Danilo Dolci intellettuale scomodo anche 50 anni dopo
Il 17 marzo scorso la trasmissione di Rai3 Passato e Presente”, condotta e curata da Paolo Mieli, ospite lo storico Agostino Giovagnoli, ha approfondito la figura di Danilo Dolci, sociologo, poeta, educatore, nato il 28 giugno 1924 a Sesana, oggi città slovena, e morto il 30 dicembre 1997 a Partinico (Pa) (https://www.raiplay.it/video/2021/03/Passato-e-Presente—Danilo-Dolci-il-Gandhi-di-Sicilia-f18f251e-5302-4352-a84c-42e8494df12d.html). Dolci trascorse 45 anni in Sicilia. Trappeto e Partinico i luoghi in cui visse. A chi gli chiedeva perché avesse scelto quei territori, Danilo rispondeva che era perché si trattava del «paese più misero» che avesse mai visto (e che conosceva avendovi abitato da bambino dato che suo padre era stato, per un periodo, capostazione proprio a Trappeto). Quando Dolci vi tornò, agli inizi del 1952, «il paese era attraversato da un vallone centrale che serviva da fognatura scoperta. I bambini di Trappeto ci sguazzavano dentro». Questa la descrizione di Dolci, che proseguiva: «Mi trovavo, pur in Europa, in una delle zone più misere e insanguinate del mondo: vasta la disoccupazione, diffusissimo l’analfabetismo, sottilmente e prepotentemente penetrante quasi dovunque la violenza mafiosa».
Tralascio di descrivere l’intensa attività svolta a Trappeto da Danilo, che è ben ripercorsa in Piantare Uomini di Giuseppe Casarubbea (Castelvecchi, 2017). Mi interessa, invece, soffermarmi su due profili toccati in modo fuorviante nella trasmissione citata.
La prima discutibile affermazione di Mieli e che: «la Democrazia Cristiana fu assolta in tre gradi di giudizio in quanto non ritenuta responsabile né della presenza mafiosa su quei territori, né tantomeno delle povertà denunciate da Danilo Dolci». Le cose, in realtà, sono assai più articolate, così come il rapporto mafia-potere politico denunciato da Dolci. Per il suo impegno e le sue affermazioni Dolci subì due processi.
Il primo si svolse nel 1956 di fronte alla prima sezione del Tribunale di Palermo. L’imputazione contestata a Dolci, sottoposto a carcerazione preventiva per 50 giorni, era di «invasione di terreni» durante uno sciopero alla rovescia di disoccupati realizzato a Partinico. Dolci fu condannato, sia pure con il riconoscimento dell’attenuante dei «motivi di particolare valore morale e sociale» a un mese e venti giorni di reclusione. Del collegio di difesa faceva parte Piero Calamandrei, la cui arringa (https://canestrinilex.com/risorse/in-difesa-di-danilo-dolci-di-piero-calamandrei/) resta una pietra miliare nella storia giudiziaria italiana. Il processo creò grande attenzione intorno alle condizioni di povertà e degrado di Partinico e Trappeto e del loro abbandono da parte della politica. Al processo l’editore Einaudi dedicò il volume Processo all’articolo 4 (ripubblicato nel 2011 da Sellerio), con contributi dei maggiori intellettuali dell’epoca, e con Dolci si schierò senza riserve l’Associazione italiana per la libertà della cultura, di cui era magna pars Ignazio Silone, che aprì una sottoscrizione con la quale venne raccolto oltre un milione e mezzo di lire, utilizzato per fornire la biblioteca della struttura di Partinico di libri e suppellettili.
