Esperienza e scrittura
(autobiografica) secondo Luigi Meneghello
Su Jura – una raccolta di saggi
autobiografici di Luigi Meneghello – troviamo una riflessione preziosa che
ci aiuterà nel nostro lavoro su lettura
e racconto di sé.
Lo scrittore veneto, autore sublime di Libera nos a Malo e I
piccoli maestri, spiega il suo interesse in particolare per
l’effetto della scrittura sull’esperienza:
«Mi interessa in particolare quello che si presenta come l’aspetto meno ovvio
dei rapporti tra esperienza e scrittura; l’effetto della seconda sulla prima, il modo
in cui la scrittura si oppone alla transitorietà dell’esperienza.
L’esperienza è flusso, attorno a noi tutto scorre, siamo immersi in un fiume,
c’è il fluire del tempo, il fluire della vita biologica e quello della vita
sociale, la società cambia attorno a noi, con ritmi che a volte paiono perfino
più rapidi dei ritmi biologici […]. Scrivendo si sottrae qualcosa a questo
flusso. È come attingere acqua da un fiume con una scodella, e sembra di aver
preservato almeno qualcosa del senso delle nostre
esperienze.»
Più
avanti, Meneghello si chiede anche: quale è la «relazione tra il ruolo
originario della scrittura e quello specializzato delle scritture letterarie?».
E ci invita a concentrarci su alcuni aspetti dei molti in gioco: «Come,
con quali forze, trasformiamo ciò che ci accade, e ciò che diciamo a voce su
ciò che ci accade, in uno specchio di parole scritte?»
Ancora
oltre, quando riflette «su ciò che è avvenuto e sta avvenendo nel nostro
tempo», ci propone domande e considerazioni che trovano nuovi echi e nuova
attualità, a distanza di quasi quarant’anni, soprattutto per l’uso un po’
caotico che facciamo della scrittura con i telefoni, il web, i social network.
Scrive:
«Il
ruolo stesso della scrittura in senso lato sta trasformandosi. C’è stata una
serie di innovazioni tecnologiche, nuovi mezzi per registrare l’esperienza. […]
Nei processi già in atto, manca la selettività che è invece intimamente
associata col semplice esercizio della scrittura: e si viene creando attorno a
noi un ambiente piuttosto caotico. Si direbbe che stiamo tentando di
riprodurre, con le nostre deboli forze, il caos iniziale in cui le forme erano
indifferenziate…
Sembra innegabile intanto che siamo di fronte a una crisi della concezione
tradizionale della scrittura, anzi si può domandarsi se stiamo assistendo alla
fine della cultura scritta: che naturalmente comprende in particolare la fine della
letteratura, delle scritture che hanno intenti letterari.»
Meneghello
poi riflette su come anche gli scrittori già negli anni ottanta fossero
disposti ad «assecondare il fluire sempre più rapido dell’esperienza, a mimarlo
in libri e scritti caotici. Se il ritmo accelera, anche loro accelerano. Si
scrive in fretta, ma soprattutto a ruota libera, e con l’intesa che ciò che si
scrive non deve durare. Lo status dello scritto si riavvicina a quello del
parlato. La voglia stessa di discriminare, di scegliere tra i dati
dell’esperienza su una base diversa da quella che caratterizza le chiacchiere,
sembra svanita. La roba che si scrive è esplicitamente destinata a venire
buttata via.»
Ora,
senza attardarci a sottolineare quanto Meneghello avesse visto lontano, e
quanto siano attuali le sue parole – soprattutto con riguardo alla scrittura
sui social network, in quella continua autorappresentazione nella quale siamo
trascinati – è importante sottolineare che noi vorremmo provare, con la
lettura e la scrittura autobiografica, a contrastare proprio
questo caos, quell’espressione «a ruota libera». Non vogliamo assecondare il
fluire sempre più rapido dell’esperienza, non vogliamo mimarlo in «scritti
caotici» che avvicinano lo status dello scritto a quello del parlato. Vogliamo,
invece, recuperare la voglia di «discriminare, di scegliere tra
i dati dell’esperienza su una base diversa da quella che caratterizza le
chiacchiere».
Poi
lo scrittore veneto si concentra sui «rapporti fra il parlato e lo scritto.
Per me, dice, il parlato si associa con la naturalezza, l’immediatezza, la
spontaneità.
È come se ci fosse un fondo di idee e sentimenti “naturali” al quale posso
attingere direttamente, senza stare a pensarci su. Invece lo scritto ha a che
fare per me con la scelta, la ricerca, la fatica. Naturalmente quando poi si
arriva a ciò che si cerca (cioè si sente che si è toccata la zona giusta, e
l’oggetto quasi si vede) le cose cambiano, la mente
che scrive trova le parole con la semplicità e facilità con cui abitualmente
parla uno che parla facilmente. Ma per arrivare a quei momenti di grazia,
spesso ce ne vuole di pentimenti, e sgorbiature!»
Meneghello
sottolinea anche un’altra differenza, che giudica importante, fra parlato e
scritto. Si parla in mezzo agli altri, ma scrivendo si è soli. I
testi letterari sono prodotti della solitudine: meno soggetti al
condizionamento di un uditorio, e forse a ogni altra specie di
condizionamento.
