08 luglio 2023

ESPERIENZA E SCRITTURA SECONDO LUIGI MENEGHELLO


 

Esperienza e scrittura (autobiografica) secondo Luigi Meneghello

luigi gavazzi

Su Jura – una raccolta di saggi autobiografici di Luigi Meneghellotroviamo una riflessione preziosa che ci aiuterà nel nostro lavoro su lettura e racconto di sé.
Lo scrittore veneto, autore sublime di Libera nos a Malo e I piccoli maestri, spiega il suo interesse in particolare per l’effetto della scrittura sull’esperienza:

«Mi interessa in particolare quello che si presenta come l’aspetto meno ovvio dei rapporti tra esperienza e scrittura; l’effetto della seconda sulla prima, il modo in cui la scrittura si oppone alla transitorietà dell’esperienza. L’esperienza è flusso, attorno a noi tutto scorre, siamo immersi in un fiume, c’è il fluire del tempo, il fluire della vita biologica e quello della vita sociale, la società cambia attorno a noi, con ritmi che a volte paiono perfino più rapidi dei ritmi biologici […]. Scrivendo si sottrae qualcosa a questo flusso. È come attingere acqua da un fiume con una scodella, e sembra di aver preservato almeno qualcosa del senso delle nostre esperienze.»

Più avanti, Meneghello si chiede anche: quale è la «relazione tra il ruolo originario della scrittura e quello specializzato delle scritture letterarie?». E ci invita a concentrarci su alcuni aspetti dei molti in gioco: «Come, con quali forze, trasformiamo ciò che ci accade, e ciò che diciamo a voce su ciò che ci accade, in uno specchio di parole scritte?»

Ancora oltre, quando riflette «su ciò che è avvenuto e sta avvenendo nel nostro tempo», ci propone domande e considerazioni che trovano nuovi echi e nuova attualità, a distanza di quasi quarant’anni, soprattutto per l’uso un po’ caotico che facciamo della scrittura con i telefoni, il web, i social network. Scrive:

«Il ruolo stesso della scrittura in senso lato sta trasformandosi. C’è stata una serie di innovazioni tecnologiche, nuovi mezzi per registrare l’esperienza. […]
Nei processi già in atto, manca la selettività che è invece intimamente associata col semplice esercizio della scrittura: e si viene creando attorno a noi un ambiente piuttosto caotico. Si direbbe che stiamo tentando di riprodurre, con le nostre deboli forze, il caos iniziale in cui le forme erano indifferenziate…
Sembra innegabile intanto che siamo di fronte a una crisi della concezione tradizionale della scrittura, anzi si può domandarsi se stiamo assistendo alla fine della cultura scritta: che naturalmente comprende in particolare la fine della letteratura, delle scritture che hanno intenti letterari.»

Meneghello poi riflette su come anche gli scrittori già negli anni ottanta fossero disposti ad «assecondare il fluire sempre più rapido dell’esperienza, a mimarlo in libri e scritti caotici. Se il ritmo accelera, anche loro accelerano. Si scrive in fretta, ma soprattutto a ruota libera, e con l’intesa che ciò che si scrive non deve durare. Lo status dello scritto si riavvicina a quello del parlato. La voglia stessa di discriminare, di scegliere tra i dati dell’esperienza su una base diversa da quella che caratterizza le chiacchiere, sembra svanita. La roba che si scrive è esplicitamente destinata a venire buttata via.»

Ora, senza attardarci a sottolineare quanto Meneghello avesse visto lontano, e quanto siano attuali le sue parole – soprattutto con riguardo alla scrittura sui social network, in quella continua autorappresentazione nella quale siamo trascinati – è importante sottolineare che noi vorremmo provare, con la lettura e la scrittura autobiografica, a contrastare proprio questo caos, quell’espressione «a ruota libera». Non vogliamo assecondare il fluire sempre più rapido dell’esperienza, non vogliamo mimarlo in «scritti caotici» che avvicinano lo status dello scritto a quello del parlato. Vogliamo, invece, recuperare la voglia di «discriminare, di scegliere tra i dati dell’esperienza su una base diversa da quella che caratterizza le chiacchiere».

Poi lo scrittore veneto si concentra sui «rapporti fra il parlato e lo scritto. Per me, dice, il parlato si associa con la naturalezza, l’immediatezza, la spontaneità. 
È come se ci fosse un fondo di idee e sentimenti “naturali” al quale posso attingere direttamente, senza stare a pensarci su. Invece lo scritto ha a che fare per me con la scelta, la ricerca, la fatica. Naturalmente quando poi si arriva a ciò che si cerca (cioè si sente che si è toccata la zona giusta, e l’oggetto quasi si vede) le cose cambiano, la mente che scrive trova le parole con la semplicità e facilità con cui abitualmente parla uno che parla facilmente. Ma per arrivare a quei momenti di grazia, spesso ce ne vuole di pentimenti, e sgorbiature!»

Meneghello sottolinea anche un’altra differenza, che giudica importante, fra parlato e scritto. Si parla in mezzo agli altri, ma scrivendo si è soli. I testi letterari sono prodotti della solitudine: meno soggetti al condizionamento di un uditorio, e forse a ogni altra specie di condizionamento. 

