IL
CHIASMO DI GERSHOM SCHOLEM
di minima&moralia pubblicato
giovedì, 27 Luglio 2023 ·
di Ludovico Cantisani
Al crocevia di tutte le inquietudini e i
drammi che hanno attraversato il pensiero e l’esperienza ebraica nel Novecento
si finisce immancabilmente per incontrare la figura di Gershom Scholem, nato a
Berlino nel 1897 e scomparso a Gerusalemme nel 1982. L’ardore e l’inaderenza
sono stati le due sue qualità più inossidabili: da un lato, l’ardore
intellettuale, quel furor ermeneutico che lo portò ad
attraversare distanze inimmaginabili alla ricerca di oscuri manoscritti
cabalistici dispersi nelle biblioteche di tutta Europa, dissodando per primo il
terreno su cui almeno quattro generazioni di studiosi si sono nutrite;
dall’altro lato, l’insopprimibile diffidenza per ogni assolutismo e sistema,
che lo portò, pur essendo probabilmente il massimo conoscitore di cose ebraiche
del Novecento, a non adottare mai lo stile di vita di un ebreo ortodosso e
religiosamente osservante, e, pur essendo migrato in Palestina già negli anni
venti, a distaccarsi sempre di più dalle componenti politiche del sionismo,
dopo una prima infatuazione giovanile che già non era immune da spirito
critico.
A distanza di
poche settimane l’una dall’altra arrivano in Italia due pubblicazioni che
condensano il pensiero e la vita di Scholem in una sintesi vibrante in cui la
biografia fa da sfondo alla trattazione concettuale: da un lato, la riedizione
Adelphi di Walter Benjamin e il suo angelo, da tempo fuori
catalogo, dall’altro lato Due conversazioni con Gershom Scholem su
Israele, gli ebrei e la qabbalah, libro-intervista edito da Quodlibet, a
cura di Gianfranco Bonola. In entrambi i casi, e soprattutto nel secondo che
raggruppa due interviste risalenti a metà dagli anni settanta, Scholem veste
più i panni del divulgatore che quelli dell’erudito. Walter Benjamin e
il suo angelo, originariamente pubblicato nel 1972, rappresenta il primo
capitolo del trittico con cui Scholem ha rievocato la sua amicizia con il
filosofo dell’Angelus Novus: seguiranno il memoir più
approfondito Walter Benjamin. Storia di un’amicizia e
soprattutto l’epistolario che raccoglie le lettere che i due si erano scambiati
dai primi anni trenta fino al 1940 che segnò la prematura scomparsa di
Benjamin, pubblicato dapprima dall’Einaudi sotto il titolo di Teologia
e utopia e recentemente riedito sempre dall’Adelphi come Archivio
e camera oscura, uno dei carteggi più affascinanti e sfaccettati di tutto
il Novecento.
Walter
Benjamin e il suo angelo di Scholem si apre con l’analisi di uno dei più enigmatici
frammenti di tutto l’opus benjaminiano, l’Agesilaus Santander,
una fantasmagoria sul tema dell’angelo che si apre con le parole: “quando
nacqui, ai miei genitori venne l’idea che sarei forse potuto diventare
scrittore. In tal caso sarebbe stato opportuno che non tutti s’accorgessero
subito ch’ero ebreo: perciò, oltre al mio nome, me ne diedero altri due, molto
insoliti…”. In questo frammento, scritto nell’estate del 1933 a Ibiza, Benjamin
menzionava anche l’Angelus Novus di Klee da lui acquistato,
destinato a ritornare nelle testamentarie Tesi sulla filosofia della
storia; tutta la disamina di Scholem – che lascia cadere un frammento di
esoterismo ermeneutico quando rivela che l’Agesilaus Santander è
un anagramma di Der Angelus Satanas – elabora
l’intrecciarsi, nell’ultima parte della produzione filosofica di Benjamin, di
tematiche religiose quali l’angelologia e il messianesimo con il lessico e
l’armamentario concettuale marxista, e con l’ineludibile modello letterario di
Baudelaire.
