18 luglio 2024

LE POESIE DI PAUL CELAN IN UNA NUOVA TRADUZIONE




LE POESIE DI PAUL CELAN

di Gaetano de Virgilio

A partire dai primi anni Sessanta Vittorio Sereni tenta di portare in Italia «il più grande poeta emerso dalla tragedia della seconda guerra mondiale»: Paul Celan. Dovrebbe essere Andrea Zanzotto, secondo lui, a tradurlo, ma niente da fare. Si fa il nome di Giuseppe Bevilacqua che sì, lo tradurrà, ma tempo dopo. Celan è il primo ad attenzionare la questione. Le accuse di plagio di Claire Goll, la moglie del poeta Yvan Goll, hanno avuto un peso specifico prima nella psiche del poeta e poi nel suo suicidio, quindi il rischio deve essere pari a zero. Nessuno spazio a fraintendimenti. Le parole vanno scelte e i versi, in italiano, devono sovrapporsi a quelli originali. È l’orecchio di Celan a designare un giovane germanista, Moshe Kahn, all’epoca ventisettenne direttore del Goethe-Institut di Firenze. Sente che la sua voce è traslata e riadattata, che il piede scalzo del traduttore questa volta non troverà i vetri ambigui delle parole lungo il cammino. Ed ecco allora la prima traduzione italiana per Lo Specchio Mondadori, proprio ad opera di Moshe Kahn e Marcella Bagnasco. Siamo nel 1976. Oggi la casa editrice L’Orma ripubblica, in versione ampliata, questo volume (la revisione è dello stesso Moshe Kahn, a cui si aggiunge la collaborazione con Vittorio Tamaro). Il titolo è quello di allora: Poesie.

Tre mesi dopo la scelta del suo traduttore italiano, Paul Celan si toglie la vita; precisamente nella notte tra il 19 e il 20 aprile 1970, gettandosi nelle acque della Senna dal ponte Mirabeau (a due passi dall’ultima abitazione parigina della Cvetaeva, anche lei suicida circa trent’anni prima). Il corpo verrà poi ritrovato da un pescatore solo nei primi giorni di maggio. «Al largo. Giallocotogno spira/ un pezzo di semi-sera dal/ picco alla deriva».

Avere a che fare con l’aspetto biografico, editoriale e poetico di Paul Celan è come assistere ad un concerto di patate bollenti che migrano di vicenda in vicenda.

Eccone qui un’altra: Paul Celan all’anagrafe si chiama Paul Antschel. Cambierà nome molto più tardi. Antschel, in yiddish, diviene Asher in ebraico che diviene Ancel in rumeno. Da qui, l’anagramma: Celan. «Nella casa abita un uomo che gioca con i serpenti che scrive». Le identità si moltiplicano alla luce di una gnosi che difficilmente lascia indenni, quella tra traduttore e poeta. Celan è sì un poeta rumeno di origine ebraica, ma è anche traduttore dall’inglese, francese, russo, italiano, ebraico e portoghese; la tirannide di un’identità apolide è presto mitigata dai versi di altri. È sì Celan, ma è anche la voce di Čechov, Cioran, Mandel’štam, Ungaretti, Shakespeare, Simenon e tanti altri. Lì dove la nausea ideologica, il trauma psichico e la precarietà la fanno da padrona, Celan – e con lui i lettori delle sue poesie – sembra sottostare, grazie ad un talento poetico unico e raro, a quelli che Alain Robbe-Grillet avrebbe chiamato glissements progressifs du plaisir di lingua in lingualetteralmente degli slittamenti progressivi del piacere.

Da qui, se vogliamo, proviene l’attenzione solerte e diligente che richiedeva ai traduttori della sua poesia. Nel volume de L’Orma che oggi abbiamo tra le mani la traduzione è stata (ri)messa nel palmo di chi poteva tenere viva la lingua di una infanzia, una lingua non ancora scarnificata dalla revisione nazista e ancora capace di trattenere una tensione mistica, espressionista, oscura, in grado di «non separare il no dal sì».

Il libro, volendo, è una biografia poetica da decifrare. Troveremo una poesia che si intitola FioreFleur, infatti, è la prima parola pronunciata da Eric, il secondogenito, a venti mesi dalla sua nascita. Qui, nella traduzione di Moshe Kahn: «Fiore – una parola da ciechi./ Il tuo occhio e il mio: provvedono/ all’acqua.// Crescita./ Parete a parete del cuore/ ivi s’aggiunge.// Una parola ancora, come questa, e i martelli/ oscillano all’aperto».

Troveremo, tra le righe, donne e amori ardenti – Rosa Leibovici, Nina Cassian, Lia Fingerhut, Corina Marcovici – che si succedono a dolori e passioni di alambicco, distillate tra lettere e tradimenti (si legga Troviamo le parole, edito da Nottetempo. Sono le lettere che Paul Celan e Ingeborg Bachmann si scambiano tra il 1948 e il 1973. Lettere intervallate da epistole di Giséle Lestrange, sposa ufficiale di Celan, e di Max Frisch, compagno della Bachmann. (È a questa parentesi che affideremo un golpe gossipparo: anche Claire Goll, moglie di Yvan Golle, che per anni accusò di plagio Paul Celan nel 1918 ebbe un’avventura con Rainer Maria Rilke)).

All’interno di Papavero e memoria, volume irrinunciabile ed imprescindibile nel ventaglio del Novecento, la poesia intitolata Corona è dedicata proprio alla Bachmann. «Il mio occhio scende al sesso dell’amata:/ ci guardiamo,/ ci diciamo cose oscure,/ ci amiamo l’un l’altro come papavero e memoria,/ dormiamo come vino nelle conchiglie,/ come il mare nel fiotto di sangue della luna».

Com’è noto la traduzione (e la lettura) di Celan è sempre stato un tentativo di traduzione, un tentativo di avvicinamento all’ignoto; vince chi, perduto, si lascia andare.

 

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