Il volto del nemico
di Agostino Bimbo
Il volto del nemico è l’ossessione degli abitanti di Caffa. Il volto mai visto negli undici mesi di assedio, tracciato dai resoconti incerti degli esploratori e dalle indiscrezioni delle sentinelle. Il volto che temono di incrociare fra i cantoni silenziosi del bazar o nella piazza deserta. Il volto che la paura, nell’attesa di un assalto, ha ricoperto di disprezzo: non sanno bene come sono fatti, i demoni là fuori, ma sanno quanto siano distanti dal popolo meticcio di Caffa.
Non hanno la barba folta degli ebrei. La voce dei rabbini nelle sinagoghe della città deride in ogni predica la peluria attorno alle labbra infedeli. E il naso, con quelle narici di capra, non è quello dei greci stipati nei quartieri portuali. Nessuno assomiglia ai soldati di Gani Bek, neanche tra i fabbri armeni della zecca. I monetieri si coprono le pupille coi tondelli d’argento per mostrare ai figli l’aspetto bestiale degli assedianti mentre i mercanti genovesi, coi traffici in malora, maledicono il loro sguardo indolente.
Nessuno è capace di ammettere che il volto nemico, senza librare un colpo, ha già invaso le teste di tutti: larve umane popolano gli edifici di Caffa, fantasmi vagano nelle stanze del palazzo consolare e nei magazzini sforniti, un torpore luttuoso ha incrostato i movimenti del tempo.
Eppure, non vista, la vita si aggira ancora fra i bastioni in guerra. Striscia lungo le mura, ruzzola sulle gambe di una ragazza di quindici anni alla ricerca di un varco. La vita ha un nome, si chiama Miriam. E un piano: scappare da Caffa. Per andare dove non sa, ma sa che non può attendere le spade nemiche iniziando a morire.
Odia la stasi in cui è precipitata la sua terra, un tempo crocevia di carne e profumi. Odia l’assenza di voci nelle strade, delle urla nei caravanserragli, dei gemiti di bestie e di uomini travolti dalla festa dell’esistenza. Rimpiange ogni suono. Rimpiange la voce eccitata di suo padre al rientro dai traffici portuali e quella di sua madre, così giovane, inebriata dalle promesse di avvenire dopo la miseria da cui erano scampati.
L’ha lasciata in silenzio anche oggi. Con le dita impigliate nelle reti da pesca del suo uomo, fra quelle maglie ormai impossibili da rammendare. Lei e Miriam non si parlano dal primo giorno di assedio. Ognuna per sé, ad annientarsi come può, senza permettere alle parole di addomesticare l’assenza. Vorrebbe parlarle, lo sogna ogni notte, ma sua madre tace anche nei sogni. Quei sogni in cui prova a destarla, a convincerla a fuggire da quella terra irriconoscente: salpare verso Amasra, Trebisonda o Genova, il nome che più degli altri somiglia alla parola casa. Ma tutte le notti il sogno si perde fra le onde e lascia il posto alla rabbia del risveglio.
A un altro giorno da passare in strada a spiare il profilo delle trenta torri. A imparare i turni di ronda, gli ingranaggi che serrano i portoni. Da undici mesi sempre più sola. Con la sabbia a morsicarle gli stinchi e l’ombra dei corvi a vegliare sulla sua follia: evadere da un inferno immobile verso quello che si agita oltre le mura.
Quando la luce del mezzogiorno pungola il paesaggio, scruta lo scintillio dei loro elmi sul promontorio, l’affaccendarsi delle figure intorno alle catapulte in tensione. E poi la tenda fumante del capo, al centro dell’accampamento, col braciere sempre acceso attorniato di concubine. Anche oggi quel fumo intossica il mondo: Miriam lo guarda e ricorda quanto li odia
Tutti sapevano del loro arrivo, undici mesi fa. Soltanto un uomo conobbe il momento preciso. Assopito al largo in attesa dei guizzi delle palamite, quell’uomo vide la cupola di sabbia apparire all’orizzonte: i cavalli delle avanguardie già volavano sulla linea di costa in direzione di Caffa.
Allora eccolo rovistare nel ventre dell’imbarcazione. Stracci, una gabbia di giunchi, un remo a cui dar fuoco sul ponte. A rischio di morire – aveva altra scelta? – per allertare la città ignara. Per avvertire le sentinelle, scatenare le campane e dare tempo a sua moglie e sua figlia di nascondersi. Quel fumo era il suo congedo: mentre i cardini si smuovevano per l’ultima volta, la doppia punta di una freccia gli attraversava il petto.
Così Miriam, nostro angelo ingenuo, crede che le spire di fumo vomitate dall’accampamento nemico portino un suo messaggio. Un invito a salvarsi, e vendicarlo. Ma come? Poggia i palmi sulla parete in attesa di un segno. Come chiudere i conti col male venuto da Oriente? Come essere degna del sacrificio di un padre rannicchiato in fondo al Mar Grande con le ossa marcite e le orbite attraversate dai saraghi?
Merita risposte, il suo sguardo indurito. Merita una possibilità di vendetta, e conforto. È ormai tempo di ricompensa: sulle sue gambe veloci, nella rena bollente, il futuro tornerà a danzare fra le mura della città.