Tra i passaggi
più memorabili dello scritto di Scholem, quello in cui accomuna il trittico
Freud – Kafka – Benjamin nel novero dei pochi autori ebrei di lingua tedesca
che, a differenza dei vari Schnitzler, Wassermann e Zweig, “scrissero con piena
coscienza della distanza che, in quanto ebrei, li divideva dai loro lettori
tedeschi”. Questi tre autori “sanno di essere scrittori di lingua tedesca, ma
di non essere ‘tedeschi’”, e la loro prosa è impreziosita dall’“esperienza e la
limpida consapevolezza dell’estraneità, anzi dell’esilio”. Larvatus
prodit: pochi anni dopo il frammento vergato a Ibiza, le vicissitudini
editoriali di tutti gli ultimi scritti di Benjamin – in modo particolare di
quella raccolta di lettere di Uomini tedeschi che
rappresentava un paradossale addio a una civiltà caduta vittima della sua
stessa barbarie – dimostrarono che quell’immaginaria intuizione dei genitori
sul futuro da scrittore e sulla necessità di camuffare la sua identità di ebrei
era chirurgicamente precisa, fondata.
Se Walter
Benjamin e il suo angelo intreccia ricordi personali a considerazioni
filosofiche sull’opera dell’amico suicidatosi lungo la frontiera spagnola in
fuga dai nazisti che avevano occupato la Francia, le due interviste raccolte
nel volume di Quodlibet tracciano una sorta di autobiografia orale dello stesso
Scholem, attraversata da considerazioni sulla qabbalah e
sulle sfide che nei suoi primi decenni di vita lo Stato di Israele si era
trovato ad affrontare. Entrambe le interviste risalgono agli ultimi anni della
vita di Scholem: la prima è datata 1975, venne realizzata da Muki Tsur e da
Abraham Shapira, e apparve su Shdemot, una rivista israeliana; la
seconda, condotta da Jörg Drews, risale al 1976, e venne registrata a
Gerusalemme per il canale tedesco ARD, in una serie di incontri non per nulla
intitolata Lebensgeschichte als Zeitgeschichte, “Biografia come
storia contemporanea”. Come suggerisce la stessa copertina del volume adottando
entrambe le grafie del nome dell’autore, nel confronto tra le due interviste il
grande studioso mostra la sua doppia faccia: “per i tedeschi voleva essere
Scholem, per gli israeliani tuttavia era il professor Shalom”, scrive Friedrich
Niewöhner nella sua prefazione, e fino alla fine della sua vita, e alla
pubblicazione dell’autobiografia Da Berlino a Gerusalemme,
Scholem approntò di molti suoi scritti una versione tedesca e una versione
ebraica, certo che ci fosse un nucleo, delle sue esperienze e del suo pensiero,
incomprensibile al di fuori della lingua e dell’immaginario ebraico.
Se i grandi
saggi di Scholem erano improntati a una grande impersonalità accademica, le due
interviste forniscono materiale prezioso per ricostruire la biografia dello
studioso – operazione di cui si è preso carico David Biale qualche anno fa – e
in modo particolare il contesto sociale e culturale in cui il giovane Scholem,
che non proveniva da una famiglia praticamente, decise di immergersi
radicalmente nello studio dell’ebraismo e delle sue correnti religiose più
variegate. Si parla della Berlino di inizio Novecento: “le mie scelte di quel
periodo non erano formulate chiaramente, ma resta il fatto che decisi di
rompere con l’assimilazione. All’epoca non ne avevo una consapevolezza di tipo
concettuale-astratto, ma piuttosto emotivo. La condividevo con quei miei
coetanei che aderirono ai movimenti giovanili sionisti”.
