L'immaginario
rimosso dai «Quaderni del carcere». Cultura operaia, operetta, feuilletton e
folklore in Gramsci
Daniele Balicco
«Spesso a cuori e picche ansiose bocche/ chiedono la
verità/ Principi e plebe vengono qua». Gramsci, nel 1918, già redattore
dell'edizione piemontese dell'«Avanti!», canticchiava in continuazione questo
refrain di un'operetta allora in voga, la Madama di Tebe di
Carlo Lombardo. Ed era così appassionato di musica - adorava l'Operetta - che
spesso scriveva gli articoli per il giornale solo dopo essere uscito da teatro
a notte fonda sotto l'assillo disperato di Pastore che letteralmente glieli
toglieva di mano dalla scrivania per mandarli subito in rotativa. Questo
aneddoto, e molti altri, si possono piacevolmente ascoltare nel bel saggio
sonoro che chiude l'ultimo lavoro di Cesare Bermani su Gramsci,
intitolato Gramsci, gli intellettuali e la cultura proletaria (Colibrì,
pp. 334, euro 19). Il volume raccoglie undici articoli pubblicati dal 1979 ad
oggi e due Cd costituenti, per l'appunto, il saggio sonoro, appassionante
ricostruzione della vita di Gramsci attraverso testimonianze dirette e
documenti musicali. È bene ricordare subito che la storia orale, di cui Bermani
è maestro indiscusso, mai come nel caso di Gramsci si rivela essere strumento
conoscitivo congruente. E per almeno due ragioni. In primo luogo per la sua
forma, perché la posizione di ascolto è il presupposto necessario della
persuasione permanente. Gramsci, come tutte le testimonianze ricordano, sapeva
ascoltare. La sua pedagogia - e si legga nel volume la bella testimonianza di
Ettore Piacentini - partiva proprio dall'ascolto, era socratica, dubitante,
persuadeva chiedendo continue precisazioni capaci di portare l'interlocutore
fino alla coscienza di non sapere, primo e necessario passo verso una vera
politicizzazione di se stessi. In secondo luogo, perché la raccolta di
testimonianze dirette divenne, negli anni passati, strumento capace di aprire
nuove strade all'interno di quel controverso campo di ricerca che furono gli
studi gramsciani, per lo meno fin quando il Pci ne orientò studio e
pubblicazione.
Certo, il quadro attuale è oggi profondamente mutato e
un lavoro come quello di Bermani, così attento a ricostruire di Gramsci una
fisionomia morale, intellettuale e politica altra rispetto a quella consegnata
dalla vulgata togliattiana, può apparire eccentrico rispetto allo stato
dell'arte della ricerca italiana contemporanea (basti solo pensare dove è stato
relegato a Roma l'Istituto Gramsci, che, certo, per il peso internazionale che
ha, in uno Stato serio, meriterebbe altri spazi, altre metrature, altra
visibilità, altre strutture, altri fondi).
L'inattualità dell'impostazione di Bermani risponde
quanto meno al sospetto che questo ridimensionamento della figura di Gramsci
sia l'esito ultimo di una certa idea della conoscenza e dell'azione politica
che il Pci e Togliatti promossero proprio attraverso la pubblicazione orientata
degli scritti di Gramsci.
Del resto, se si dipana fino in fondo questo filo,
l'evoluzione del Pci in Pds/Ds e oggi Pd appare sotto il segno della
continuità, e non certo della frattura. Il lavoro di Bermani valorizza invece
un altro Gramsci, anzitutto critico di un'idea di politica come categoria a se
stante, attività separata. Si leggano le pagine dove l'autore ricostruisce il
dibattito fra culturalisti e anticulturalisti e un Gramsci ancora giovanissimo
già riflette sulla centralità dell'organizzazione politica della cultura
intendendola come un terzo fronte di lotta accanto a quello economico e
politico; o i due saggi pubblicati su «Primo Maggio» (Gramsci operaista e la
letteratura operaia; Breve storia del Proletkul't italiano) dove
emerge con chiarezza come Gramsci intenda la pedagogia politica in opposizione
al modello didattico delle Università popolari del Psi; e come pratichi il suo
ruolo di dirigente politico nella conoscenza diretta della vita operaia e
dell'organizzazione del lavoro nella grande fabbrica.
Il punto di partenza della politica sta dunque nella
capacità di leggere nei depositi creativi del senso comune, forme da liberare,
educare, organizzare, universalizzare; e da non reprimere. Certo, è questo un
Gramsci visto attraverso le lenti di quello straordinario laboratorio di
etnografia politica della cultura popolare italiana che è l'Istituto Ernesto De
Martino (e non a caso il volume di Bermani si chiude proprio con il
saggio Due letture non canoniche degli scritti di Antonio Gramsci,
un omaggio dello storico orale ai suoi maestri, Bosio e de Martino). Ma è
proprio in questo Gramsci che si possono ancora trovare strumenti capaci di
scardinare la narcosi mediatica del nostro presente. È incredibile, infatti,
che in un universo culturale dominato senza controforze dalla propaganda - che
è l'espressione della violenza politica nella comunicazione - nessuno senta il
bisogno di tornare, anche solo come ricognizione preliminare, a riflettere su
ruolo degli intellettuali, organizzazione della cultura, egemonia; e su come il
senso comune riveli sempre, come l'iride, lo stato di salute del mondo sociale.
Nella stessa direzione si muove un altro bel volume da
poco pubblicato da Carocci (Frammenti indigesti. Temi folclorici negli
scritti di Antonio Gramsci, pp. 267, euro 19). L'autore è Mimmo Boninelli,
collaboratore come Bermani, dell'Istituto Ernesto de Martino.
Scritto con un'attenzione minuta ai dati propria della grande tradizione filologica militante di Gianni Bosio, Boninelli cerca di capire se le note Osservazioni sul Folclore presuppongano in Gramsci una passione e una conoscenza approfondita della cultura popolare e folclorica italiana. Sei sono gli argomenti attraverso i quali l'intero corpus degli scritti di Gramsci (pagine giovanili, scritti politici, Lettere e Quaderni) è passato al setaccio: Sardegna e mondo popolare; religione popolare, credenze, magia; proverbi e modi di dire; narrazioni e storie; canti popolari e della protesta sociale; teatro popolare, teatro dialettale. Attraverso questo spoglio incrociato, emerge un'immagine sorprendente del pensatore sardo come curiosissimo osservatore e critico della vita quotidiana.
Il manifesto, 30 maggio 2008
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