02 luglio 2023

RILEGGERE LACAN

 

 

[È uscito da poco per Mucchi Editore il saggio Letteratura e reale lacaniano. La critica psicoanalitica e l’al di là del senso di Alberto Russo Previtali. Ne pubblichiamo un brano tratto dal primo capitolo, intitolato La critica psicoanalitica e il reale lacaniano, ripreso da https://www.leparoleelecose.it/?p=47234].

 

LO SCRITTORE ANTICIPA LO PSICOANALISTA: OPERA E SINTOMO

di Alberto Russo Previtali

 

Una delle linee portanti del progetto di una critica orientata dal registro lacaniano del reale consiste nel tentativo di esplorare le ragioni profonde della sublimazione di un autore, il rapporto artistico fondamentale che egli intrattiene con gli oggetti pulsionali della sua opera. Si tratta di una dimensione che è inerente alle opere, che è sempre presente in testi che si siano confrontati seriamente con il reale pulsionale. Nel caso di testi fortemente destrutturati, il carattere informale andrà pensato rispetto alle necessità e alle possibilità della sublimazione, ad esempio come esplorazione crudele dell’impossibile (Artaud), o come strenua resistenza simbolica nel crollo di un ideale antropologico (Zanzotto e Pasolini).

 

Aprendoci a questa dimensione, non temiamo il rischio di ricaduta, anche implicita, in un orizzonte patografico, poiché la nostra indagine si propone di non uscire mai dallo spazio testuale (dallo spazio dell’opera): a livello biografico e clinico l’autore è morto e niente potrà e dovrà risuscitarlo. Si potrebbe parlare allora di “fantasma artistico”, ma escludendo subito la possibilità di parlare del fantasma di quella persona reale che è l’autore, i cui conflitti psichici sono per noi inconoscibili. Ciò che è decisivo è il nucleo di densità dell’opera, la pietra singolare e particolarissima attraverso e attorno a cui essa si costruisce (o si destruttura); ciò che, per dirla con Zanzotto, si manifesta come «significante puro», come «macchina reale donde si è generato tutto il monstrum»[1]; o ancora, ciò che, per dirla con Blanchot, si dà come «parola che sostiene tutte le parole»[2]. Questo residuo (lettera o immagine) è al tempo stesso la condizione e il fine dell’analisi testuale, l’oggetto da cui partire (come ipotesi di lettura) e l’oggetto da costruire (attraverso l’interpretazione). Così, se in un contesto di ripensamento della prospettiva strutturalista può apparire condivisibile un ammonimento come quello lanciato da Elio Gioanola rispetto al rischio di una valorizzazione delle «armonie prestabilite della pura testualità», da rigettare in modo assoluto è invece, ancora una volta, la sua regressiva proposta di soluzione: considerare la “malattia” come «la via regia d’accesso all’universo dell’opera»[3].

 

In questo contesto, appare invece ben orientata la proposta formulata dallo psicoanalista Pierre Bruno a partire dal suo confronto con l’opera di Artaud e dalla riflessione dell’ultimo Lacan. Secondo Bruno, occorre considerare l’opera d’arte fondata come un sintomo, ovvero come una fissazione pulsionale capace di mostrare i limiti del simbolico: «il sintomo è la nominazione del simbolico. L’arte si trova così fondata come sintomo, e non più come formazione dell’inconscio»[4]. La contraddizione è solo apparente. L’analogia con il sintomo deve essere intesa infatti come un modo di fare emergere una dimensione di chiusura dell’opera rispetto alla dimensione differenziale del linguaggio, e non ovviamente come l’invito a una rinnovata forma di psicocritica. Per Bruno, l’opera non rivela i sintomi dell’autore; l’opera non è un sintomo, non è come un sintomo, ma è fondata come un sintomo: il suo nucleo creativo e sublimatorio è un residuo reale non trattabile, che al tempo stesso causa, determina e orienta il dire, lo impedisce, lo rende incompleto, lo buca. In questo movimento, la letteratura si manifesta soprattutto come un trattamento della pulsione, e il movimento differenziale del significante rivela la figuralità come dimensione fondamentale del linguaggio. Tuttavia, come diremo e approfondiremo nei saggi del volume, il livello di intersezione sul piano figurale deve essere considerato rispetto a un livello ancora più profondo: quello che riguarda il rapporto tra il linguaggio e lalingua, ovvero tra il linguaggio e il suo fondo inarticolato, pulsionale, affettivo e puramente fonematico (come ricorda Jacques-Alain Miller: «l’omofonia è il motore di lalingua. Per questo motivo, immagino, per caratterizzare una lalingua Lacan non trovava di meglio che evocare il suo sistema fonematico»[5]). Se dunque, come dice Lacan nel seminario XX, «il linguaggio è costituito da lalingua» ed è «un’elucubrazione di sapere su lalingua»[6], allora lo è anche l’inconscio: «bisognerebbe dunque dire – lo dico con precauzione – che anche l’inconscio giustamente detto freudiano è un’elucubrazione di sapere su lalingua»[7].