Nelle due
interviste, Scholem dice e ribadisce che “non siamo passati al sionismo per
ragioni politiche”, dal momento che “il sionismo fu la rivolta contro lo stile
di vita della media borghesia alla quale apparteneva la mia famiglia. In
Germania era questo l’ambiente in cui crescevano centinaia di migliaia di
giovani ebrei”. Anche la storia della sua famiglia al principio del Novecento è
a suo modo paradigmatica. Scholem aveva altri tre fratelli, e nell’intervista
con Tsur riflette su come ciascuno di loro abbia preso strade diverse in fatto
di politica: uno rimase sempre moderato, un altro divenne un nazionalista
tedesco di sinistra, il terzo, Werner, dopo una breve adesione al sionismo,
militò prima per il Partito socialdemocratico tedesco, poi per il Partito
comunista, salvo poi esserne espulso in quanto trotzkista; dopo l’avvento del
nazismo si trovò ad essere doppiamente perseguitato in quanto ebreo e
comunista, e finì per morire nel campo di concentramento di Buchenwald. Interessante
è il modo in cui Scholem ricorda i toni che avevano le sue discussioni con il
fratello Werner: “ti inganni se credi di rappresentare il proletariato tedesco
sfruttato. È una menzogna. Tu non rappresenti niente. Sei il figlio di un ebreo
della media borghesia”. Su un piano molto più teoretico ed elevato, questa
discussione si ripeté vent’anni dopo con lo stesso Walter Benjamin, approdato
al marxismo anche sotto l’influenza di Brecht.
Soprattutto
nella prima delle due interviste, rilasciata a una rivista israeliana, Scholem
si dilunga sul dibattito riguardante il sionismo, permettendosi uno sguardo
macroscopico e storiografico su un fenomeno ai tempi e in parte tuttora di
attualità. “Il sionismo, in quanto movimento nazionale ebraico, rappresentava
una rivolta contro la forma di vita e la tradizione dell’ebraismo presente
nelle generazioni che l’avevano preceduto, oppure ne rappresentava la
prosecuzione? Entrambe le possibilità sono state presenti nel sionismo fin
dall’inizio”. Finché il sionismo era rimasto a fare propaganda in Europa e a
cercare fondi anche oltreoceano, il contrasto tra queste due differenti
concezioni del ritorno a Sion non si era mai palesato in maniera drastica: ma
una volta creatasi una cospicua comunità in Palestina e ancor di più una volta
nato lo Stato di Israele, commenta Scholem, “il problema cominciò a profilarsi
più aspramente: volevamo, qui, un rinnovamento della vita ebraica nel senso di
una prosecuzione continuista della tradizione dei nostri avi, oppure il lavoro
di costruzione qui in Israele significava un nuovo inizio, che rappresentava
una rottura con quella tradizione?”. Scholem aveva auspicato “la continuità
insieme al cambiamento”, ma ammette il fallimento storico di questa concezione
del sionismo: “questa continuità oggi si esprime solo nel conservatorismo
dogmatico, da un lato, o nell’indifferenza verso il patrimonio culturale
ebraico, dall’altro”.
Nei suoi scritti
e nelle sue ricerche, Scholem aveva fatto filtrare i dibattiti politici e
nazionalistici del suo tempo sempre con grande circospezione, per quanto tutto
il suo percorso da studioso si qualificasse come un recupero e una ri-presa di
possesso dell’identità culturale ebraica. L’incontro con il misticismo ebraico
e con tutte le varie correnti che, attraverso i secoli della diaspora, avevano
nutrito la spiritualità del popolo eletto fu, nel pensiero e nella vita di
Scholem, inestricabilmente legato alla scelta di abbandonare la Germania per la
Palestina: “se esisteva una prospettiva di rinnovamento sostanziale dell’ebraismo,
di un ebraismo che rivelasse il suo potenziale latente – solo in Erez Israel
poteva avverarsi, nell’incontro dell’ebreo con sé stesso, con il suo popolo, e
le sue radici”, ribadisce nell’intervista con Tsur. Al tempo stesso, proprio il
singolare rapporto che Scholem aveva con la religione e con la spiritualità –
fascinazione ermeneutica e distacco accademico, dichiarata fede in Dio, o
almeno in un dio, ma nessuna adozione allo stile di vita ortodosso – riemerge a
più riprese nelle sue affermazioni sul sionismo. “Nei cinquanta anni che ho
trascorso in Erez Israel mi sono riconosciuto completamente sia nella
secolarizzazione del paese che nella sua religiosità”, è questo il chiasmo di
Scholem. “Nulla di ciò che è ebraico mi è alieno. Come approvo i processi
secolari, così auspico i processi inversi”.
