ADAMO ED EVA E LE PRIME VOLTE
In una delle maggiori opere della letteratura italiana, Centuria, Giorgio Manganelli mostrava come pochissime pagine potessero bastare a dire tutto: a dire l’essenziale, a dire il superfluo, e a dire anche “lo stile che voglio usare qui è questo, e non un altro”. Le storie di Centuria, così come quelle di altri libri in qualche modo simili (Sillabari di Goffredo Parise, ad esempio), hanno solo quel finto difetto molto spesso attribuito alle opere che non ne hanno di veri: finiscono troppo presto. Libro Bianco di Piero Scanziani, terzo e per ora ultimo arrivato nella serie di ristampe che Utopia sta dedicando all’autore svizzero, dopo Avventura dell’uomo ed Entronauti, inizia proprio come uno di quei racconti: con cinque pagine perfette, nelle quali Pablo, il protagonista, viene ucciso, si ritrova nell’aldilà, e ricostruisce brevemente gli eventi che lo hanno portato alla morte.
Funzionerebbe benissimo se finisse così, invece per fortuna è solo l’inizio di un romanzo che ha molto altro da offrire. Tanto per cominciare: com’è questo aldilà? È un prato pieno di esseri umani nudi, senza più appetiti di alcun genere, e soprattutto incapaci di comunicare, essendo giunti lì al termine di vite lontanissime nel tempo e nello spazio. A tutti preme comunque di raccontare come abbiano vissuto e concluso la propria vita, ma essendo difficilissimo trovare qualcuno che parli la loro stessa lingua, si tratta quasi sempre di monologhi. Tutti morti, tutti pazzi. La situazione è così assurda che anche il protagonista fatica ad accettarla. In uno dei rari passaggi dove Scanziani si concede un po’ di umorismo, Pablo si ritrova ipnotizzato dal sedere dell’uomo che ha davanti:
Egli aveva distrattamente appoggiato l’occhio sull’individuo che lo precedeva, tre passi innanzi: era di pelle rossa, un po’ grasso e, nel camminare, i suoi glutei compivano un sobbalzo brusco e bizzarro, che ripeteva con precisione meccanica a ogni passo. Fissando lo strano movimento muscolare, Pablo fu nuovamente colto dall’angosciosa persuasione che tutto quanto vedeva non era reale, troppo inverosimile, troppo incredibile, troppo delirio della mente o folle sogno. I glutei sobbalzavano, i volti passavano impenetrabili, le nudità lo attorniavano sconciamente. Tutto questo non poteva essere vero, era un’allucinazione, egli stava impazzendo. La disperazione gli gridava:
«Sei folle, sei morto, sei un cadavere pazzo».
Nondimeno, girovagare per questo prato senza fine, incrociando tutti gli esseri umani vissuti e morti prima e dopo di lui, porta Pablo a raccogliere diverse testimonianze, che Scanziani racconta talvolta con un gusto per la fiaba calviniano. Le storie narrate dalla principessa, dal contadino, dal marinaio, dal soldato, dall’imperatore, sono tutte occasioni per spaziare tra i generi letterari, e per attraversare la vastità delle diverse esperienze umane. Scanziani si cimenta nell’impresa di voler bene, di provare tenerezza per un’intera specie; vuole abbracciare un catalogo di vite praticamente infinito ma non può che procedere per campioni, per singoli esseri umani, ognuno con i suoi limiti e i suoi desideri e i suoi modi a volte discutibili di soddisfarli. Nell’aldilà in cui si trova il protagonista, ad ogni modo, non verrà espresso alcun giudizio individuale; ne arriverà invece uno collettivo, e Pablo si scopre scelto, per qualche strana ragione, a far da avvocato difensore di Adamo ed Eva.
Nessuna sentenza può essere emessa senza prima una deposizione, e allora una buona parte di Libro Bianco consiste nel racconto della vita di questi primi due esseri umani, gli unici non ombelicati, così come l’hanno trascorsa una volta abbandonato l’Eden. I due personaggi, com’è noto, provengono da un testo sacro, la Genesi; ma a Scanziani, più che l’aspetto religioso, interessa quello mitologico. Adamo ed Eva e i loro figli, allora, valgono un Achille o un Ulisse, vengono usati in qualità di archetipi, forniscono pretesti; innanzitutto, per accostare ai racconti di tante ultime volte, quelle degli uomini e delle donne nel prato, una storia fatta invece solo di prime volte; e poi per trovare, nella nostalgia di Adamo per l’Eden, uno specchio di quella dei morti per la vita.
Libro bianco, pubblicato per la prima volta nel 1968, non è invecchiato benissimo in ogni sua parte: tutte le volte che una donna fa o dice qualcosa, ad esempio, Scanziani fornisce di lei una descrizione anatomicamente piuttosto accurata, mentre di rado accade lo stesso per un uomo, e la cosa si ripete con una puntualità tale da poter dare fastidio. Nelle deposizioni di Adamo però la scrittura di Scanziani, che ha sempre un’inclinazione per il termine desueto e per la costruzione elegante, si fa particolarmente evocativa, raggiungendo livelli di intensità e vertici tali da far dimenticare ogni possibile difetto del suo romanzo. Si tratta, in particolare, del racconto della scoperta dei fenomeni naturali, dei sentimenti, dell’interiorità – il primo sonno, il primo sogno di un essere umano; e soprattutto delle varie sfumature, in certi casi cupe, di cui cui si possono colorare lo stupore e la meraviglia di fronte a ciò che ancora non si conosce.
Eva, accoccolata per terra, stava parlando ad Abele. Gli diceva:
«Puoi alzarti, Caino se n’è andato».
Discosto, Adamo li guardava, ancora tutto sconvolto dalla lotta fraterna. Eva strappò una foglia umida e pulì la fronte, dov’era rimasto il segno della clava, pur senza traccia di sangue. Intanto ripeteva:
«Alzati, Abele».
Ma Abele taceva.
Era sopraggiunto Set, tenendo per mano la bambina più piccola: entrambi guardavano il caduto, meravigliati che restasse lì, tutto abbandonato, senza gesti né parole. Eva prese una mano del figlio e la scosse, sorpresa:
«Perché non ti alzi?».
Ma il braccio ricadde, molle. La madre, turbata, si volse verso Adamo e gli domandò:
«S’è addormentato?».
Adamo non sapeva. Abele era chiuso in una mutezza profonda, era più silenzioso di chi tace, più silenzioso di chi dorme.
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