La questione fiscale come manifestazione della
lotta di classe
La questione fiscale non è come solitamente si pensa
un fatto di bassa cucina politica, ma una espressione diretta dei rapporti di
classe. Lo dimostra bene un articolo di Paolo Favilli, apparso su il Manifesto
del 29 luglio, di cui proponiamo le parti salienti.
Paolo Favilli
L'ossimoro del riformismo
neoliberista
(...)
Alla vigilia della Rivoluzione francese si scontrano due progetti di
riforma del sistema fiscale dello Stato, un sistema fiscale che è la risultante
dei continui aggiustamenti conseguenti alle diverse fasi dell’assestamento
assolutistico e che quindi non ha più la forma della fiscalità feudale. Lo
scontro, durissimo, ha, dunque, come oggetto la direzione dell’ormai necessario
mutamento di forma, della riforma appunto. E la durezza dello scontro fu
direttamente proporzionale al fatto che non di scelta tra diverse tecniche
finanziarie si trattava, bensì di scelte che implicavano un profondo mutamento
di equilibrio rispetto allo status quo sociale. Insomma, la riforma veniva
definendosi come l’esito di una fase della lotta di classe, un esito che finì
per determinarne la direzione.
Due i termini dello scontro: a) scegliere una modernità che legasse la
soluzione del deficit pubblico ad un forte e decisivo allargamento della platea
dei soggetti fiscali (nobili e chiesa compresi), un allargamento che di fatto
preludeva anche a necessari e profondi mutamenti politico-giuridici nel
rapporto tra le classi; b) scegliere di ripristinare aspetti della fiscalità
feudale ormai andati in disuso e quindi scaricare totalmente il problema del
deficit pubblico sulle classi subalterne.
AMBEDUE LE SOLUZIONI possono essere considerate come cambiamenti in meglio
per il deficit dello Stato. Dal punto di vista dei rapporti sociali è
necessario, però, rispondere al quesito meglio per chi? La risposta che per più
di duecento anni ha dato la storia è estremamente chiara: le riforme sono
quelle proposte da Turgot. Per gli altri si usa il termine di reazione.
(...)
IL BALZO ALL’INDIETRO nei «trenta ingloriosi» [1993-2023, gli anni del
neoliberismo berlusconiani – nota nostra] si è concretizzato nel trasferimento
di 12 punti di Pil da salari e pensioni a rendite e profitti. Una sinistra che
proponesse un progetto di lotta per riforme tendenti alla restituzione alle
classi subalterne di quell’immenso surplus loro sottratto, sarebbe
esemplificativa di un riformismo definibile davvero, [come tale – nota nostra]
. Il riformismo dell’antitesi.
La costruzione/ricostruzione dell’antitesi si farà (e anche in ciò non c’è
nessuna predeterminazione) solo attraverso un percorso non breve e assai
accidentato. Un percorso che richiede un impegno costante senza alcuna attesa
risolutiva straordinaria. Un atteggiamento «riformista», insomma. Un percorso
che richiede la consapevolezza che in ogni istante può esserci la possibilità
di una parziale rottura del tempo determinato. Un atteggiamento
«rivoluzionario», insomma.
(Per leggere l'articolo nella sua integralità cfr. Il Manifesto del 29
luglio 2023]
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