Il secondo processo, a cui ha fatto specifico riferimento Mieli per affermare l’innocenza della Democrazia Cristiana rispetto alla mafia e alle povertà della Sicilia, venne celebrato davanti alla IV sezione penale del Tribunale di Roma, vide come imputati Dolci e Franco Alasia ed ebbe inizio il 20 novembre 1965. Nella trasmissione ricordata sia il conduttore che lo storico hanno accuratamente evitato, con evidente imbarazzo, di pronunciare i nomi dei querelanti: Bernardo Mattarella, ministro per il Commercio con l’estero, e Calogero Volpe, sottosegretario alla Sanità, entrambi esponenti di rilievo della Democrazia Cristiana. Bernardo Mattarella – merita ricordarlo – era il padre di Piersanti, divenuto anni dopo presidente della Regione Sicilia e ucciso dalla mafia il 6 gennaio 1980, e di Sergio, attuale presidente della Repubblica. Altrettanto in vista erano i difensori di Mattarella: Giovanni Leone (divenuto nel dicembre 1971 presidente della Repubblica) e Girolamo Bellavista, principe del Foro di Palermo. Ovviamente, per Dolci, i rapporti tra mafia e politica in Sicilia non si esaurivano nelle persone di Mattarella e di Volpe (come documentato nel libro inchiesta Chi gioca solo, pubblicato nel 1966 da Einaudi): semplicemente questi erano gli uomini politici più rappresentativi e influenti della zona in cui Dolci operava e quindi su di loro si era concentrata la sua attenzione. Ma la scelta del Tribunale fu proprio quella di evitare di estendere l’esame alle responsabilità della Democrazia cristiana per la diffusione della mafia nell’isola, accogliendo l’impostazione dell’avvocato Leone secondo cui: «La causa, essendo già sufficientemente istruita, non postula l’opportunità di nuovi accertamenti. Il processo non può e non deve uscire dai suoi limiti, in esso non si possono affrontare problemi generali dovendosi esso riferire a problemi personali». Con tale decisione, la mafia uscì dall’aula e la posizione degli imputati fu definitivamente pregiudicata, tanto che Dolci ed Alasia, con una lettera del gennaio 1967, comunicarono al presidente del collegio la decisione di astenersi, per protesta, dal partecipare alle ulteriori udienze. Questi i termini reali del processo, nel quale Dolci fu condannato a due anni di reclusione e a 250 mila lire di multa (tutti condonati). Bernardo Mattarella uscì, dunque, vittorioso dalla contesa giudiziaria, che, peraltro, segnò la fine della sua carriera politica, tanto che, a partire dal 23 febbraio 1966, quando si costituì il terzo governo Moro, non fu più ministro.
Il secondo discutibile passaggio di Mieli sta nella critica a Dolci per aver accettato il Premio Lenin per la Pace attribuitogli dall’Unione Sovietica nel 1958. Vero il fatto, sarebbe stato opportuno ricordare la dichiarazione resa da Dolci, all’atto della accettazione: «Non sono comunista, non ho ancora visto un metro quadrato delle Repubbliche Sovietiche. Accetto il Premio e ringrazio profondamente; andrò a Mosca, se mi danno il passaporto, per riceverlo. Qualcuno dice: “Ecco l’utile idiota di turno”; si è premuto affinché rifiutassi. Mi si chiede, implicitamente o esplicitamente, da una parte e dall’altra, una chiarificazione. […] Si è voluto, se non erro, porre in rilievo due fatti che vanno ben oltre la mia persona e il nostro gruppo: la validità delle vie rivoluzionarie nonviolente, accanto alle altre forme di azione e di lotta, nell’affrontare la complessa realtà; la continua necessità di un’azione scientifica ed aperta, maieutica direi, dal basso». Merita ricordare che, nel maggio successivo, con i soldi del Premio, Dolci costituì il Centro Studi e Iniziative per la Piena Occupazione, con sedi in diversi Comuni dell’isola, che diventerà rapidamente uno straordinario strumento al servizio dello sviluppo di tutta la Sicilia Occidentale.
Le calunnie, gli atti intimidatori, i tentativi di ridimensionare e ridicolizzare i risultati ottenuti, le vere e proprie campagne denigratorie sono state una costante lungo tutta la vita di Dolci. Le imprecisioni e la superficialità nel suo ricordo realizzato con la trasmissione di Mieli mostrano quanto Dolci resti ancora, oltre 50 anni dopo i fatti esaminati, un intellettuale scomodo.
Nota. Per una più ampia ricostruzione degli eventi qui esaminati si può vedere Danilo Dolci e la dimensione utopica di Livio Ghersi (https://centrostudialeph.it/archivio/dolci/web_site/dda/ghersi.html)
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