Sul finire della
loro intervista, Tsur evidenzia come tutta la vita di Scholem è stata
caratterizzata da una serie successiva di distacchi: dalla casa paterna, dal
sionismo militante, dall’insegnamento e dalla filosofia di vita di Martin
Buber, dalla psicoanalisi e dal marxismo di moda negli anni della sua
formazione, da tutte le correnti sociopolitiche dominanti nei primi tre decenni
di vita dello Stato di Israele. “Storicamente parlando”, mette in chiaro
Scholem, “un ritorno immediato e non dialettico all’ebraismo tradizionale è
impossibile, e nemmeno io l’ho compiuto. Ho sempre considerato il sionismo
secolare una via legittima, pur rifiutando la dichiarazione insensata secondo
cui gli ebrei diventerebbero ‘una nazione tra le altre nazioni’. Se questo si
avverasse, sarebbe la fine del popolo ebraico”.
È proprio qui
che si trova il motivo di grande interesse che queste due interviste a Scholem
possono rivestire anche per un lettore contemporaneo che non sia
specificatamente immerso in studi cabalistici: se all’indomani della catastrofe
dell’Olocausto Scholem stesso si era drammaticamente interrogato sul “prezzo
del messianesimo” e sull’acquiescenza politico-sociale che questa speranza
aveva indotto negli ebrei europei, la vita e l’itinerario bio-filosofico del
“maestro della cabala” fanno luce sul chiasmo che attraversa chi, in piena
secolarizzazione e senza professare apertamente una fede o un modello di vita
religiosa, si immerge comunque nei testi sacri alla ricerca di una verità
sull’uomo. Lo stesso chiasmo si ripete, ancora più radicalizzato, nella figura
e nell’opera di Walter Benjamin, di cui proprio per evidenziare “il legame con
la tradizione mistica” accanto alla riflessione sui concetti marxisti Scholem
aveva deciso di tracciare quel primo ritratto che fu Walter Benjamin e
il suo angelo. Più si definivano le sue idee politiche, più le pagine di
Benjamin presentavano una “enorme idoneità alla canonizzazione, vorrei quasi
dire alla citazione come una sorta di Sacra Scrittura”, scriveva Scholem nelle
prime pagine del suo Angelo: negli scritti di Benjamin e in modo
particolare negli scritti dell’ultimissimo Benjamin, il marxismo stesso si
immetteva in una dialettica da cui emergevano tanto le sue origini sacrali, la
sua dipendenza da miti biblici come quello dell’esodo, quanto il suo carattere
paradossale di feticcio, .
Gershom Scholem,
che aveva addirittura ottenuto a Benjamin un aiuto economico per fargli
studiare l’ebraico in vista di un vagheggiato trasferimento in Palestina, non
perdonò mai all’amico il passaggio di campo nell’universo marxista, e più volte
evidenziò la parzialità di quella scelta: “non si può certo mettere in dubbio
la ferma risolutezza con cui Benjamin ha affrontato la questione e la
terminologia della lotta di classe come contenuto non solo della storia
universale ma anche della filosofia, eppure il lettore attento di questo
‘massiccio’ d’idee è assalito dai dubbi”. Ininterrottamente riaffiora nelle
pagine di Benjamin un richiamo al sacro e al sacro biblico, tanto è vero che
“molti degli studi e annotazioni che intersecano lo scritto sui passages”,
ad esempio, “offrono aperto e inequivoco rifugio alla tradizione mistica e ne
riconoscono esplicitamente la continuità, facendo anzi caparbia resistenza a
quella sbandierata trasformazione”, come si legge in Walter Benjamin e
il suo angelo.