 

Il linguista Jean-Claude Milner ha ricostruito in modo approfondito il cambiamento della visione del rapporto tra psicoanalisi e linguistica nel percorso di Lacan, partendo dall’idea che nel primo classicismo lacaniano, quello che ha come testo-manifesto Funzione e campo della parola e del linguaggio, l’interesse per la linguistica fosse motivato dalla possibilità di allargare il campo delle scienze galileiane. La linguistica saussuriana cioè, attraverso il movimento differenziale del significante che la fonda, sembrava permettere non solo uno studio scientifico di oggetti culturali, ma anche, al tempo stesso, una sovversione della concezione tradizionale della natura. L’interesse verso la linguistica come modello scientifico per la psicoanalisi viene in seguito superato da Lacan con l’approdo al tema di lalingua e della linguisteria. Secondo Milner, Lacan a un certo punto ha considerato sistemato il problema della scienza e del “galileismo esteso” (pur se a torto) e ciò lo ha portato, nel suo “secondo classicismo”, a situare la ricerca di una base del suo discorso non più sulla linguistica come scienza, ma sul linguaggio stesso, sulla possibilità di esistenza del linguaggio, sul factus loquendi come proprio dell’uomo, ribattezzato per questo come “parlessere”. Con il tema della linguisteria, il riferimento alla linguistica viene dunque ridotto alla sua possibilità di esistenza, agli effetti prodotti dall’approccio linguistico di concepire il fatto che si dia il linguaggio: «l’affermazione immemorabile “gli uomini parlano” ( = linguaggio) ha assunto ormai una portata radicalmente nuova da quando una linguistica è possibile»[8]. La linguisteria sarebbe dunque il modo di risituarsi rispetto all’affermazione immemorabile dopo che quest’ultima è stata alterata dalla possibilità di esistenza della linguistica. Poiché, se è vero che «ciò che è importante per l’inconscio non è la scienza linguistica come tale, ma il linguaggio», è altrettanto vero che la possibilità stessa della linguistica arricchisce le possibilità di pensare l’inconscio. Nel lavoro di costruzione dell’inconscio come elucubrazione di sapere su lalingua, la psicoanalisi dovrà dunque ricordarsi che esistono non solo «gli scrittori, così cari a Freud, ma anche qualche linguista. Jakobson può illuminare tanto quanto Goethe o Dostoevskij»[9]. Ma i rapporti tra questi saperi limitrofi devono essere pensati, a partire da lalingua, in modo correlativo e reversibile: ogni discorso può illuminarne un altro e riceverne a sua volta illuminazioni.

