Il ritorno di Menenio Agrippa
27
Luglio 2023. Testo ripreso da:
«Che le mie
opere periscano, se Dreyfus non è innocente!». Schierandosi dalla parte di
Dreyfus in quello che è l’atto di fondazione dell’intellettuale moderno, Émile
Zola non esitava a mettere in gioco la sua stessa identità pubblica: l’onore,
la gloria e la fama dello scrittore. Parlava in nome della letteratura, che è
portatrice di ideali di verità e giustizia, anziché per un potere conferitogli
dal popolo o dallo stato: lo scrittore, infatti, aveva sostenuto lui stesso una
ventina d’anni prima in Le roman experimentale,
deve andare «à la recherche d’une vérité».
La questione
della verità è dunque capitale quando si discute dei rapporti tra intellettuali
e potere, perché è solo la ricerca della verità, svincolata dagli interessi di
parte, che rende l’intellettuale, pronto a guardare più in alto, diverso dal
politico, immerso nella faziosità delle cause terrene. Senza questo orizzonte
non si capisce il conflitto tra intellettuali e politici che ha animato tutta
la storia del mondo occidentale, ma che si è condensato negli atteggiamenti
ondivaghi, pieni di proclami e contraddizioni, della politica italiana degli
ultimi trent’anni. Tutto cominciò a Gargonza, quando Massimo D’Alema cercò di
rivendicare il primato della politica rispetto a una società civile che secondo
lui reagiva in chiave emotiva, senza la visione programmatica d’insieme propria
dei partiti, alle varie esigenze del momento, imposte dagli echi di
tangentopoli e dall’avvento del berlusconismo: era l’8 marzo 1997, quando
Presidente del Consiglio era un professore universitario, Romano Prodi,
ordinario di Economia e Politica industriale all’Università di Bologna.
Rifiutando il paradigma di una società buona contrapposta
a una politica cattiva, D’Alema provava in fondo a
fare l’intellettuale: metteva in gioco, cioè, due visioni contrapposte di
progetto sociale, affidato alla costruzione della politica oppure agli umori
della gente, come si cominciava a dire allora, quando fiorivano girotondi e
arcobaleni, professori in piazza e partiti senza tessere.
Comincia da
lì, nella ricostruzione di Giorgio Caravale (Senza intellettuali. Politica e
cultura in Italia negli ultimi trent’anni, Laterza), quella
tensione tra politici e intellettuali che ha caratterizzato la storia italiana
più recente, lungo un’onda che si è mossa tra i due estremi dei proclami
antintellettuali (da Bossi e Berlusconi a Renzi e Salvini fino al Movimento 5
Stelle e pure Fratelli d’Italia, con i tanti rifiuti dei professoroni, i
soloni, gli accademici) e il ricorso ai tecnici (i tanti esperti, spesso nella
forma proprio di professori, cui hanno fatto appello gli stessi politici che li
avevano attaccati, con Berlusconi aggrappato a Tremonti e Brunetta per dare un
minimo di dignità logica alla sua politica, Renzi pronto ad affiliarsi
Recalcati, il Movimento 5 Stelle tenacemente e disperatamente bisognoso di
Conte). Caravale ha il coraggio di raccontare la storia recente al passato
remoto, dotandola di quella compiutezza e distanza che secondo Croce mancavano
alla storia contemporanea per poter diventare effettivamente storia; ma
soprattutto di farlo in un libro che ha al centro la figura più odiata e
controversa del dibattito politico degli ultimi tre decenni almeno,
l’intellettuale, appunto.
Di
intellettuali politicamente coinvolti la storia ne ha avuti tanti, dal basileus philosophos di ascendenza platonica al
poeta-vate di matrice romantica fino all’intellettuale al servizio del popolo
di definizione comunista, ma Caravale rifugge esplicitamente da qualsiasi
obiettivo teorico, nel tentativo di ripercorrere un nodo della politica
contemporanea che ha bisogno più di storia che di filosofia: resterà deluso,
quindi, il lettore che si aspetti un dialogo con Gramsci, Croce, Weber, Benda,
Horkheimer, Bourdieu o Bauman. A Caravale interessa infatti una dinamica
fondativa del discorso pubblico italiano dell’ultimo trentennio, come si è detto,
che è legata all’oscillazione, all’ambivalenza costitutiva, della politica
rispetto agli intellettuali, tra rigetto e appropriazione. Ciò che
dell’intellettuale viene rimosso o all’intellettuale viene richiesto è infatti
prima di tutto la sua competenza, come se la politica dovesse farne a meno
oppure averne bisogno: di qui i tecnici, quasi sempre economisti, ma anche
giuristi, storici, a un certo punto epidemiologi, sempre meno letterati e
filosofi, di cui è intriso il discorso del libro.