Lo scrivere, aggiunge, ha un’altra strana (la definisce proprio “strana”) funzione: 

«mi pare un ottimo mezzo per difendersi dall’eccesso delle comunicazioni specialmente parlate a cui si è esposti, la marea della pubblicità, il chiasso, il troppo e il vano nel quale ci troviamo immersi. Scrivendo ho l’impressione di usare un filtro o forse si tratta di un altro tipo di aggeggio, che mi dà il senso di non dover gridare tra gente che grida. È così che scrivere , per me, è quasi per definizione scrivere poco, o piuttosto scrivere sempre ma concludere poco e di rado. In pratica, cercare qualcosa che forse non c’è, cancellare molto, fare e rifare le pagine, e far passare alla fine solo quelle che paiono un po’ meno sbagliate, un po’ meno goffe o vacue, o sguaiate.»

Quindi si occupa dei diversi modi in cui l’esperienza può esprimersi nella scrittura.

In primo luogo c’è la questione del distacco tra l’una e l’altra, un distacco necessario: ci vuole una separazione sensibile, in pratica un intervallo di tempo.

«Sembra», scrive, «che le nostre passioni non possano favorire la scrittura finché non si mescola il contrario della passione. Si scrive, idealmente, in uno stato che è insieme di eccitazione e di calma. E per arrivarci, normalmente è necessario che sia passato del tempo».

In secondo luogo, secondo l’autore di Libera nos a Malo, ci dobbiamo chiedere: «in quale grado la qualità, il pregio delle scritture dipende dalla qualità dell’esperienza piuttosto che da quella della scrittura stessa?». 

La risposta articolata di Meneghello è quasi sorprendente, ma è in linea con quel che poco prima abbiamo definito la relazione dinamica di azione e retroazione fra esperienza (e lettura) e scrittura.

Scrive infatti:

«Qualche volta, anche nel caso di scritti memorabili, sembra che ciò che conta veramente, ciò che ci importa di più e ci tocca più in profondo, sia la natura dell’esperienza che sottostà a un libro. Il modo come è scritto (entro certi limiti, s’intende: tutto ciò che si dice, e tutto ciò che è umano, vale esclusivamente entro certi limiti) non ha molta importanza. Un libro come quello giustamente famoso di A è scritto in modo abbastanza ordinario; e un altro quasi altrettanto famoso, il libro di B, anch’esso del tutto degno della sua fama, è scritto con commovente imperizia; ma entrambi funzionano benissimo in virtù delle esperienze eccezionali da cui sono nati; mentre d’altro canto il libro di C che comunica esperienze non molto meno straordinarie, e inoltre è scritto molto bene, quasi troppo, non pare alla fine un libro veramente migliore di quei due, come se la qualità della scrittura non incidesse sul vivo di questa specie di opere: anzi, a tratti la preziosità del dettato può perfino sembrare una distrazione, un difetto…»

Se ancora non siamo abbastanza sorpresi da queste considerazioni di Meneghello, facciamo attenzione a come prosegue:

«Naturalmente non è sempre facile distinguere ciò che appartiene alla materia, e, rispettivamente, alla forma: all’esperienza o alla scrittura. A volte nel disadorno, nello sciatto, nell’ingenuo, o d’altro canto nel pomposo, nel compassato, nel pedantesco, si annida una forza subdola o palese che mette in crisi le nostre categorie abituali…»

Non è certo il caso di arrivare a conclusioni incontestabili. Ci interessa invece questa sospensione del giudizio: da qui partiamo noi nel nostro lavoro di dar forma alle esperienze; sospendiamo ogni giudizio. Lasciamo che siano i singoli autori del lavoro autobiografico a definire questa relazioni e come le rispettive forze si equilibrino.

L’atto stesso di ricordare chiede, per venire alla luce con una certa coerenza, un abbozzo di forma, per così dire: insomma, i ricordi per essere tali devono essere selezionati, assumere una struttura temporale; e quando scriviamo diamo continuità e profondità a questo sforzo, rafforziamo, organizziamo queste strutture.

Scrive ancora Meneghello, proprio su ciò: «[…] Capisco che è meglio non pretendere di risolvere la questione: l’esperienza e la scrittura si presentano come due aspetti della stessa cosa. Forse questo vale anche per l’esperienza e la parola, con la complicazione che quando parliamo non possiamo poi prendere in mano per un riesame gli strati di aria in cui abbiamo formato le parole».

E conclude: «Insomma, non solo non me la sento di dire se conta di più la singolarità dell’esperienza o quella della scrittura, ma non so nemmeno se la distinzione ha veramente senso.»

La terza osservazione che Meneghello ci propone a proposito di esperienza e scrittura, riguarda i rapporti fra il vero e l’immaginario. Cita l’Orlando Furioso. Lo cita per sostenere che «forse si può dire solo che la distinzione tra esperienza vere e immaginarie, nei bizzarri reparti della mente dove si attingono le nostre scritture, è soltanto una distinzione di comodo». 

Ecco, da qui vorrei partire con le prossime osservazioni su questo tema che mi sta molto a cuore.

 

 

 


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