19 luglio 2023

JANE BIRKIN TRA GRAZIA E MITO

 


Pubblichiamo un pezzo uscito su Linus nel maggio 2022, ringraziando la rivista e l’autore.

TRA GRAZIA E MITO, LA LEGGENDA DI JANE BIRKIN


Icona di stile: era la definizione inseparabile da Jane Birkin, tra i sessanta e i settanta. Epoca in cui la società dello spettacolo non si era ancora inventata i fashion blogger, e le stereotipate iconcine digitali, rappresentanti di glamour e bellezza omologate, venditrici più o meno fortunate della messinscena permanente del proprio quotidiano.
In quel tempo ormai lontano, gli esseri umani destinati a incendiare l’immaginario erano singolarità atipiche, sintomi del mutamento in atto. Numeri unici capaci di conquistare ribalte e copertine grazie ad un’aura indefinibile, incarnando desideri latenti.
Jane Birkin, dopo essere entrata a seno nudo nel Blow up della swinging London, filmato da Michelangelo Antonioni, cavalca da amazzone la liberazione sessuale. Diventerà la musa di Serge Gainsbourg: mentre la guardava con occhio torbido, in un seducente duetto al massacro, il faunesco pigmalione sembrava acuirne la bellezza, rendendola quasi dolorosa: Je t’aime… moi non plus, tra gemiti preorgasmici ed etilismo glamour. Al punto di fusione di quell’amor fou, nel 1971, nasce Charlotte. Scaturire da due miti debordanti può essere letale. Oppure sorprendente: la piccola ne esce bene, dall’incrocio pericoloso. Crescendo, ha finito per scandire il proprio tempo; proprio come mamma e papà, ma a modo suo. Si è imposta, nel cinema d’autore, come un corpo inattuale, dalla bellezza obliqua, cerebralmente scandalosa. Sorretta da un’anima dura, che trapela negli occhi e in quel sorriso sospeso, da sfinge, che incute soggezione in chi la guarda.
Lo stesso disagio sedotto che doveva provare sua madre, vedendola crescere. Nei primi anni ottanta, Charlotte segue le orme di Jane, entrando disinvolta nell’altoforno paterno. Esordisce a tredici anni in un videoclip: adagiata, in camicia e mutandine, nella penombra di un letto matrimoniale, duetta con papà Gainsbourg, quasi terminale ma ancora avviticchiato al suo talento, irriducibile quanto la brama di scandalo. La canzone Lemon incest, titolo ambiguo come il testo, diventa una hit, surriscaldata dalle polemiche. Semplice provocazione liquiderà tutto, con un’alzata di spalle, Charlotte. Scoprendo forse allora la sua prerogativa da semidea: quella grazia ignifuga, che le consente di attraversare abissi visivi come Nymphomaniac e Antichrist, allestiti da quell’altro satiro perverso di Lars Von Trier. Uscendo indenne da tutto: mai volgare, sempre credibile, forte di un’inviolabile inaccessibilità.
Varcato il mezzo secolo, Charlotte conserva una grazia dura da ragazza, quasi ancora acerba. Il suo incontro con la madre sembra la tregua di due guerriere consanguinee, studiatesi per una vita, e finalmente pronte a lasciar cadere ogni schermo,
per incontrarsi e riconoscersi, davanti a una macchina da presa di cui si possono fidare.
Certi rapporti familiari, col tempo, assumono una dimensione confessionale, simile ad una resa dei conti non cruenta, eppure ancora piena di paradossi. Tra Jane e Charlotte, elegantemente assiepate sui due bordi dell’inquadratura, anche una frase sussurrata può diventare deflagrante: “Mi mettevi soggezione, da piccola. Pensavo di non essere adeguata, ad esserti madre. Mi sentivo privilegiata, a stare in tua presenza. Eri così misteriosa, segreta”.
È una delle sequenze più emozionanti di Jane Par Charlotte. E’ un ritratto, in forma di documentario, di una donna matura. Molto diversa da quella ninfa dalla bellezza lancinante, capace di sconvolgere la propria epoca e, contemporaneamente, sentirsi troppo infantile per il ruolo di madre, turbata da quella ragazzina dallo sguardo severo. Oggi, consacrata diva anche lei, Charlotte la guarda con altri occhi: a fondo e con amore, scoprendo la mamma nascosta dietro il mito.