 

Possiamo quindi, a partire da queste argomentazioni, avvicinarci di nuovo al problema complesso e inesauribile dei rapporti tra letteratura e formazioni dell’inconscio. Senza pensare di poterlo risolvere in modo esaustivo, è possibile giungere a due punti fermi. Il primo è rappresentato dalla prospettiva che vede la letteratura e le formazioni dell’inconscio legati da una base comune a livello strutturale (movimento differenziale lungo i vettori della metafora e della metonimia ed effetti prodotti dalle altre logiche fondamentali della figuralità, come la negazione e l’inclusione). Questa base deve essere pensata, in modo ancora più radicale, come esposizione all’ingovernabilità prima di lalingua, al fatto bruto che l’uomo è parlante, che la sua lingua è innanzitutto e per sempre lingua materna, fonematicità impastata con l’affettività. Il secondo punto riguarda, come si è detto, l’impossibilità di assimilare sic et simpliciter l’opera letteraria a un sogno o a un sintomo. Il lavoro artistico e letterario, a differenza di quello delle formazioni dell’inconscio, è finalizzato a creare un nuovo rapporto simbolico con il mondo; è un tentativo di inscrivere il singolare dell’autore (esperienza del limite, alterazione o traduzione del rapporto fondamentale con l’oggetto) nell’universale dell’ordine simbolico, facendo esistere un modo inedito di esporsi alla lingua, un modo inedito di darsi del reale:

 

C’è poesia ogni volta che uno scritto ci introduce in un mondo diverso dal nostro, e, dandoci la presenza di un essere, di un certo rapporto fondamentale lo fa diventare ugualmente nostro. […] La poesia è creazione di un soggetto che assume un nuovo ordine della relazione simbolica con il mondo[10].

 

Sarebbe riduttivo pensare il lavoro dell’espressione del “rapporto fondamentale” come un atto di comunicazione. La possibilità di fruizione per il destinatario è solo un effetto dell’operazione di inscrizione nell’ordine simbolico del reale singolare dell’autore attraverso la parola. Un effetto del tentativo congiunto di esprimere e trattare, di far emergere e velare il reale pulsionale. Il poeta (lo scrittore, l’artista) appare allora come colui che è in grado di entrare in contatto in modo ineguagliabile con ciò che, in quanto inassimilabile al significante, si dà come inaudito, come inedito. Non si tratta più di pensare la possibilità di un’esplorazione delle virtualità del linguaggio, ma di riportare nel linguaggio qualcosa che è proprio solo al poeta, il suo insostenibile singolare (prodotto dalla morsa dei legami sociali). Egli fa esistere nel linguaggio (nella forma), con un atto singolare, qualcosa che non vi esisteva: un impensato. Con il suo gesto, lo fonda a partire dall’impossibile; fa un miracolo: dà la possibilità all’impossibile di manifestarsi. Ora, questa visione del lavoro letterario mette fuori gioco una concezione della critica psicoanalitica come applicazione dei concetti della psicoanalisi alla letteratura. In effetti, se può darsi opera d’arte fino al limite estremo di sussistenza di una forma, se il compito dell’opera non è solo dare una forma socializzabile a dei contenuti scabrosi, ma cercare di esporre il più possibile il lavoro simbolico alla forza plasmante dell’impossibile, allora la psicoanalisi dell’arte e della letteratura può darsi come sapere che si applica al suo oggetto solo in una finzione, producendo l’effetto nefasto di occultare il suo potenziale conoscitivo più prezioso.

 