Lo
scrivere, aggiunge, ha un’altra strana (la definisce proprio
“strana”) funzione:
«mi
pare un ottimo mezzo per difendersi dall’eccesso delle comunicazioni
specialmente parlate a cui si è esposti, la marea della pubblicità, il chiasso,
il troppo e il vano nel quale ci troviamo immersi. Scrivendo ho l’impressione
di usare un filtro o forse si tratta di un altro tipo di aggeggio, che mi dà il
senso di non dover gridare tra gente che grida. È così che scrivere , per me, è
quasi per definizione scrivere poco, o piuttosto scrivere sempre ma
concludere poco e di rado. In pratica, cercare qualcosa che forse non c’è,
cancellare molto, fare e rifare le pagine, e far passare alla fine solo quelle
che paiono un po’ meno sbagliate, un po’ meno goffe o vacue, o sguaiate.»
Quindi
si occupa dei diversi modi in cui l’esperienza può esprimersi nella scrittura.
In primo luogo c’è la
questione del distacco tra l’una e l’altra, un distacco necessario: ci vuole
una separazione sensibile, in pratica un intervallo di tempo.
«Sembra»,
scrive, «che le nostre passioni non possano favorire la scrittura finché non si
mescola il contrario della passione. Si scrive, idealmente, in uno stato che è
insieme di eccitazione e di calma. E per arrivarci, normalmente è necessario
che sia passato del tempo».
In secondo luogo, secondo
l’autore di Libera nos a Malo, ci dobbiamo chiedere: «in quale
grado la qualità, il pregio delle scritture dipende dalla qualità
dell’esperienza piuttosto che da quella della scrittura stessa?».
La
risposta articolata di Meneghello è quasi sorprendente, ma è in linea con quel
che poco prima abbiamo definito la relazione dinamica di azione e retroazione
fra esperienza (e lettura) e scrittura.
Scrive
infatti:
«Qualche
volta, anche nel caso di scritti memorabili, sembra che ciò che conta
veramente, ciò che ci importa di più e ci tocca più in profondo, sia la natura
dell’esperienza che sottostà a un libro. Il modo come è scritto (entro certi
limiti, s’intende: tutto ciò che si dice, e tutto ciò che è umano, vale
esclusivamente entro certi limiti) non ha molta importanza. Un libro come
quello giustamente famoso di A è scritto in modo abbastanza ordinario; e un
altro quasi altrettanto famoso, il libro di B, anch’esso del tutto degno della
sua fama, è scritto con commovente imperizia; ma entrambi funzionano benissimo
in virtù delle esperienze eccezionali da cui sono nati; mentre d’altro canto il
libro di C che comunica esperienze non molto meno straordinarie, e inoltre è
scritto molto bene, quasi troppo, non pare alla fine un libro veramente
migliore di quei due, come se la qualità della scrittura non incidesse sul vivo
di questa specie di opere: anzi, a tratti la preziosità del dettato può perfino
sembrare una distrazione, un difetto…»
Se
ancora non siamo abbastanza sorpresi da queste considerazioni di Meneghello,
facciamo attenzione a come prosegue:
«Naturalmente
non è sempre facile distinguere ciò che appartiene alla materia, e,
rispettivamente, alla forma: all’esperienza o alla scrittura. A volte nel disadorno,
nello sciatto, nell’ingenuo, o d’altro canto nel pomposo, nel compassato, nel
pedantesco, si annida una forza subdola o palese che mette in crisi le nostre
categorie abituali…»
Non
è certo il caso di arrivare a conclusioni incontestabili. Ci interessa invece
questa sospensione del giudizio: da qui partiamo
noi nel nostro lavoro di dar forma alle esperienze; sospendiamo ogni giudizio.
Lasciamo che siano i singoli autori del lavoro autobiografico a definire questa
relazioni e come le rispettive forze si equilibrino.
L’atto
stesso di ricordare chiede, per venire alla luce con una certa coerenza, un
abbozzo di forma, per così dire: insomma, i ricordi per essere tali devono
essere selezionati, assumere una struttura temporale; e quando scriviamo diamo
continuità e profondità a questo sforzo, rafforziamo, organizziamo queste
strutture.
Scrive
ancora Meneghello, proprio su ciò: «[…] Capisco che è meglio non pretendere di
risolvere la questione: l’esperienza e la scrittura si presentano come due
aspetti della stessa cosa. Forse questo vale anche per l’esperienza e la
parola, con la complicazione che quando parliamo non possiamo poi prendere in
mano per un riesame gli strati di aria in cui abbiamo formato le parole».
E
conclude: «Insomma, non solo non me la sento di dire se conta di più la
singolarità dell’esperienza o quella della scrittura, ma non so nemmeno se la
distinzione ha veramente senso.»
La terza osservazione che Meneghello
ci propone a proposito di esperienza e scrittura, riguarda i rapporti
fra il vero e l’immaginario. Cita l’Orlando Furioso. Lo cita
per sostenere che «forse si può dire solo che la distinzione tra esperienza
vere e immaginarie, nei bizzarri reparti della mente dove si attingono le
nostre scritture, è soltanto una distinzione di comodo».
Ecco,
da qui vorrei partire con le prossime osservazioni su questo tema che mi sta
molto a cuore.
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