Un tonfo alle sue spalle. Una nuvola di terra la investe; si impasta ai capelli sudati, le entra nei bronchi. Tossisce. Poi il polverone si abbassa e scontorna una sagoma umana ai piedi della muraglia. Si avvicina, sicura: non è la prima volta che un soldato di ronda sviene per la fatica, la sete, o per sua scelta. Basterà un pezzo di pane a ripagare la vista oscena. Lo raggiunge. Gli agguanta il mantello, fa leva sulla gamba per capovolgere il corpo. Inciampa nell’elmo, che rotola via. Risale con le mani al corsetto. Slaccia, perlustra il ventre livido, il collo rigonfio. L’avidità delle dita si placa soltanto dinanzi al suo volto. A quegli zigomi sporchi di sabbia. Zigomi ossuti, lontani fra loro. A quelle narici appiattite. E a quegli occhi. Allungati, a forma di pesce: uguali ai loro.
Porta la mano alla bocca. Deve correre via, è già in piedi. Deve dare l’allarme: i nemici sono dentro Caffa. Urla di mettersi in salvo fra i vicoli della città vecchia. Annuncia che hanno invaso, i demoni, che sono dentro le mura – tocca a lei, come a suo padre, additare la morte per prima. Il grido trafigge ogni uscio e richiama le gambe a raccolta. Cresce il clamore, insieme al lamento. Ognuno bestemmia il suo Dio fra le lacrime.
Ma nessuno capisce. Nessuno sente il frusciare delle catapulte che schioccano a ripetizione verso le mura. Nessuno alza gli occhi al cielo chiazzato di stelle nere che sfilano sui cortili e sui tetti, sui capannelli di teste. Nessuno si accorge della pioggia di corpi nel cielo di Caffa.
Finché cominciano i boati. Cadaveri cadono sulle baracche dei pescatori. Spaccano il solaio dei granai, si vanno a incastrare fra i ponteggi, negli orti. Cadaveri impattano sui muri del palazzo consolare, incrinano gli stendardi della repubblica lontana. Perdono pezzi: spallacci e gambiere rotolano sui terrazzi, sbreccano i comignoli. Cadaveri si accucciano nei canali di scolo. Precipitano nei pozzi. Cadaveri si incastrano con una gamba fuori dai trogoli dei maiali, che li vanno ad annusare.
Ogni boato è un richiamo di guerra. Tamburi smuovono i soldati di ronda, la forza ritorna nelle braccia degli uomini che sospingono carri, impugnano forche. Miriam li scruta, e pensa che è arrivato il momento. Sfreccia verso casa con l’anima stretta, un piede che supera l’altro. Inciampa. Ed è superata a sua volta: milioni di impronte più veloci delle sue, mentre ha il ventre a terra, le calpestano la schiena. Dai fori delle cisterne e da ogni pertugio riemergono eserciti di zampe. Zampe furenti che brulicano, richiamate dall’odore, zampe di topi che vanno a cercarsi i corpi sbalzati fra le vie. E indignano la gente, che li addita scandalizzata. Le donne coprono il viso ai bambini col lembo dei grembiuli. E si prendono per mano, tutti. Si toccano per farsi forza, incitarsi a provvedere – ma a cosa? Caricano i corpi sulle carriole per rovesciarli nei fossi, all’esterno del perimetro domestico che credono al sicuro, mentre intorno è un boato di morte.
Miriam è la sola a tacere. Tutti sbraitano ordini e maledizioni mentre Miriam, in ginocchio, non sa neanche chiedere aiuto. Finché una mano la invita ad alzarsi. E una voce sospira: «Miriam.» Mille volte ancora: «Miriam, andiamo via.»
E lei risponde: «Sono dentro.» Balbetta: «Mi spiace. Ho provato ad avvisarvi per tempo.»
«Non è colpa tua. Andiamo via, amore mio.»
E inizia una fuga. Inizia nell’abbraccio di una madre e una figlia, finalmente insieme, unite dalla speranza. La stessa che anima la folla intorno, la folla che vortica in un girotondo sempre più ampio in cui io stessa, liberata, mi spando.
Sono nei baci dei fratelli, dei consorti. Nelle braccia dei padri che sprangano i battenti. Nelle labbra chine sulle culle che recitano preghiere. Nelle zampe che saltellano, nel morso pungente dei ratti, nelle gocce di saliva che scintillano in volo insieme alle grida. Sono nella vertigine dei corpi sospesi, dal precipizio allo schianto, nelle loro carni sparse sul selciato e in quelle dei corpi integri, madidi di febbre, di cui inizio a cibarmi. Corpi che singhiozzano, e sottovoce mi chiamano Morbo, Malora, Castigo.
Sono la necessità dell’incontro fra quegli uomini inermi che si contemplano, un volto nell’altro, e si riconoscono uguali. Stesse facce dello stesso amplesso. Stessa vita benedetta che risorge sempre, a ognuno nemica e sorella. Assediante e assediata. Bene e male supremo. Malattia che ci attraversa e ci salva.
Foto di IMG4FreeRgood1 da Pixabay
Pezzo ripreso da https://www.nazioneindiana.com/2024/07/25/il-volto-del-nemico/
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