Charlotte ammorbidisce le resistenze materne con un corredo di marchingegni ottici più o meno anacronistici, diluendo analogico e digitale, sfocature e grana super8, forse per fondere le rispettive epoche. Ruota intorno a Jane, per sfiorare l’essenza del suo presente, come fece nel 1988 Agnès Varda, nel suo ritratto cinematografico della Birkin, Jane B. par Agnes V. . Film non molto amato da Charlotte, forse soffocata da quella troupe che le girava per casa, per quasi un anno.
Nel suo ritratto materno, sincero ma non impietoso, mette alla luce un oggetto ibrido, lontano dalle posticce morbosità da reality. Entra in campo con tenerezza, tenendo a bada il proprio ego da attrice, e offrendo a sua madre uno specchio partecipe, protettivo, in cui finisce per ritrovare anche se stessa.
In una lavorazione lunga sette anni, tra pause e ripensamenti, non ha seguito una sceneggiatura predeterminata. Fedele al suo sguardo istintuale, ha finito per fermare gli attimi di due esistenze convulse, creando un intervallo di tempo realmente condiviso.
Spazio filmico necessario per cogliere la bellezza trasognata di un’anima ancora piena di luce, ormai declinata ad una dolcezza quotidiana, ad una fragilità da abbracciare. Jane si offre alla figlia in tutta la sua corporeità materna, con le sue rughe e il viso struccato. Charlotte sembra volerla alleggerire dal peso annichilente della leggenda, per imparare, insieme a lei, a lasciar andare il passato. Senza dimenticare, ma sciogliendo i nodi delle colpe, e dei rimpianti.
Il repertorio è bandito: si stringe il fuoco sulla flagranza del presente. Il fluire del tempo si manifesta nel disordine poetico degli oggetti ammonticchiati negli anni, senza troppa intenzione, nella casa al mare di Jane Birkin, in Bretagna. La sua voce flautata è rimasta quella di un tempo, forse solo un filo più roca. Le permette di continuare a riempire, da star, i teatri del mondo, da Tokio a New York, duettando con l’assenza di Serge, e chiedendosi dolcemente chi ha avuto la parte migliore di chi, in un’amore così bruciante.
Nella dimora museale di Gainsbourg, al 5 bis di Rue de Verneuil, la Birkin rientra in punta di piedi, dopo tanti anni. Sfiorando resti di quotidianità, ormai diventati cimeli, si misura insieme alla figlia con un fantasma non troppo ingombrante, leggero come una nuvoletta di fumo di Gitanes, alcol evaporato e profumi femminili.
Affiora un altro lutto, più recente: Kate Barry, figlia dell’una e sorella dell’altra. Nata dall’unione di Jane con il compositore britannico John Barry, Kate, cresciuta con la madre e Serge Gainsbourg, è morta una decina d’anni fa, probabilmente suicida. Era una fotografa dallo sguardo tenue, defilato, posato sulle dive della moda e del cinema, incluse madre e sorella. Forse Charlotte ha cercato di ereditarne gli stessi occhi limpidi, disarmanti, e posarli su Jane. Come per tenerla ancora con sé, fra di loro, in questo gineceo che porta in seno anche il futuro, nel saltellare volteggiante di Jo Attal, undici anni, la figlia più piccola di Charlotte.
Aleggia un grande pudore, in una danza intima e piena di grazia, tra donne, destinate a ricomporsi in un abbraccio finale. Quasi citando Klimt, e le sue tre età della donna.
“Perché impariamo a vivere senza le nostre madri? Io non voglio farlo”
È quello che si chiede Charlotte, nel set truffautiano, aperto sull’infinito, fatto di spiaggia, mare e cielo.

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