24 SETTEMBRE 1961:
LA PRIMA MARCIA DELLA PACE
PH: PERUGIASSISI.ORG
Con la Marcia della pace, fortemente voluta da Aldo Capitini, si
avvia un processo di maturazione civile della Repubblica. E si
inaugura una nuova forma di protesta pacifica destinata ad avere molto
successo negli anni a venire
24 SETTEMBRE
2022
Non è semplice riassumere in poche
battute il significato della prima Marcia della pace che da Perugia si inerpicò
fino alla rocca di Assisi la mattina del 24 settembre 1961: sicuramente per la
storia del pacifismo italiano si trattò di un punto di svolta, di una data
fortemente periodizzante in grado di segnare un prima e un dopo. Ma una qualche
rilevanza, magari più simbolica che fattuale, la si può rintracciare anche
nella storia stessa dell’Italia repubblicana: una marcia laica, la cui genesi
andava ricercata sorprendentemente al di fuori dei partiti politici, al di
sopra della logica manichea della Guerra fredda, della contrapposizione dei
mondi e dell’appartenenza ideologica a una delle «due chiese». Una iniziativa
che, in qualche modo, testimoniava l’avvio di un processo di maturazione a
livello civile da parte di una Repubblica adolescente, di un Paese che da
poco più di quindici anni si era liberato del suo passato fascista e
della sua pedagogia bellicista e violenta e aveva imboccato, pur tra mille
contraddizioni, la strada della democrazia.
Provo a sintetizzare tutto questo
ricorrendo alle immagini, alle poche fotografie scattate in quel giorno dai
fotografi delle testate giornalistiche presenti o da qualche partecipante. Chi
osserva le scene cristallizzate da quegli scatti non può non rimanere
colpito da una doppia contrapposizione. Il primo contrasto è quello tra i volti
sorridenti e gli atteggiamenti spensierati delle migliaia di persone che
percorrevano il tragitto che separa le due città e le scritte che si
potevano leggere sugli striscioni che campeggiavano sopra le loro teste:
scritte che rimandavano a un presente fosco, angosciante, fatto di guerre, di
omicidi politici, di armi atomiche, contro cui i marciatori alzavano
timidamente la loro voce; il presente di un mondo che sembrava nuovamente
avviarsi su una pericolosa china di violenza e distruzione.
In effetti, la collocazione
cronologica della Marcia era anch’essa significativa: soltanto un mese prima la
Guerra fredda aveva partorito uno dei suoi simboli più rappresentativi e
angosciosi al tempo stesso, il Muro di Berlino, la cui costruzione coincideva
con uno dei momenti di massima tensione negli equilibri internazionali, che era
iniziato in primavera con lo sbarco della Baia dei Porci e che sarebbe
culminato un anno dopo la marcia, con la crisi dei missili a Cuba. Qualche mese
prima della Marcia si era aperto a Gerusalemme il processo al gerarca nazista
Adolf Eichmann, che stava disvelando al mondo l’orrore dei campi di sterminio
nazisti e della Shoah, di cui erano ancora scarsamente conosciute le dimensioni
e le modalità di attuazione. Intanto focolai di guerra stavano divampando in
gran parte dei Paesi africani e asiatici ormai avviati sulla via senza ritorno
della decolonizzazione, dall’Indocina all’Algeria, fino al Congo, dove era in
corso un conflitto devastante che avrebbe coinvolto direttamente anche
l’Italia: soltanto un mese e mezzo dopo la Marcia sarebbero stati
massacrati tredici militari della nostra aviazione militare a Kindu, mentre
prendevano parte alla prima missione di pace delle Nazioni Unite.
Anche per la società italiana si
trattava di un delicato momento di passaggio: dopo le rivolte più o meno
spontanee contro i rigurgiti fascisti del governo Tambroni, che avevano
infiammato le piazze di alcune città quindici mesi prima, il terzo governo Fanfani
stava traghettando il Paese verso l’esperienza politica del centrosinistra,
generando un clima di attesa finanche eccessivo.