L’intellettuale
però si è storicamente affermato in chiave pubblica, a partire almeno
dall’intervento di Zola nell’Affaire Dreyfus, più per la sua intelligenza che per la sua competenza. È un nodo problematico, questo, che
Caravale non affronta, ma che è probabilmente necessario per discutere il suo
libro: essendo, come tutti gli astratti, per definizione indefinibile,
l’intelligenza è progressivamente venuta meno nell’orizzonte pratico della
politica, che le ha preferito, appunto, la competenza, col risultato del primato
dei cosiddetti scienziati (o più spesso tecnici, o
anche esperti) rispetto agli umanisti. L’intervento di Zola
implicava però esattamente il contrario: all’intellettuale spettava l’orizzonte
dei valori, che una società terrorizzata da tutto ciò che ha a che fare con le
possibilità del concettuale, dello spirituale o del metafisico non può che
respingere radicalmente. Come si definisce l’intelligenza rispetto alla
competenza, del resto? Basterà dire che risponde alle doti della raccolta delle
informazioni, della formulazione delle ipotesi, dell’attuazione di procedure analitiche
prima e sintetiche poi, ai fini della determinazione, attraverso il confronto
tra le alternative, della verità possibile, mai definitiva, che è propria del
metodo tanto scientifico quanto umanistico? Non è molto più facile aggrapparsi
al presunto tecnicismo dei saperi iniziatici, con i quali non si può dialogare
perché si trincerano dietro l’expertise? Ecco che
la politica ha scelto la via della semplificazione rispetto all’intellettuale,
il quale non a caso viene ormai dalla comunicazione anziché dal ragionamento
critico e dalla riflessione teorica: da Saviano a Carofiglio non c’è
trasmissione televisiva che faccia a meno del cosiddetto intellettuale, il
grillo parlante che sa tutto lui non perché sappia davvero, ma perché è
legittimato dalle logiche del discorso mediatico, tra successo di vendite e
possesso di aura.
Non è un caso
che infatti sia ancora lo scrittore, per il solo fatto di essere scrittore
anziché per qualche altro più sofisticato motivo, a fregiarsi del ruolo di
intellettuale pubblico. Ci si è provato di recente, nella penuria di scrittori
che sappiano fare ragionamenti anziché battute, persino con gli universitari,
da rare comparsate di Masullo e Prosperi al presenzialismo più spinto di un
Canfora, ma a piacere ai media restano coloro che sono più facilmente
assimilabili a narcisismi uterini e atteggiamenti divistici, come Cacciari o
Barbero. Ciò che ha capito, purtroppo, prima e meglio di tutti, Vittorio
Sgarbi: è col giornalismo mediatico, nella società dello spettacolo, che bisogna
confrontarsi, da intellettuali, prima ancora che con la politica. Cedendovi,
come negli esempi citati, o separandosi, col rischio di un sentimento di
marginalità. Sospeso tra sciamano e showman, come scriveva Andrea Cortellessa una
decina di anni fa (Intellettuali, anni Zero, in Dove siamo? Nuove posizioni della critica, :duepunti
edizioni 2011), l’intellettuale si è moltiplicato, è divenuto liquido, si è
fuso con l’opinionista, il grande fratello, il cantante e il calciatore. A fare
da interprete della realtà anziché oracolo o legislatore, resta solo, forse,
la funzione-Montanari, che rifugge
dalla tecnocrazia senza rinunciare tuttavia all’accentramento personalistico
imposto dalle logiche mediatiche.
