“Ingmar Bergman era dotato di una fervida immaginazione cinematografica e di un gran senso dell'humor. Era un uomo brillante, incredibilmente intelligente ed aveva la capacità di leggere velocemente nell'animo delle persone per dedurne il carattere. E, a differenza di quanto si possa credere, era anche molto divertente. Quello che ancora oggi non riesco a capire è come abbia fatto a lavorare tanto. Nell'ambiente si diceva che Bergman scriveva le sue sceneggiature durante l'inverno e la primavera, girava in estate e montava in autunno per far uscire il film a Natale. Credo che il suo segreto fosse la disciplina. Ricordo, ad esempio, che detestava i rumori. Durante le prove e le riprese era molto severo su questo punto.”
Max von Sydow - intervista di
Tiziana Morganti
A volte è una particolare fortuna essere regista cinematografico. Un’espressione mai provata si genera nell’istante, e la cinepresa fissa questa espressione. Proprio questo è successo oggi. Inaspettatamente, senza averlo provato, Alexander diviene pallidissimo, un dolore assoluto si dipinge sul suo volto. La cinepresa fissa l’istante. Quel dolore, inafferabile, fu lì per qualche secondo e non tornò mai più, non c’era nemmeno prima, ma la pellicola imprigionò l’attimo. Mi sembra allora che sia valsa la pena di giorni e mesi di prevedibile regolarità. Forse vivo per questi brevi momenti. Come un pescatore di perle.
C’è una soddisfazione sensuale nel
lavorare a contatto con persone forti, autonome e creative: attori, tecnici,
elettricisti, direttori di produzione, trovarobe, truccatori costumisti, tutte
queste personalità che popolano la giornata e la rendono vivibile. Mi capita di
provare una forte nostalgia di tutto e tutti. Capisco quel che intende dire
Fellini quando afferma che il cinema è per lui un modo di vivere. Capisco anche
il suo aneddoto su Anita Ekberg. La sua ultima scena nella Dolce vita si
svolgeva su una macchina collocata in studio. Quando la scena fu girata e le
riprese per lei furono concluse, si mise a piangere e si rifiutò di lasciare
l’automobile aggrappandosi al volante. La si dovette portar fuori con dolce
violenza.
Quando il film non è un documento,
è un sogno. Per questo Tarkovskij è il più grande di tutti. Lui si muove con
assoluta sicurezza nello spazio dei sogni, lui non spiega e, del resto, cosa
dovrebbe spiegare? E' un osservatore che è riuscito a rappresentare le sue
visioni facendo uso del più pesante e del più duttile dei media. Per tutta la
mia vita ho bussato alla porta di quegli spazi in cui lui si muove con tanta
sicurezza. Solo qualche volta sono riuscito a intrufolarmi dentro. I miei
tentativi coscienti hanno avuto quasi sempre come risultato dei penosi
insuccessi: L'uovo del serpente, L'adultera, L'immagine allo specchio ecc.
Fellini, Kurosawa e Bunuel si muovono nello stesso mondo di Tarkovskij.
Antonioni era sulla stessa strada ma cadde sopraffatto dalla propria noiosità.
Melies vi si trovò sempre senza bisogno di rifletterci sopra. Era un mago di
professione. Film come sogno, film come musica. Nessun'altra arte come il
cinema va direttamente ai nostri sentimenti, allo spazio crepuscolare nel profondo
della nostra anima, sfiorando soltanto la nostra coscienza diurna. Un nulla del
nostro nervo ottico, uno shock: ventiquattro quadratini illuminati al secondo,
e tra di essi il buio.
Facciamo silenzio e ascoltiamo: le voci si muovono in dolci linee curve, la tempesta strepita. Non c'è illuminazione stradale a cancellare l'incerta, morente luce del giorno che svanisce sempre più rapidamente. Il canto penetra nelle nostre anime, i volti si fanno confusi. Il tempo è cessato, ora siamo racchiusi in un mondo che esiste sempre ed è sempre vicino a noi. Abbiamo bisogno solo di un madrigale, di una tempesta di neve e di una città immersa nel buio per essere circondati da uno spazio ben noto, benché ce lo immaginiamo irraggiungibile. Ogni giorno, nel nostro lavoro, giochiamo con il tempo : allunghiamo, abbreviamo, aboliamo. Naturalmente questo accade senza che dedichiamo un solo pensiero al fenomeno. Il tempo è fragile, una struttura superficiale, ora scompare completamente.
Ingmar Bergman, da Lanterna magica, Garzanti editore - Traduzione di Fulvio Ferrari
L'autobiografia del grande regista
si snoda come un film, nel quale i personaggi sono i fantasmi della memoria, i
morti "costretti a tormentare i vivi", "il mondo perduto di
luci, profumi, suoni" congelato nell'infanzia che a volte si scioglie
liberando sentimenti dolci e struggenti. Un percorso che annoda presente e
passato svelando quanto della propria esperienza vissuta traspaia nell'opera
teatrale e cinematografica. Non ci sono reticenze né falsi pudori nel
raccontare le prime esperienze erotiche dell'adolescenza o i grandi amori della
maturità, come quello per Liv Ullmann, o l'entusiasmo giovanile per il nazismo,
né alcun narcisismo nel ricordare gli incontri con von Karajan o Greta Garbo.
Il cerchio della memoria si chiude con una pagina tratta dal diario della
madre, in cui si racconta la nascita di Ingmar e l'eventualità che il piccolo
non sopravviva, data la sua debole costituzione.
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