Se il caso di
Benjamin è paradigmatico di una certa confusione, intellettualmente altissima,
tra marxismo ed ebraismo, tra politica e secolarizzazione, tra rivoluzione e
rivelazione – sovrapposizioni su cui Ernst Bloch tentò di chiudere le fila in
pieno Sessantotto con il suo Ateismo nel cristianesimo, ma riuscì
solo in parte – anche la figura di Scholem non fu esente da complessità, che un
discorso libero e fuori dalle pastoie accademiche come quello delle due
interviste contenute nel volume di Quodlibet fa ulteriormente emergere. Come
anche il suo studente Joseph Weiss evidenziò coram populo nelle
celebrazioni per il cinquantesimo compleanno del maestro, in Scholem c’era una
contraddizione tra un’attività scientifica apparentemente fredda e rigorosa, e
una personalità intellettuale che si crogiolava in negazioni dialettiche e
affermazioni paradossali: e Weiss arrivava a dire, non senza soddisfazione da parte
del maestro che privatamente lodò quell’orazione, che Scholem mascherava le sue
vere convinzioni metafisiche, di carattere esoteriche.
L’eventuale
esoterismo di Scholem non ci interessa in quanto tale, ma come sintomo di un
sotterraneo fermento intellettuale che interessò il pensiero occidentale nel
cuore del Novecento: quell’impulso che portò figure diversissime tra loro come
Martin Heidegger, il trittico Benjamin – Scholem – Taubes, Carl Jung, uno
scrittore di fantascienza come Philip K. Dick, Simone Weil negli ultimi anni
della sua vita e svariati altri studiosi e artisti di diverse discipline
disseminati lungo tutto l’emisfero occidentale a ripercorrere a ritroso il
cammino della spiritualità giudaico-cristiana soffermandosi sulle sue zone più
oscure, sui suoi sentieri interrotti, su quelle esperienze primordiali e a
volte ereticali in cui si poteva rinvenire una componente estrema e non
altrimenti esprimibile dell’esistenza umana. Particolarmente delicato si faceva
il discorso quando questo esoterismo di ritorno si intrecciava a convinzioni
politiche e a congiunture storiche, come potrebbero dimostrare i casi
simmetrici di Walter Benjamin e Martin Heidegger.
Superata la
Seconda Guerra Mondiale incolume e innocente, nelle due interviste contenute
nel volume ora edito dalla Quodlibet Gershom Scholem si spinge anche ad
esprimere le sue impressioni e le sue indecisioni sul sionismo e sul modo in
cui questo si era realizzato nello stato di Israele; ma molto più delle singole
affermazioni storiche o rievocazioni autobiografiche, ciò che attribuisce a
queste due interviste e in particolare a quella di Tsur il valore di
testimonianza sta proprio nella loro inconcludenza. Scholem, come evidenzia non
senza ironia l’intervistatore, per tutta la vita si era gradualmente distaccato
da tutti i suoi mondi di appartenenza, per assumere di fronte alla materia dei
suoi studi un’apparente equidistanza che non poteva non tradire una
fascinazione recondita – strano animale, che nel fuggire non cancella le
proprie tracce, se mai ripercorre quelle altrui, senza mai unirsi fino in fondo
al branco, bensì scrutandolo da lontano. Passare la vita a riesumare capitoli
dimenticati della tradizione religiosa ebraica senza poter indicare con
certezza in questi il segreto del rinnovamento di Israele, vedere in Messia
mancati come Sabbatai Zevi prefigurazioni di quanto accaduto nel Novecento
tanto sul piano storico quanto sul piano esistenziale senza poterlo impedire –
è stato questo il chiasmo di Gershom Scholem, sprovvisto, anche a causa
dell’agognata scientificità dei suoi studi, di qualsivoglia richiamo a un
eventuale angelus antiquus che potesse benedire i suoi
sforzi e i suoi slanci — verso la tradizione, senza rinnegare la
secolarizzazione, here was the rub.
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