Si tratta di un problema capitale con il quale, com’è noto, si è confrontato anche Freud, oscillando tra diverse posture. La sua riflessione più avanzata su questo punto è quella che vede i poeti-artisti come «alleati preziosi» della psicoanalisi, come anticipatori dello psicoanalista nell’esplorazione delle «conoscenze dello spirito»[11]. Jean Starobinski ha ricostruito con precisione le oscillazioni e i timori che hanno caratterizzato il rapporto di Freud con il linguaggio della letteratura (e con l’arte). Nel saggio Psychanalyse et connaissance littéraire, la concezione del poeta come anticipatore viene sottoposta a un’analisi critica. Secondo Starobinski, nel discorso di Freud il poeta appare come un «mediatore tra l’oscurità della pulsione e la chiarezza del sapere sistematico e razionale», come un mero «fornitore di una ‘materia prima’ torbida»: una collocazione che lo pone in un’«umiliante» sudditanza rispetto alla scienza e al suo discorso. Il critico vuole capire le ragioni che spingono Freud a rinchiudersi spesso in una «teoria che considera l’arte come una soddisfazione compensatrice e quasi come un ripiego»[12]. Per farlo, cerca di interpretare lo stesso Freud in modo freudiano, di accerchiare i nodi inconfessabili che sostengono la sua «aggressione contro l’artista», giungendo così alla conclusione che essa sia dovuta a una viscosa prossimità speculare, che sia cioè la reazione al rischio «di essere trattato da letterato e da ‘poeta’»[13]. Se Starobinski forza qui un po’ la mano, è probabilmente per meglio fare risaltare la discrepanza tra la reale posizione enunciativa del discorso di Freud e le prese di distanza suddette, che altro non sono che un escamotage per fare fronte all’esigenza storica di introdurre nella cittadella della scienza un «modello antropologico» costruito solo come un «edificio di parole»[14]. Il merito di Freud è certamente quello di non avere mai abbandonato il suo oggetto e l’approccio scientifico con cui voleva indagarlo, anche se ciò lo ha messo nella difficilissima situazione di trovare un metalinguaggio all’altezza del suo compito. In questa ricerca, Freud non ha mai potuto escludere il ricorso alla letteratura, alla sua posizione enunciativa, così come, per la natura stessa del suo oggetto di studio, non ha mai potuto assumere un metalinguaggio scientifico compiuto.

 

Lo stile con cui Lacan ha presentato le sue teorie dimostra un’assunzione profonda del legame inestricabile che il discorso della psicoanalisi mantiene con il suo oggetto. L’oscurità barocca della parola lacaniana sembra esibire un’accettazione del rischio che corre il discorso psicoanalitico di vedersi «trascinato dalla tendenza inventiva della sua propria retorica»[15]. Ma, come si è detto, è proprio partendo da quella retorica che Lacan ha cercato una possibile scientificità per il discorso freudiano, ancorandolo alla possibilità di esistenza della linguistica. E in questo ritorno egli ha posto il poeta (l’artista) al livello più nobile tra quelli in cui l’aveva posto Freud: quello di anticipatore “alla pari” con lo psicoanalista.

 

Nella fase del ritorno a Freud attraverso i concetti centrali della linguistica strutturale, è la poesia a ricoprire un posto privilegiato. Il modello della funzione poetica proposto da Jakobson (a partire da Saussure) è un punto d’appoggio imprescindibile per rinforzare la prospettiva dell’inconscio strutturato come un linguaggio, fondata sul primato del significante (effetto del gesto teorico di sovversione dell’algoritmo saussuriano). La parola del poeta e il suo lavoro di esplorazione testimoniano e rendono visibile questo primato. L’idea freudiana di anticipazione è dunque qui portata all’estremo: la formulazione della teoria psicoanalitica, inevitabilmente discorsiva (senso organizzato in modo lineare, per unità di significato, con privilegio della comunicatività), sarà sempre “in ritardo” rispetto alla parola letteraria, parola testuale per eccellenza, nella quale il senso è prodotto dalle relazioni e dalle interazioni tra gli elementi del significante (metafore, isotopie, ripetizioni, rime, allitterazioni etc.). In questa concezione “forte” dell’anticipo di sapere, la letteratura non ha solo il compito di offrire alla teoria la “materia prima” da lavorare, ma viene assunta come fenomeno linguistico e antropologico fondante, correlato, come si è detto, con la struttura dell’inconscio.

 

