La questione morale come questione fondamentale
Tonino Perna
Partendo dall’inchiesta “Ducale” che ha coinvolto l’Istituzione comunale reggina, il Direttore Massimo Razzi ha riacceso un faro sulla “questione morale” come questione politica, che è stata seppellita da tutte le forze politiche, ed è ormai accettata dalla gran parte dell’opinione pubblica come fatto quasi naturale e comunque inevitabile. Certo, formalmente, molti si indignano e prendono le distanze, ma spesso sono gli stessi che nel loro quotidiano usano la corruzione per vantaggi di vario tipo.
Purtroppo, questo fenomeno non riguarda solo la Calabria, ma investe tutta l’Italia, e non solo. Che la “questione morale” fosse una questione politica di prima grandezza l’aveva intuito e denunciato Enrico Berlinguer. In una famosa intervista condotta da Eugenio Scalfari il 28 Luglio 1981, il segretario del P.C.I. aveva avvertito del pericolo che correva la democrazia italiana con il diffondersi di una rete di corruzione che riguardava enti e istituzioni pubbliche e parastatali.
Per Berlinguer la causa non era da ricercarsi nella ricorrente lamentela della perdita dei valori, ma aveva delle ragioni strutturali: l’occupazione dello Stato, in tutte le sue articolazioni, da parte dei partiti politici. E, alla domanda di Scalfari, del perché gli italiani non si ribellassero, Enrico Berlinguer rispondeva con una punta di amarezza: “perché sono ricattati o ricevono benefici, o sperano di riceverne in futuro, da questo sistema partitico/clientelare”.
Sono passati più di quarant’anni e la corruzione è diventata un fenomeno di massa che coinvolge milioni di cittadini, dipendenti pubblici e organizzazioni politiche e sindacali. Parafrasando un vecchio e suggestivo libro di Pietro Ingrao (Masse e Potere) si potrebbe dire che le masse si sono fatte Stato per mangiarselo a bocconi. In altre parole, non sono solo i partiti, ridotti da tempo a meri centri di potere e rappresentanti di singoli interessi, ad avere occupato lo Stato è anche una parte rilevante della popolazione che ha utilizzato la corruzione per ottenere benefici dal welfare che è stato conquistato da decenni di lotte dei lavoratori, unitamente ad una crescente corruzione negli apparati amministrativi a tutti i livelli.
Già nel 1968 Samuel P. Huntington , prestigioso e controverso politologo statunitense, nel suo “Modernization and Corruption” , offriva un quadro della corruzione su scala globale, che era vista, soprattutto nei paesi del Sud,, come una sorta di facilitatore per aggirare una burocrazia inefficiente (W.H.Leff) , un acceleratore delle scelte imprenditoriali (D.H. Bayley), un emolliente (Mc-Mullon) una sorta di meccanismo di riequilibrio del mercato.
Al contrario il Nobel Gunnar Mydal denunciava la corruzione come fattore di “distorsione” nei meccanismi di distorsione delle risorse. In ogni caso su un fatto quasi tutti gli studiosi concordavano: la corruzione costituisce un fondamentale fattore di “integrazione” socio-politica. Come ebbe allora ad osservava Huntington : <>.
A distanza di oltre mezzo secolo queste parole pesano come pietre. La corruzione di massa in cui siamo immersi da tanto tempo ha come anestesizzato il nostro paese, sterilizzato le coscienze, drogando le grandi masse popolari. Se alle volte ci domandiamo perché in Francia, ad esempio, scendono in piazza per mesi per un aumento di due anni dell’età pensionabile o per l’aumento di qualche centesimo del prezzo della benzina, forse la risposta l’abbiamo trovata nel differenziale dei livelli di corruzione tra noi e loro.
Ma non abbiamo ancora trovato la strada per uscire da questo rovinoso declino politico. Forse la fine delle vacche grasse (Prnn), l’inevitabile politica di austerity con il taglio netto della spesa pubblica, farà scoppiare le contraddizioni di un sistema di corruzione che si è retto, anche, su una montagna di debito a carico delle future generazioni.
da “il Quotidiano del Sud” del 9 luglio 2024
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