anni proponevano “discorsi duplici”, δισσοὶ λόγοι, su qualunque tema, proprio per evidenziare la possibile duplicità di ogni prospettiva).
Anche la critica più recente tende a credere che lo storico stia oggettivamente a metà strada fra le due parti, senza difendere l’imperialismo ateniese ma senza comprendere davvero il dramma dei Meli, ritenuti implicitamente colpevoli di un’errata valutazione delle circostanze; e tuttavia si ha, a livello subliminale, la sensazione di un’implicita dissociazione dalla decisione degli Ateniesi, che appare priva di lungimiranza. E indubbiamente, rispetto al celebre discorso di Pericle (II 35-46), in cui Atene era definita “scuola dell’Ellade” (παίδευσις), Tucidide mostra in questo dialogo una ben diversa immagine: la città è divenuta la città “tirannica”.
Ma a questo mutamento aveva indotto la guerra, con il suo deleterio effetto corruttore: “in tempo di pace e di prosperità le città e i privati cittadini provano sentimenti migliori, per il fatto che non incontrano necessità che si oppongono al libero volere; al contrario, la guerra, che toglie il benessere delle abitudini giornaliere, è una maestra violenta (βίαιος διδάσκαλος) e adatta alla situazione del momento i sentimenti della folla” (III 82, 2).
Per l’appunto.
La guerra è “una maestra violenta”, stravolge giudizi e criteri, onnubila le menti, induce reazioni, innesca sempre nuovi odi.
Gli antichi Meli sono come gli ucraini di oggi: si oppongono fermamente a una potenza superiore, che si arroga il diritto di imporre la sua forza giustificandone anzi l’uso come “necessario”.
Ma se Putin conoscesse la storia (cosa che, guardando lui e le sue frequentazioni, appare in dubbio), saprebbe anche come andò a finire quella guerra imperialista condotta dall’antica Atene. Dopo il disastro di Egospotami, assediata per terra e mare, nel marzo del 404 a.C. Atene si arrese agli Spartani: dovette consegnare la sua flotta, sciogliere la lega delio-attica, abbattere le Lunghe Mura, accettare al Pireo una guarnigione spartana e modificare le istituzioni in senso oligarchico (ne derivò un anno di spietata repressione attuata dai “Trenta tiranni” filospartani).
Chi maneggia i fuochi d’artificio, rischia di vedersi esplodere gli ordigni fra le mani.
Chi affida le sue speranze di dominio alle armi, rischia di vedersele ritorcere contro.
Chi pensa di avere in tasca una vittoria semplice ed immediata, rischia di impantanarsi in un conflitto endemico e sanguinoso, dai costi umani ed economici altissimi.
Lo dicevano, per l’appunto, gli antichi Meli ai soverchiatori Ateniesi: «Noi conosciamo le vicende della guerra, che talvolta danno una sorte comune alle due parti avverse più di quanto ci si potrebbe aspettare dalla disparità delle forze; e per noi il cedere immediatamente ci priva di ogni speranza, mentre con l’agire c’è ancora qualche speranza di restare ritti in piedi» (V 102).
E oggi, a far apparire gli invasori per quello che sono veramente, bastano le immagini dei bambini spaventati che piangono, delle famiglie che scappano dalle loro case, dei condomini sventrati dai missili, di un popolo che imbraccia le armi e combatte senza arrendersi e senza umiliarsi.
Ci rifletta su chi ucraino non è e si permette in queste ore di giudicare negativamente un popolo che non conosce sulla base della sfacciata propaganda putiniana.
La storia, “maestra violenta”, dovrebbe essere studiata e conosciuta meglio, da tutti.
La “legge del più forte”, a ben vedere, si basa sull’opinione (proclamata unilateralmente) di credersi “più forti” e di mettersi dalla parte di una presunta “ragione”. Ma sono i fatti e gli eventi a dimostrare, col tempo e senza ombra di dubbio, chi è davvero “più forte”.
E comunque la “forza” non consiste certo nel dispiegamento di armi e truppe, bensì nell’adesione incondizionata ai principi di libertà, dignità e parità fra tutti gli uomini di tutti i Paesi, nel rifiuto di ogni atto unilaterale di violenza, nello smascheramento di tutte le menzogne, nella ferma opposizione a ogni prepotenza mascherata sotto ragioni pretestuose.
MARIO PINTACUDA
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