Con la svolta del seminario VII, «con il passaggio dal grande Altro alla grande Cosa», questa prospettiva viene portata alle sue estreme conseguenze, in un superamento interno che segue «il passaggio dal significante al limite del significante (‘non tutto è significante’) dal primato del simbolico al primato del reale»[16]. È proprio in questo passaggio che Massimo Recalcati situa la possibilità di rilevare «la svolta radicale che Lacan impone alla cosiddetta psicoanalisi applicata all’arte, facendola virare inusitatamente in direzione di una psicoanalisi implicata all’arte»[17], nella quale è l’artista a insegnare allo psicoanalista qualcosa sul suo proprio oggetto. Il passaggio dal simbolico al reale implica il superamento della prospettiva dell’alleanza strutturalista tra psicoanalisi e arte, il cui punto di vista permette di riportare l’anticipo dell’artista sempre all’interno della struttura: nel migliore dei casi esso può svelare, concretizzare, scoprire qualcosa che già apparteneva potenzialmente alla psicoanalisi. Nella prospettiva del reale invece, il lavoro dell’artista si attua in una dimensione nella quale non è possibile stringere un’alleanza scientifica. Ciò è testimoniato da molti punti del tortuoso percorso lacaniano, nel quale i riferimenti all’arte e alla letteratura hanno sempre una valenza di orientamento. Lacan pensa attraverso la letteratura – applicando la letteratura alla psicoanalisi – tre fondamentali nomi del reale: 1) la Cosa, nel seminario VII, in cui avviene lo spostamento del «centro della meditazione lacaniana dal simbolico (dall’Altro scritto con la A priva di barra) al reale (come ciò che scrive, in quanto irriducibile al simbolico, sull’Altro una barra: A/ )»[18]; 2) lalingua, tema errante che guida la riflessione del seminario XX. Ancora, dedicato al problema dell’amore; 3) la lettera-litura, che, presentata nello scritto Lituraterra, in apertura degli Autres écrits, rinnova la riflessione lacaniana sulla lettera.

 

Questi nomi-concetto, estratti dal sapere della letteratura (e in particolare della poesia), conferiscono alla letteratura stessa, all’interno delle costruzioni teoriche che sono chiamati a sorreggere, uno statuto particolarmente fondante. È a partire da essi e attraverso di essi, ma anche su di essi e attorno ad essi, che sono nati, si sono nutriti e costruiti i tentativi di incontrare il reale dei testi dei grandi autori contemporanei che sono oggetto dei saggi critici qui riuniti.

Note

 

[1] A. Zanzotto, Tentativi di esperienze poetiche (poetiche-lampo) (1987), in Id., Le poesie e prose scelte, a cura di S. Dal Bianco e G.M. Villalta, Milano, Mondadori, 1999, p. 1316.

[2] M. Blanchot, Approche de l’espace littéraire, in Id., L’espace littéraire (1955), Paris, Gallimard, 2012, pp. 4

[3] E. Gioanola, Psicoanalisi, ermeneutica e letteratura, Milano, Mursia, 1991, pp. 13-14

[4] P. Bruno, Antonin Artaud. Realtà e poesia, Milano, et al., 2011, p. 187.

[5] J.-A. Miller, Théorie de lalangue, in J. Lacan, J.-A. Miller, La troisième, Théorie de lalangue, Paris, Navarin, 2021, p. 88.

[6] J. Lacan, Il seminario. Libro XX. Ancora (1972-1973), Torino, Einaudi, 2011, p. 133.

[7] J.-A. Miller, Théorie de lalangue, cit., p. 88.

[8] J.-C. Milner, De la linguistique à la linguisterie, in École de la cause freudienne (a cura di), Lacan, l’écrit, l’image, Paris, Flammarion, 2000, p. 13.

[9] Ivi, p. 14.

[10] J. Lacan, Il seminario. Libro III. Le psicosi (1955-56), Torino, Einaudi, 1985, p. 92.

[11] S. Freud, Delirio e sogni nella Gradiva di W. Jensen (1906), in Id., Saggi sull’arte, la letteratura e il linguaggio, Torino, Bollati Boringhieri, 2002, p. 460.

[12] J. Starobinski, La relation critique (1970), Paris, Gallimard, 2001, pp. 307, 313.

[13] Ivi, p. 314.

[14] Ibid..

[15] Ivi, p. 317.

[16] M. Recalcati, Il vuoto e il resto. Il problema del reale in Jacques Lacan (1993), Milano, Mimesis, 2013, p. 96.

[17] Id., Il miracolo della forma. Per un’estetica psicoanalitica, Milano, Mondadori, 2007, p. 8.

[18] Id., Il vuoto e il resto, cit., p. 57.

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