La marcia della pace fu una
manifestazione costruita con un linguaggio del tutto nuovo, il tentativo
di entrare dentro il terreno della politica con una forma partecipativa non
ancora sperimentata nel nostro Paese
Ma soprattutto, la marcia si
collocava proprio al centro di un altro fenomeno epocale e globale: il miracolo
economico (1958-1963): in questo momento l’Italia stava vivendo, oltre a un
poderoso slancio produttivo, anche un radicale processo di modernizzazione, in
grado di stravolgere non soltanto gli assetti produttivi, ma anche le culture
diffuse, le forme partecipative, i linguaggi. Ed ecco il punto: la Marcia
della pace fu esattamente questo, una manifestazione costruita con un
linguaggio del tutto nuovo, un tentativo di entrare dentro il terreno della
politica (intesa nel senso più lato e più alto del termine) con una forma
partecipativa non ancora sperimentata nel nostro Paese.
La sensibilità pacifista sembrava
non riuscisse a oltrepassare lo stretto recinto dei fedelissimi e degli
accoliti, sempre pronti a partecipare a ogni manifestazione, ma sempre gli
stessi. L’intento della Marcia era invece quello di coinvolgere le classi
popolari
Aldo Capitini, ideatore,
organizzatore e anima della Marcia, ormai da anni, insieme alla sua stretta
cerchia di collaboratori, dedicava grande dispendio di tempo e di energie per
organizzare incontri, convegni, seminari, conferenze sui vari temi connessi
alle diverse anime del pacifismo del tempo; ma senza risultati apprezzabili. La
sensibilità pacifista sembrava non riuscisse a oltrepassare quello stretto
recinto di fedelissimi e di accoliti, sempre pronti a partecipare a ogni
manifestazione, ma sempre gli stessi. L’intento della Marcia era proprio
questo: riuscire a coinvolgere le classi popolari. «È fatta per loro, questa
marcia, perché i contadini sanno camminare, mentre sono a disagio nelle
conferenze», diceva il filosofo perugino ai giornalisti che lo intervistavano
la mattina di quel 24 settembre. In effetti una partecipazione popolare vi fu:
per la prima volta i partecipanti a una manifestazione per la pace, organizzata
al di fuori dei partiti politici, si contavano non più a decine, ma a migliaia.
La marcia produsse uno sconvolgimento profondo nel «piccolo mondo
antico» del pacifismo italiano, spezzò il recinto, permise a molti nuovi
soggetti di entrarvi e modificarlo dall’interno.
Naturalmente a comporre quella
folla eterogenea in marcia per la pace non c’erano soltanto operai e contadini,
ma anche insegnanti, intellettuali, artisti e soprattutto tantissimi giovani,
ragazze e ragazzi. Ed ecco il secondo contrasto che emerge chiaramente dalle
fotografie: quello dei segni esteriori. La figura compassata di Capitini,
all’epoca poco più che sessantenne ma già segnato dagli anni (una parte del
tragitto aveva dovuto percorrerla in auto per alcuni malanni fisici che lo
tormentavano da tempo), con giacca grigia, cravatta scura e cappello a tesa
calato sulla testa, spicca in mezzo alle t-shirt e alle camicie aperte dei
giovani che lo circondavano, alle gonne colorate delle ragazze, agli
atteggiamenti festosi, spensierati e a volte anticonformisti di quei ventenni
che salivano verso Assisi cantando al suono della chitarra e gridando slogan.
Una generazione che ha fiato accanto a una generazione che non ne ha quasi più.
Questo è il secondo punto: la Marcia è un passaggio di testimone, è il lascito,
forse uno dei più importanti, di un uomo che aveva letteralmente costruito il
pacifismo in Italia – e, in particolare, il pacifismo di matrice nonviolenta –
alla generazione di ventenni che stava inaugurando quella che alcuni storici
hanno chiamato «la stagione dell’azione collettiva». Da allora in poi la marcia
come forma di protesta, manifestazione di dissenso, o soltanto richiesta di
attenzione per un particolare tema, vivrà di vita propria anche all’interno
della protesta pacifista: le marce per la pace si susseguiranno quasi senza
soluzione di continuità per tutti gli anni Sessanta e per il decennio
successivo fino a culminare all’inizio degli anni ottanta con le marce contro
l’istallazione dei missili a Comiso.
Capitini, invece, subito dopo la
Marcia vide messa in discussione la propria leadership sul movimento pacifista.
Quei giovani cercavano ormai nuovi maestri e nuove parole. Il paradosso
consiste proprio in questo: l’inattualità della figura di Capitini aveva
consegnato alla generazione che si stava prendendo la scena uno strumento tra i
più moderni e pacifici, che avrebbe segnato di lì in avanti le forme di
protesta e le istanze partecipative. Poi, senza recriminare, si era fatta da
parte.
Rivista il Mulino 2023
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