Caravale
invece punta decisamente sull’accademico, parola tanto malvista nel discorso
pubblico da essere diventata possibile insulto, sinonimo di esperto di
questioni teoriche che non hanno nulla a che vedere con la realtà
dell’esperienza concreta: lo fa proprio perché è convinto, mi pare, del fatto
che il vecchio apologo di Menenio Agrippa, col
reciproco integrarsi di funzioni mentali e funzioni corporali, quell’apologo
che tutti abbiamo ascoltato fin dalla scuola elementare, sia ancora al centro
dei bisogni di una politica che non voglia essere solo gestione dell’esistente,
ma progetto, ricerca di obiettivi e slancio verso l’utopia. Non è del meccanico
che la macchina ha bisogno, ma dell’ingegnere, perché non conta solo la
possibilità di andare avanti, ma anche capire dove vuole e dove può
andare.
Proprio
perciò, come insegnava Zola, all’intellettuale non va affidata l’ordinaria
amministrazione in quanto competente, come si è preteso di fare con un Monti o
un Draghi, ma il compito d’intervenire solo quando davvero ce n’è bisogno,
perché la situazione lo richiede: ottenuto il risultato di riaprire il processo
Dreyfus, Zola si faceva da parte, affidandosi alla magistratura e allo stato,
cui riconosceva il compito politico di amministrare la giustizia. Indicata la
strada, individuato l’obiettivo di verità, rivendicata l’esigenza di giustizia,
non è più l’intellettuale, insegna Zola, a doversi occupare della cosa
pubblica, proprio perché l’intellettuale non può sostituirsi al politico. Lo ha
spiegato molto bene Pierluigi Pellini in un
articolo di qualche tempo fa, dove si chiariva la distanza tra l’intellettuale
che si mette in gioco, rischiando di perdere il suo patrimonio, la sua
credibilità, il valore e la fama dei suoi libri, e l’intellettuale che si erge
a voce ispirata del sacro, portatore di un “io so” che non si fonda su prove e
analisi, ma sul solo principio dell’autorità costituita.
Il rischio del
libro di Caravale è proprio quello di chiedere un riconoscimento politico del
ruolo degli intellettuali che li costringerebbe a diventare parti in gioco
anziché testimoni di una separatezza necessaria: separatezza ammessa dallo
stato, come voleva Weber, all’interno di un progetto dialettico in cui la
critica assume funzione di stimolo e correttivo proprio perché è, uno, disinteressata, e due, dotata di
una sua autonomia. Ciò che Caravale non fa, purtroppo, è discutere
questa autonomia, che negli anni Cinquanta e Sessanta era garantita da un
prestigio sociale che si fondava su un solido riconoscimento economico, essendo
lo stipendio del professore universitario non troppo inferiore a quello del
magistrato e del politico; ma questa autonomia è venuta meno nell’età del
dominio dei media sul terreno del discorso pubblico, con una conseguenza in
termini economici di crollo del potere negoziale del professore rispetto al magistrato
e il politico (le cui retribuzioni si sono saldate fin dalla legge 31 ottobre
1965, n. 1261). All’invidia del politico, oltre che a eventualmente ingiuste
difficoltà di carriera accademica, si può attribuire l’arrivo in politica di
tanti universitari insoddisfatti, da Romano e Tinagli a Civati, Marzano e
Gotor, che diventano politici rinunciando alla funzione intellettuale: con un
ruolo decisivo giocato dalla Fondazione Italia Futura voluta
da Luca Cordero di Montezemolo, cui Caravale avrebbe forse potuto dedicare
qualche riflessione in più (toccando anche i temi delle affiliazioni massoniche
e chiesastiche, oltre che partitiche, cioè la questione dell’organizzazione degli intellettuali in
politica).
Spetterebbe allo stato, cioè ai
politici, sanare la situazione, ma non è meglio affidarsi a giornalisti
asservibili anziché a professori indipendenti? A questo punto agli ultimi non
resterebbe che entrare in politica per rivendicare il proprio ruolo, perdendo
la funzione arbitrale a favore di una presa di posizione di parte. In questa
contraddizione si dibatte il libro di Caravale, che rischia continuamente di
stare un passo indietro rispetto alle spinte progettuali, ma ha anche il grande
merito di riaprire la discussione a partire dalla capacità di fare storia con
la cronaca. Tutti dovrebbero leggerlo, perché la questione venga rilanciata su
vari fronti (filosofico, sociale, economico e giuridico) anziché solo su quello
della rivendicazione dell’apologo di Menenio Agrippa. A cominciare dai
politici, che da un libro del genere hanno tutto da guadagnare, per ricostruire
credibilità perdute e rilanciare solidarietà mancate.
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